Agli architetti auguro di sentirsi un po’ meno Architetti e di ricordarsi che siamo solo professionisti e non profeti.
Agli urbanisti auguro di sentirsi un po’ più Urbanisti e di ricordarsi che il loro compito è disegnare città nella loro unità e non dormitori, zone industriali, centri storici, verdi pubblici, zone direzionali e commerciali. Auguro loro di ricordarsi anche che nelle città ci abitano i cittadini e che l’urbs è importante ma l’urbs senza civitas è un cimitero.
Ai bio-architetti auguro di ricordarsi che il futuro è nel passato.
Ai professori di Storia dell’architettura auguro di insegnare le diverse verità e non la loro verità.
Ai professori di Composizione auguro di insegnare la progettazione e non la creatività e la fantasia, cioè niente.
Ai professori in genere auguro di insegnare, e basta.
Ai membri di giuria di concorso auguro di essere giudicati con la loro stessa competenza e rettitudine.
Agli architetti delle Regioni…..è meglio non dica cosa ho in testa per non fare peccato di parola, oltre che di pensiero.
Ai miei conterranei toscani auguro di avere una nuova e migliore legge urbanistica (ci vuole poco) che si ispiri al motto evangelico “il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato”.
A tutti coloro che scrivono leggi auguro di ricordarsi che “il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato”.
Ai miei concittadini aretini auguro un futuro migliore del presente (e anche qui ci vuole poco).
Alle archistar auguro un 2010, e oltre, di giusto riposo e meditazione (a Camaldoli e La Verna, troveranno silenzio, accoglienza e indulgenza).
A chi legge il blog ed è d’accordo con me auguro di non pentirsi.
A chi legge il blog e non è d’accordo con me auguro di pentirsi.
A chi ha lasciato commenti auguro, nel 2010, risposte più intelligenti.
A tutti gli amici auguro un 2010 di serenità.
A tutti i nemici …. non sono così importante da averne ma se per caso ce ne fosse qualcuno auguro di passare nella categoria di sopra.
A qualcuno da Hong Kong che da trenta giorni almeno viene immancabilmente a farmi visita, auguro di trovare qualcosa di meglio da fare. Grazie, comunque.
A Ciro, Nikos, Stefano B., Stefano S., Stefano S. (non c’è errore), Ettore Maria, Wittfrida, Giannozzo, Isabella, Paolo, Milena, Pietro P. (non sono io), Guido, Vilma, Sabrina, Enrico D, Enrico B., Angelo, Andrea, Sergio P., Giulio, Leonardo, Michael M., Marco R., Rodolfo, Domenico, Giorgio M., Gabriele, Camillo, Emanuele e a tutti coloro di cui mi sono dimenticato per colpa della mia scarsa memoria e non della mia cattiveria auguro un 2010 che sia come ognuno di loro si aspetta che debba essere.
Buon Anno
Pietro
31 dicembre 2009
BUON ANNO
27 dicembre 2009
UNA LEZIONE DI URBANISTICA
Pietro Pagliardni
Questa domenica mattina dopo Natale, ho ricevuto una lezione di urbanistica andando a comprare latte e pane, dopo due giorni di festa.
Me l’ha data un vecchio amico che abita nella stessa frazione in cui abito io. Non è un architetto, naturalmente, è un orafo in pensione. Persona facoltosa, livello di istruzione penso non superiore alla quinta elementare, inizio come operaio, poi titolare di una ditta orafa, classico esempio di quella generazione di aretini che hanno dato ricchezza alla città, oltre che alla propria famiglia.
Fuori della bottega ci siamo messi a parlare del nuovo Regolamento Urbanistico recentemente adottato. Non ho avuto bisogno di spiegargli niente perché sapeva già tutto o quasi, comunque sapeva l’essenziale:
“Ho visto la cartina tutta colorata (naturalmente dal suo geometra) e non mi piace”.
Gli ho chiesto naturalmente il perché ed è qui che mi ha fatto una inaspettata lezione di urbanistica di alto livello.
Prima devo rapidamente descrivere la situazione dei luoghi: San Giuliano in origine non era niente, poco più che una manciata di case con una bottega lungo una strada provinciale. Oggi è rimasto lo stesso niente, la stessa manciata di case, il centro, ma con una notevole quantità di costruzioni recenti e meno recenti nei dintorni, con due grossi interventi unitari e altri frammentari, quasi tutte scollegati tra loro: tre insediamenti esclusivamente residenziali, due dei quali hanno strade a cul de sac, che hanno appunto come unico centro, ma direi meglio come polo di attrazione, una bottega lungo la strada provinciale, dove si va quasi esclusivamente con l’auto. Un piccolo sprawl, se vogliamo, non dovuto alle distanze o alle dimensioni, che sono modeste e assolutamente pedonabili ma al fatto che si va a piedi solo se c’è la possibilità di incontrare qualcuno o se si attraversa un borgo ma non verificandosi nessuna delle due condizioni, è bene svolgere la “funzione” e tornare a casa prima possibile.
Dunque ecco la lezione dell’orafo-urbanista:
“Non ci voleva mica tanto a capire che qui ci sono tanti quartieri separati e che bastava riunirli con strade per fare in modo che questo (la zona della bottega) diventasse il centro del paese! Invece la zona del Vingone rimane totalmente separata, a 100 metri da qui ma separata, la zona delle case nuove ha una strada che finisce nel niente e bastava portarla avanti che si sarebbe collegata qui”.
Gli faccio osservare che l’idea originaria, niente affatto sbagliata, era proprio quella di dare un centro ad ognuna delle tante frazioni, e questa idea era sintetizzata dal sindaco, ingenuamente ma in maniera efficace, con lo slogan “una piazza per ogni frazione”.
In modo assolutamente sorprendente mi risponde, con un filo d'ironia, con un’espressione di questo tipo:
“Ah, l’idea della piazza antica! Ma prima di tutto contano le strade: unire con le strade per far venire la gente qui in maniera facile!”.
Tralascio tutte le altre considerazioni svolte perché non essenziali al tema.
Questo “ignorante” ex contadino della val di Chiana (e lo dico non perché sono certo che non mi leggerà ma perché è la verità e se lui mi leggesse si riconoscerebbe volentieri in questa definizione) ha capito da solo, senza studiare all’Università, o forse proprio per questo, la sostanza dell’urbanistica. Ha capito quello che l’urbanistica ha voluto dimenticare ormai da decenni e che i vari Caniggia e Salìngaros hanno ripreso e diffuso: la strada, la rete viaria, la permeabilità sono l’elemento primo generatore della città, la piazza ne è la conseguenza.
Voglio forse dire che il piano lo dovrebbe disegnare l’orafo-urbanista, cioè il citadino comune? Certo che no, ma una passeggiata nei luoghi insieme a lui o a persone come lui un urbanista la dovrebbe fare, per capire ciò che a scuola non insegnano, prima di prendere decisioni che poi è difficile cambiare.
L'amico Ettore Maria Mazzola terminava qualche giorno fa un suo commento ad un post precedente con una provocazione:
“Concludo con uno slogan su cui mi piacerebbe discutere: dopo il processo di "periferizzazione" dei centri storici sarebbe il caso di procedere alla "centro-storicizzazione" delle periferie”.
Questa non è una risposta definitiva, però è l’inizio di una risposta.
“A New York, nello East Harlem, c’è un complesso residenziale il cui vasto prato rettangolare è diventato addirittura oggetto di esecrazione da parte degli inquilini. Un’assistente sociale che frequentava l’ambiente fu colpita dall’insistenza con cui l’argomento riaffiorava nelle conversazioni, per lo più, in apparenza, senza una ragione plausibile, e del dispregio che i residenti dimostravano per il prato, chiedendone la soppressione.
Quando l’assistente sociale chiedeva spiegazioni al riguardo, la risposta abituale era “A che serve?” oppure “Chi lo vuole?”; finalmente un giorno un’inquilina più esplicita degli altri uscì in questa dichiarazione: “Quando hanno costruito questo posto, nessuno si è curato di conoscere i nostri bisogni. Hanno buttato giù le case e ci hanno portato qui, e i nostri amici li hanno trasferiti chi sa dove; tutt’intorno non c’è un posto dove andare a prendere un caffè o un giornale o dove trovare chi ti presti cinquanta cents. Nessuno si è preoccupato delle nostre necessità: ma i pezzi grossi che vengono qui guardano il prato e dicono: “Magnifico! Ora anche ai poveri non manca nulla!”.
Crediti:
La foto area di San Giuliano è tratta da Google earth
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24 dicembre 2009
AUGURI
Piero Leggi tutto...
12 dicembre 2009
IL FALLIMENTO DEGLI URBANISTI
Sulle pagine culturali di Repubblica del 10 dicembre compare un articolo di Francesco Erbani dal titolo assolutamente invitante: Noi urbanisti abbiamo fallito.
Lo leggo molto incuriosito, dato che non posso che convenire sull’assunto, nella speranza di trovarvi un’analisi delle cause di detto fallimento.
Il primo urbanista a cui Erbani si rivolge è Leonardo Benevolo il quale esordisce dicendo:
Prosegue denunciando la contraddizione che esiste tra questo abbandono della disciplina e il diffuso interesse che invece c’è per il paesaggio e la sua salvaguardia.
Mi fermo a queste affermazioni di Benevolo anche se nell’articolo ve ne sono altre di Paolo Berdini, di Edoardo Salzano e di Paola Bonora.
Ciò che accomuna i vari pareri è il disincanto e il senso di sconfitta che traspare dalle parole di tutti, ma ciò che manca del tutto è un minimo di analisi delle cause e un po' di autocritica sul ruolo svolto dagli urbanisti, forse appena accennata da Benevolo, in quel riconoscere che “gli atti urbanistici sono diventati enormi pacchi di carte, inconsultabili ed ermetici”.
Chi rimanda le colpe alla politica, chi alla speculazione ma nessuno che si azzardi a riconoscere gli errori disciplinari. Sembra che gli architetti non siano esistiti o abbiano subito chissà quali violenze da parte degli altri attori sulla scena. Benevolo stesso non coglie la palese contraddizione che c’è tra la denuncia, reale, di un’urbanistica ridotta a montagne di carte inutili, e quella della inadeguatezza dell’organico degli uffici urbanistici regionali, che sono in realtà i primi legificatori e produttori di quelle montagne di carta, utili solo a distruggere i boschi che, a parole, i piani intendono tutelare.
Nessuno che si sia posto il problema di come gli architetti abbiano svolto un ruolo politico preminente, invadendo campi altrui. Nessuno che si domandi il perché di un fallimento epocale e provi a domandarsi: ma dove abbiamo sbagliato? Le responsabilità sono sempre degli altri.
Nessuno capisce più gli architetti e gli urbanisti, nessuno apprezza, giustamente, il loro lavoro, dato che le città, cioè il risultato e il prodotto del loro lavoro, sono quello che sono ma la colpa sembra stare altrove. Mi domando: ma se tutti i pazienti dei medici morissero, la colpa sarebbe dei pazienti che non amano la vita o dei medici che non sanno curare?
Se gli urbanisti tornassero a fare il loro lavoro, cioè disegnare la città e non inventare marchingegni normativi fatti per soddisfare le loro ideologie o la loro ossessione del metro cubo o le necessità dei politici di turno, se gli urbanisti si sforzassero di farsi capire dalla gente e di entrare in sintonia con essa, invece che essere strumenti sussidiari o collaterali della politica, se, insomma, avessero l’autorevolezza necessaria per dire “non hai fatto come ti ho detto e tu sei il responsabile”, allora sarebbero credibili. Così, invece, entrando in concorrenza con la politica, alimentano solo un clima di impotenza e di sfiducia che permette alla politica di dire: “io ci metto la faccia, io prendo i voti, io rischio e tu, dunque, architetto, fai quello che dico io”.
Per fare l'urbanista non basta amare e rispettare la città e il territorio, bisogna rispettare i cittadini, ascoltarli, cercare di coglierne i bisogni, fare il possibile e il lecito per accontentare i loro desideri e i loro sogni. Vorrei sapere quanti urbanisti lo fanno con convinzione e non come puro atto formale. Io credo che i cittadini siano i veri soggetti dimenticati dagli urbanisti, oggi che c'è l'obbligo dell'ascolto più che mai, anzi, proprio per questo. Quando va bene l'urbanista si rivolge a determinate categorie di cittadini: i commercianti, gli immigrati, le fasce sociali che necessitano di alloggi sociali, le giovani coppie, gli industriali, ecc.
Leggere quell’articolo è disarmante perché non c’è traccia di ripensamento, di revisione critica dei propri errori e nessuna speranza di intravedere una soluzione al problema, con ciò coinvolgendo anche le nuove generazioni nel loro fallimento.
Edoardo Salzano, ad esempio, nel suo ultimo editoriale sul sito Eddyburg, affronta ancora una volta il tema “consumo di suolo”. Lo fa con argomenti ragionevoli e comprensibili, anche se l’espressione stessa “consumo di suolo” è terrificante perché paventa quasi la morte del pianeta sotto il peso dell’azione antropica, in una visione pessimistica dello sviluppo tout court. Tuttavia, soprassedendo su questo e convenendo invece che è assolutamente necessario, per il bene della città e dei suoi abitanti, di avere una crescita interna alla città stessa, quindi con alte densità, cioè con un numero alto di abitanti per ettaro, ma senza crescere in altezza, non una parola spende Salzano sulla forma e il disegno della città, limitandosi a dati quantitativi e mai qualitativi, con un atteggiamento che, paradossalmente, è simmetrico a quello della speculazione edilizia, cui interessa solo la quantità di metri cubi, naturalmente di segno opposto.
Sembra quasi vi sia una sorta di diabolico, innaturale e indissolubile rapporto tra coloro che vogliono costruire ad ogni costo, e per denaro, e coloro che vi si oppongono ad ogni costo per “salvare il pianeta”. Gli uni e gli altri, pur con intenzioni diverse e opposte, sbagliano e ripetono gli errori già fatti. Vorrei che fosse chiaro che non sono così pazzo da assimilare personaggi che meritano stima e rispetto, non esenti da critiche, quali L. Benevolo e E.Salzano, allo speculatore edilizio, ma dico che sono i due piatti della stessa bilancia il cui peso maggiore è sempre e comunque da una sola parte.
La battaglia sulla quantità è perdente per definizione, perché il mercato è più forte della politica e degli architetti e, se non lo fosse, significherebbe vivere in un regime autoritario e dirigista, come in effetti spesso accade.
Io credo che la battaglia può essere combattuta solo sul piano della qualità, del disegno, perfino del bello non su quello del “quantum”, del metro cubo. Occorre proporre alla gente e agli operatori uno scambio e un patto ragionevole: città belle e vivibili in cambio di qualche metro cubo in più, città simili a centri storici e non periferie squallide, senza centellinare il metro cubo.
La città storica è molto densa, molto vivibile e molto appetibile, a giudicare dai valori immobiliari. Il mercato dice quasi sempre il vero.
Crediti: L'immagine della Torre intoretto è tratta dal blog parlaBrescia.it
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6 dicembre 2009
UNA CITTA' DIVERSA E' POSSIBILE: LEON KRIER E PIER CARLO BONTEMPI (2)
Pietro Pagliardini
Continuo la pubblicazione di alcuni documenti e progetti del workshop del 2002 su Arezzo redatti dall’Arch. Pier Carlo Bontempi. Inizio con un estratto dalla relazione di presentazione del progetto.
Pier Carlo Bontempi racconta di una sua visita privata, con famiglia, ad Arezzo e descrive il panorama che si vede dalla sommità della città:
“Bene, guardando il panorama verso nord i miei figli hanno commentato dicendo: “ma qui è bellissimo, non si vede la città moderna”.
Questo mi ha fatto riflettere su una grande opportunità che Arezzo ha, forse unica fra le città di una certa dimensione in Italia, di aver potuto mantenere almeno in una sua parte il fantastico rapporto che doveva esistere in tutte le città italiane fra la città murata e il paesaggio della campagna.
Questo grande valore che avete il dovere di tramandare ai vostri figli così che possa continuare la piacevole sorpresa, che c’è stata per i miei, di vedere ancora tra cento, duecento o trecento anni questa porzione di campagna , che arriva fin sotto le mura della città e che costituisce uno spettacolo straordinario. Mi perdoni il sindaco che ha citato personaggi illustrissimi che hanno lavorato ad Arezzo, ma è forse la cosa più unica che avete ad Arezzo; affreschi bellissimi ci sono in altre città, Cimabue ha fatto qualche altro crocefisso altrettanto straordinario, ma una porzione di paesaggio quasi incontaminato, o che può tornare ad esserlo, fin sotto le mura di una città di grandi dimensioni come la vostra, forse non esiste in nessun altro luogo in questo straordinario paese.
Sono stato anche abbastanza fortunato quando Calthorpe ha deciso, discutendo insieme a noi, quale dovesse essere il tema che toccava a me sviluppare in questa settimana di lavoro, di assegnarmi questa porzione di città che guarda a nord verso la campagna.
L’idea che mi è venuta affrontando questo tipo di tema è stata quella di non trattare questa zona come un quartiere urbano, ma di considerare quella zona, la Catona, piuttosto come l’ultimo paese della campagna che si avvicina alla città, anziché un nuovo quartiere urbano che si espande e che chiude la cintura moderna intorno alla città storica.
Per questo il disegno credo sia abbastanza rappresentativo della idea che ha guidato il mio lavoro, cioè quella di circoscrivere l’abitato esistente all’interno di una cintura verde e arrivare ad una sua definizione per dargli maggiore qualità, perché se andiamo a vederlo dall’alto delle mura ci appare bello, se andiamo a percorrerlo per le strade, ci appare ancora con qualche problema da risolvere.
Allora il mio tema è stato quello di definire in maniera precisa l’insediamento come un paese di campagna, che si accosta vicinissimo città ma il cui linguaggio rimane separato dalla città. (Omissis)
Credo che l’immagine possa servire a suggerire il tipo di architettura che mi permetto di indicare come proposta per gli sviluppi edilizi nuovi all’interno di questo, che deve mantenere il carattere di un paese. E’ una edilizia che riprende il patrimonio straordinario che avete nelle vostre campagne, che lo adatta in funzione delle necessità contemporanee ma che cerca di dare una risposta in sintonia con il paesaggio straordinario che deve accoglierlo”.
L’aspetto che Bontempi coglie del rapporto stretto tra la città e la campagna nel lato nord di Arezzo è una costante in tutte le osservazioni e le descrizioni che i viaggiatori hanno lasciato della città fin dall’800. La forma a ventaglio di Arezzo il cui lato nord è segnato dalle mura che marcano ancora il confine reale e visibile tra città e campagna è stata colta sempre anche dai redattori dei piani urbanistici. Il vigente piano di Gregotti e Cagnardi aveva chiamato questa parte nord “I giardini di Arezzo”, lasciando un cono libero che partiva dalle mura fino alla corona di colline che racchiudono la piana di Arezzo a nord, proprio per mantenere e conservare questo carattere unico e distintivo della città che non si è espansa in quella direzione per motivi geografici, climatici e di rapporti territoriali.
Anche il consulente del Piano strutturale, Peter Calthorpe, ha individuato subito questa caratteristica peculiare e straordinaria, descrivendola, con l’entusiasmo tipico del viaggiatore americano, come la possibilità, dalle case del centro storico, di sentire ancora il canto del gallo (citazione a memoria).
E’ davvero una percezione immediata e istintiva che non necessita nemmeno di essere razionalizzata in chissà quali ragionamenti per essere dimostrata vera: è l’essenza stessa della città di Arezzo, orientata a sud, aperta ad est e ad ovest, ma chiusa a nord.
Ma non c’è niente da fare, nonostante questa evidenza c’è una scuola di pensiero, chiamiamola così, che ritorna ciclicamente ed è convinta che quel vuoto a nord sia una mancanza invece che una risorsa e che la città debba essere “richiusa a nord, come tutte le altre città”. Eppure questa espressione dovrebbe far venire il dubbio che forse sarebbe meglio conservare questo carattere distintivo della città. Questa scuola di pensiero ha evidentemente lavorato bene, tanto da fare accettare allo stesso Calthorpe il fatto di costruire in quella direzione.
Pier Carlo Bontempi si inserisce in questo dibattito con un compito ben preciso che è quello di dare forma al nuovo insediamento e lo fa in maniera egregia, cogliendo questa contraddizione e tentando di risolverla con un progetto che è “l’ultimo paese della campagna che si avvicina alla città, anziché un nuovo quartiere urbano che si espande e che chiude la cintura moderna intorno alla città storica”. Evidentemente ha capito che quell’insediamento è una scelta sbagliata, e come lui Calthorpe, e lucidamente tenta di limitare il danno.
Purtroppo la forte vicinanza alle propaggini della città, a quella fascia di edificato disordinato che lui garbatamente descrive come un’area che “ci appare ancora con qualche problema da risolvere” impedirebbe comunque di leggerlo come l’ultimo paese prima della città, non essendo nemmeno orientato lungo la direttrice d’ingresso.
Il vero problema è che non si sarebbe mai dovuto costruire in quel luogo, tantomeno incrementare l’insediamento.
Ma, restando all’interno di questo equivoco, il progetto è comunque significativo per la capacità di integrare l’esistente con il nuovo e di creare un villaggio che ha una sua autonomia urbanistica, un centro, una rete di strade continua e gerarchizzata e orientata in modo da lasciare visuali libere verso il paesaggio e verso le mura. Il problema è che dubito che sarà realizzato con questo impianto o con uno simile, tenuto conto delle inclinazioni culturali del redattore del piano, subentrato a Calthorpe che è stato ritenuto evidentemente un ostacolo, di genere del tutto diverso, altrimenti questi progetti sarebbero stati tirati fuori e mostrati.
L'assoluta casualità ha determinato il fatto che ad Arezzo si concentrasse il meglio del New Urbanism e di quel movimento europeo che punta alla riscoperta dell’urbanistica e dell’architettura tradizionale -Calthorpe, Lèon Krier, Per Carlo Bontempi- la volontà comune ad amministrazioni di diverso colore che si sono succedute ha voluto che quell’anomalia fosse cancellata a vantaggio di un’urbanistica burocratica senz’anima e senza altro scopo che non sia il controllo totale sui cittadini e sui processi naturali che regolano la crescita della città.
CREDITI:
La foto aerea è tratta da Google Earth. Le immagini dei progetti di Léon Krier e Pier Carlo Bontempi sono fotografie da me eseguite durante l'esposizione al workshop. Gli stralci delle relazioni sono state ottenute sbobinando registrazioni da me fatte durante la presentazione.
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3 dicembre 2009
MINARETI CONTESTUALIZZATI
Pietro Pagliardini
Guardando nel link che segue queste 12 foto di minareti sparsi in ogni parte del mondo non è difficile riconoscere, per una buona metà di essi, la regione geografica in cui essi si trovano:
Ci sono alcune stranezze, è vero, come una Giralda a Parigi, ma complessivamente queste moschee hanno saputo assimilare alcuni caratteri architettonici dei luoghi, pur conservando intatta la loro riconoscibilità di luogo di culto islamico.
Si potrà attribuire questo fatto al carattere fortemente identitario di quella religione, si potrà ipotizzare una sapiente strategia di penetrazione, si potrà perfino pensare ad una cultura che non ha fatto i conti con la modernità, in specie dal punto di vista sociale e politico, si potrà dire tutto quello che si vuole ma resta questo fatto: le moschee sembrano avere la capacità di conservare la loro forma tradizionale e contemporaneamente di adattarsi, per quanto possibile, alle varie realtà. Le chiese cattoliche hanno, invece, perso l'una e l'altra.
Ma è davvero inevitabile la coesistenza tra tradizione e modernità, identità e tolleranza? Dobbiamo proprio rassegnarci alla scelta tra una modernità indistinta, vuota e relativista, e una tradizione identitaria ma anti-moderna e totalizzante? Leggi tutto...
1 dicembre 2009
UN ACUTO "SPROLOQUIO" SULL'ARA PACIS
Un amico, medico bolognese con una grande passione per l'architettura e l'arte, mi ha scritto queste sue impressioni sull'Ara Pacis ed io, con il suo consenso, le pubblico perché i suoi "sproloqui" sono molto acuti oltre che divertenti.
Pochi giorni fa ero a Roma, e avendo un paio di ore libere, ho pensato di recarmi di persona a vedere la scatola di Meier sul lungotevere (o, come si dice da sempre nella mia famiglia, sul "Lungarno del Tevere").
Sull'opera di Meier è già stato detto tutto e il contrario di tutto; aggiungo, per quel che valgono, le mie personali impressioni.
La "scatola" come oggetto è decisamente asettica e anonima. E probabilmente è così che vuole essere. Sembra pensata per essere un corpo estraneo, privo di fronzoli, che non si mette in contatto né in rapporto con gli edifici circostanti (chiesa di San Rocco e un'altra che adesso non ricordo).
Eppure, mi trasmetteva un senso di familiarità, di conosciuto. Ho impiegato qualche minuto a capire la ragione di ciò: è un semplice, banale, capannone!
Nella mia regione, ma non solo, il capannone è un mito, un sogno. Qualsiasi contadino ne vuole uno, meglio magari due, possibilmente vicino-vicinissino a casa. Non importa se rende scomodo l'accesso alla proprietà, non importa se poi mancano i soldi per terminare la casa, o per arredarla. L'importante è erigere un bel parallelepipedo in cemento armato e mattoni, con tetto in elementi prefabbricati, per contenere macchine e macchinari che magari non ci sono, ma....un capannone è per sempre....
Appena poi un esponente di questa tribù, che non rischia l'estinzione, si trasforma in piccolo imprenditore nel commercio o nell'artigianato, bisogna dotarsi di un capannone "moderno". Solo sulla via Emilia, nei 40 chilometri tra Bologna e Modena, ci sono almeno una cinquantina di capannoni che non hanno nulla da invidiare all'opera di meier. Che sia un concessionario auto, una mostra di mobili o di macchine agricole, un centro di bricolage, o di statue da giardino, la tipologia standard è sempre quella. Forme squadrate, ampie vetrate, colore uniforme, con qualche raro elemento caratterizzante, tipo bandiere o pinnacoli vari. Elementi pseudo-decorativi tipo mensole, graticci, paraventi giganti, si sprecano.
La teca di Meier ripropone lo stesso modello, che tutto sommato è entrato nell'orizzonte comune di tanti.
Ma, essendo un'opera architettonica e non una statua, occorre valutarne, oltre l'estetica, anche l'aspetto funzionale.
Orbene, per chi arriva all'Ara pacis dal centro (via Tomacelli), non c'è dubbio che l'oggetto si presenta in modo inequivoco: nome e destinazione sono scritti a caratteri cubitale sulla parete sud; e il gioco delle scale, fontane, muretti, indirizza il turista all'ingresso senza possibilità di errore.
Ma se, per ventura, qualcuno decide di arrivare da nord, nessun segnale, nessun indizio permette di presagire che quel muro bianco è quello che è, e non il retro di una stazione di servizio, o di un ristorante cinese, o di un qualsiasi altro edificio.
In prossimità dell'angolo di nord-ovest, all'inizio della enorme parete, vetrata, una vera e propria porta, con tanto di maniglia, invita all'ingresso, ma è chiusa; solo un foglietto vergato a mano, indirizza verso la giusta direzione.
L'enorme parete trasparente, consente una buona visione dell'interno dell'"hangar" in cui sorge il monumento augusteo. Lo spazio candido è suggestivo e spoglio; forse anche troppo spoglio. Dall'esterno si può agevolmente ammirare l'altare romano, ma anche angoli disadorni, porte chiuse, seggiole vuote, bianche pareti sterminate.
Giunti all'ingresso, appena dentro, una squallida biglietteria, che funge anche da bookshop, intercetta il visitatore: l'entrata costa 7 o 8 euro, e comprende anche l'accesso a mostre temporanee ospitate nei sotterranei (credo).
Per vedere un poco più d'appresso ciò che si vede gratis da fuori è piuttosto caro. Come me devono pensarlo anche altri turisti, tra cui due gruppi di giapponesi.
Ed ora, qualcosa sui materiali. Da quel che posso capire, si tratta di vetro, e di travertino. Parrebbe una scelta in linea con la tradizione locale. ma c'è un ma: superfici tanto vaste, uniformemente lisce, in tale materiale, assumono (hanno assunto) in pochi anni un aspetto polveroso di sporco, assai poco elegante. Effetto inevitabile, potremo dire, ma che in altri palazzi del centro di Roma, è mitigato dai motivi decorativi che, paradossalmente, possono addirittura giovarsi, entro certi limiti, di un certo grado di accentuazione dei contrasti.
Per non farmi mancare niente, termino con qualche nota su come, se fossi stato architetto e fossi stato interpellato, avrei affrontato il lavoro.
1) Dovendo valorizzare un monumento prezioso, ma non maestoso, avrei cercato di valorizzarne il candore marmoreo, cercando il contrasto con qualcosa di verde, tipo prato. (in antico l'opera era colorata, ma adesso no!). Ovviamente occorrerebbero sentieri di avvicinamento in materiale calpestabile, non "fangoso".
2) Trattandosi di opera non molto grande, non è conveniente poterla osservare già a grande distanza. Nulla di male a strutture che la nascondano fino a che si giunga ad una distanza giusta per osservare e godere.
3) L'accesso deve essere libero e gratuito, trattandosi di un monumento-messaggio che da duemila anni inneggia alla pace. Un buon punto ristoro-bookshop nelle vicinanze può garantire un gettito certamente considerevole.
4) Negli spazi sotterranei, non mostre temporanee avulse dal contesto, ma un percorso dedicato al monumento stesso, alla sua storia, al suo restauro, ad altre antichità romane; magari a pagamento.
5) Come progetterei la "casa" dell'Ara pacis? Una struttura che la racchiuda, e la nasconda, pur essendo aperta; qualcosa del tipo un giro e mezzo di spirale, composta di un'unica struttura o di più pannelli affiancati, curvilinei, o a segmenti spezzati, che racchiudono un'area non troppo vasta, a prato, con al centro l'ara. Per dare un'idea, se l'ara è di circa 8x15 metri, considerare una superficie di 20x40.
6) Le mura di questo specie di pozzo semiaperto potrebbero essere high-tech, o in muratura, o in marmo, o un misto; potrebbero essere nude, o decorate con inserti in marmo. Ci si può pensare. L'altezza deve essere tale da conferire dignità e proporzione all'esterno anche da una certa distanza. Se la larghezza media fosse di una trentina di metri, bisogna considerare almeno un 16-18 metri in altezza.
7) Importante la copertura. Penso che un simile monumento debba ricevere la luce dall'alto. (Augusto era un dio; la pace è il sommo dono celeste). La tecnologia moderna consente una infinità di soluzioni, dai tempi della copertura dello stadio olimpico di Monaco'72. Da prevedere le conseguenze del tempo, dello smog e le possibilità di pulitura.
Scusa per lo sproloquio, e per...l'invasione di campo !
Enrico
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