29 Maggio: consueta ricerca notturna su Corriere.it, voce: architettura:
La Torre è salva: non si muove più
Mi prende un colpo perchè immagino che la banana di CityLife, che avrebbe dovuto raddrizzarsi, invece resta com'è, moscia!
Scorro l'articolo e invece la Torre è quella di Pisa la cui inclinazione è stata definitivamente arrestata.
Come ho potuto compiere sacrilegio accostando la Torre di Pisa al grattacielo di Libeskind!
30 maggio 2008
SACRILEGIO!
29 maggio 2008
ARCHITETTI, MODA, PUBBLICITA'
Pietro Pagliardini
Non ho ancora letto il libro di Franco La Cecla “Contro l’Architettura”, Bollati-Boringhieri, € 12,00, recensito da Pierluigi Panza sul Corriere della Sera, perciò mi limiterò a qualche considerazione sul tema affrontato dall’articolo, cioè: La moda ha ucciso l’architettura.
Italo Rota:«La moda non ha ucciso nessuno: un paio di jeans di Cavalli che migliorano la forma di un 60enne lo aiutano a vivere meglio, così come una casa a Dubai, che costa meno che in Brianza. La Cecla parla dello 0,1% del mondo degli architetti e ignora quindi il 99,9% dei problemi. Ad esempio, il fatto che i costruttori si stiano già spartendo le aree per l' Expo di Milano». Come dire che il problema c’è solo a Dubai e non invece in tutta Europa, nelle capitali e non solo, e non solo per lo 0,1% degli architetti ma per tutti i loro numerosi emuli che scimmiottano, in piccolo e in grande, quel tipo di architettura, modificando così in maniera violenta un atteggiamento culturale degli architetti i quali ormai pensano, nella stragrande maggioranza, di avere il dovere di essere “creativi” e liberi da regole (progettuali intendo, e non edilizie-urbanistiche, che queste sì sono il vero patrimonio “culturale” dell’architettura del nostro tempo e che vengono addirittura insegnate all’università). Ci sarebbe poi da dire qualcosa sul fatto che gli interventi edilizi alla scala e del tipo che vengono eseguiti e proposti a Dubai possano innescare nel mondo arabo un processo di identificazione tra le mostruosità dell’architettura e il mondo occidentale, identificando perciò queste operazioni immobiliari come una forma di colonialismo economico e culturale. Ed è molto strano che vi sia chi è fortemente critico sull’idea dell’esportazione con la forza del modello democratico - critica del tutto legittima - ma non trovi poi niente da ridire su questa forma di imposizione imperiale di un modello culturale che è violento e straniante per lo stesso occidente, in particolare per l’Europa., a maggior ragione per un mondo in cui è esasperato il valore dell’identità culturale e religiosa.
Ma il vero problema, dice anche Rota, è che a Milano si stanno spartendo le aree dell’Expo; ma cosa diavolo c’entra la speculazione edilizia (che non credo sia solo a Milano) con il discorso di La Cecla? Mi sembra che il miglior modo per non parlare di architettura sia quello di rifugiarsi nella denuncia della speculazione, specie quando non ci siamo dentro.
Mario Botta ritiene veritiere le critiche di La Cecla, ma toccano, afferma, «solo una degenerazione impietosa del nostro tempo. È vero che la moda ha spopolato in settori non solo di costume attraverso la pubblicità e altre forme edonistiche del vivere. Ora sembra contare solo l' immagine, ma non è così: l' architettura resta costruzione dello spazio in rapporto con un contesto, un' attività che lavora sul territorio della memoria. L' architettura è il risultato delle forze fisiche relative al processo di creazione. Se sono in atto solo quelle edonistiche è chiaro che la forma finale sia quella del decostruzionismo contemporaneo. Ma anche la moda passerà di moda». Questo giudizio è molto più assennato e profondo, peccato che, ammesso che passi la moda, gli edifici non si possono mettere nell’armadio come i vestiti dell’anno precedente. E non ci si possono mettere, aggiungo, neanche i cilindri, i cubi e i tronchi di cono di cui ha disseminato il mondo, pur riconoscendo la differente scala di valori tra l’architettura di Botta e quella, che so, di Libeskind.
Per Vittorio Gregotti che condivide in parte l’analisi di La Cecla, ma rifiuta la critica di «non assunzione di responsabilità» da parte degli architetti che hanno costruito alloggi popolari in periferia, lo Zen di Palermo è diventato un vero tormentone vicino ad un incubo.
Entra nel merito invece Angelo Crespi, direttore de il Domenicale:
Ogni civiltà ha costruito case che rappresentavano un modo di pensare e vivere; i nostri architetti fabbricano alloggi e mausolei per futuri cadaveri. Pensiamo alle periferie ideate dai modernisti: sono luoghi orrendi, degradati, in cui gli abitanti hanno come disvalore di riferimento il brutto. Pensiamo invece a quanto i borghi medievali, costruiti senza l' ausilio di urbanisti e architetti, siano integrati nel paesaggio e funzionali alla vita umana. L' architettura e l' arte hanno rinunciato a pensare in termini di bellezza.
Io penso che La Cecla abbia centrato il problema; aggiungerei però che il fenomeno non è limitato al mondo delle griffe di moda - anche se questo è il più importante e omogeneo con il processo che genera le archistar - perché le strategie di marketing di molti prodotti da pubblicizzare utilizzano come sfondo paesaggi urbani costituiti da architetture contemporanee di archistar o similari.
Alcuni esempi a memoria:
1) Per un modello di BMW c’è un uomo che esce dall’acqua gelida di una piscina all’aperto, in pieno inverno, contento come una pasqua, e sullo sfondo c’è una villa da incubo con due volumi sovrapposti come due blocchi di ghiaccio ruotati l’uno sull’altro. Evidentemente si vuole trasmettere un senso di perfezione e pulizia di forme, ma anche una totale disumanità in quel signore che esce, privo di sensorialità corporea, dal gelo dell’acqua al gelo dell’aria.
2) Una nuova auto Ford si aggira invece fra le strade di un borgo antico ma, guarda caso, trasfigurato in un enorme plastico di colore bianco, alberi finti compresi: ancora più perverso perché si prende una città antica e la si sublima completamente, togliendole proprio quegli attributi che la rendono reale e adatta all’uomo, cioè la materia con la sua grana e le variazioni cromatiche.
3) Per un dentifricio che promette di ricostruire lo smalto dei denti, c’è il ricercatore che creato la formula intervistato nel suo ufficio asettico, da manager, entro un grattacielo, con sullo sfondo una vetrata da cui si vedono altri grattacieli di acciaio e vetro.
Quando si vuole vendere qualcosa che ha a che fare con la tecnologia e con la ricerca, l’architettura volutamente scelta è quella della perfezione geometrica dei volumi semplici, della mancanza di colore, in grado, si presume, di rappresentare la modernità.
La natura, la campagna e i borghi medioevali sono invece funzionali ai prodotti alimentari che devono comunicare genuinità, tradizione, tipicità e appartenenza ai luoghi.
E’ vero che talora anche le auto corrono nella natura ma il più delle volte, come in uno spot BMW, è una natura arida, attraversata da un nastro sinuoso di asfalto lucente, con dominante plumbea, totalmente artificiale.
Il modello che si impone, in generale, è dunque questo:
prodotto a forte valenza tecnologica - architettura decostruttivista o high-tech
mentre il modello che si impone nella moda è, mutuando dalla matematica:
la griffe della moda sta all’ abbigliamento di tendenza come la griffe dell’architettura sta architettura di tendenza.
Potrebbe perciò sembrare che moda ed architettura fossero due termini omogenei ed infatti molti difensori della “modernità dell’architettura” si appellano a questa presunta analogia per rivendicare che l’architettura capace di rappresentare la contemporaneità non possa che essere quella dei vari Koolhaas, Libeskind ecc. Questo è un equivoco lampante perché tale analogia è possibile solo nel campo della comunicazione visiva - che poi è comunicazione pubblicitaria - ma non nella realtà urbana che è costituita e vissuta da uomini che affrontano ogni giorno la propria vita reale e non da attori che girano uno spot pubblicitario. La trasposizione di uno scenario da video clip pubblicitario nelle città le renderebbe tutte al pari di immensi studi televisivi in cui il 100% del tempo è occupato da pubblicità senza interruzioni e pause per la vita reale; lo slogan “non interrompere un’emozione”, usato nel referendum contro la pubblicità televisiva assumerebbe significato inverso: “non interrompere la pubblicità a favore della vita”.
L’architettura non è merce da buttare quando è passata di moda ma è l’ambiente “naturale” di vita dell’uomo e farne uno scenario da film di cartapesta significa distruggere le basi su cui è nata la città europea e tutta la sua civiltà ed anche la percezione che l’uomo ha di se stesso nel proprio ambiente.
E’ tra l’altro curioso osservare come coloro i quali giudicano mistificante il ritorno a tipologie e forme del passato in architettura, perché pura finzione, non colgano poi la stessa contraddizione, all’ennesima potenza, che si presenta proprio nella città della comunicazione che, per definizione è totalmente virtuale.
Non ho assolutamente niente contro la pubblicità, che è forse l’espressione artistica veramente capace di rappresentare il nostro tempo perciò, se alla vendita è funzionale quell’immagine, per me va benissimo ma sarebbe bene che gli architetti, oltre a saper tirare linee, avessero la capacità critica di discernere tra il linguaggio che è funzionale al mercato delle merci e il linguaggio dell’architettura e della città, che è funzionale alla vita dell’uomo.
La foto dello spot Ford è tratta da You-Tube
Il nudo è tratto dal Corriere della Sera
25 maggio 2008
DESTRA O SINISTRA, LA CITTA' E' DI TUTTI I CITTADINI
Pietro Pagliardini
C’è un articoletto nella Terza pagina del Corriere di sabato 23 maggio che titola: Urbanistica: la destra si prende un tema di sinistra.
Nel sito internet dello stesso giornale c’è un articolo su Alemanno che boccia il litorale di Fuksas non per il "merito", che dice di non conoscere, ma per il “metodo”, in quanto questo incarico sarebbe stato dato a Fuksas da Veltroni ad personam, al pari di quello dell’Ara Pacis dato a Meier da Rutelli.La frase di Alemanno riportata sul giornale è la seguente:
“Del progetto Fuksas su Ostia so poco, anche perché è uno di quei progetti calati dall' alto sul territorio. Noi, invece, vogliamo indire bandi reali e pubblici che permettano a tutti gli architetti di partecipare. È finito il tempo degli incarichi ad personam”.
Voilà, risolti i problemi dell’urbanistica e dell’architettura con la “legalità”.
A parte il fatto che non credo che gli incarichi a Meier e Fuksas fossero irregolari sotto il profilo amministrativo altrimenti ci sarebbe stata qualche denuncia (immagino che quello di Meier sia stato dato tra le pieghe delle varie modifiche della Merloni e quello di Fuksas sia un project o simile). Se, viceversa, fossero irregolari perché i due sindaci sarebbero usciti impuniti? Come minimo gli ordini professionali, vestali della legalità (o meglio dello status quo)avrebbero denunciato qualcosa.
Ma, questioni legali a parte, il problema è ben diverso, è culturale e politico: quando Alemanno vuole indire bandi e concorsi regolari dice una cosa ovvia (la legge va rispettata) ma con i metodi attuali di selezione dei progettisti e/o dei progetti che garanzia di qualità c’è? Secondo me (e secondo i risultati) nessuna; ma ,soprattutto, visto che Alemanno si è presentato con l’idea di demolire o modificare o spostare la teca dell’Ara Pacis non credo sia stato spinto solo dalla presunta irregolarità dell’assegnazione dell’incarico ma dalla qualità del prodotto finale, davvero pessima. E se vuole chiamare Vittorio Sgarbi come consulente, non credo che lo vorrà utilizzare come super-burocrate addetto alla verifica di regolarità dei concorsi, anche perché sarebbe la persona meno adatta; suppongo che sia stato prescelto per le sue capacità di critico d’arte e di architettura, per la sua ben precisa visione dell'architettura che non collima né con quella di Meier né con quella di Fuksas, tantomeno con quella di Libeskind e compagnia.
Qual è il problema allora? Quando Alemanno parla di “progetti calati dall’alto”, per “alto” intende riferirsi a due circostanze:
1. il fatto che l’incarico è assegnato direttamente dal potere (il sindaco, in questo caso);
2. il fatto che la civitas subisce i progetti senza poter discutere.
A me sembra molto più interessante il secondo fatto, anche se i due sono intimamente legati perché la procedura per arrivare all’incarico non è affatto indifferente alla soluzione del secondo problema.
Personalmente - ma mi rendo conto di fare un’affermazione impopolare - non mi scandalizza che colui che ha avuto la fiducia della città attraverso il voto abbia il diritto, e aggiungerei il dovere, di scegliere chi vuole, colui in cui crede e che ritiene adatto alla realizzazione dell’idea di città che egli possiede(o dovrebbe possedere.
Naturalmente so che una legge moralistica esistente non lo consente ma io faccio un ragionamento generale visto che, se Dio vuole, le leggi si possono criticare e, incredibile a dirsi, perfino cambiare. Il sindaco, con il sistema elettorale vigente, ha un potere reale e simbolico straordinario, viene votato, il più delle volte, a prescindere dall’appartenenza politica; non a caso, quando si parla di riforme costituzionali, per riconoscere più poteri al Presidente del Cosnsiglio si dice che dovrà essere il “Sindaco d’Italia”. Superfluo aggiungere che il Sindaco può essere sfiduciato dal Consiglio oppure può essere non rivotato la volta successiva. Democrazia non vuol dire che nessuno deve avere potere (ma parlerei anche e forse più di responsabilità) ma che ci sono organi che bilanciano quel potere, per evitare che ne prenda troppo; soprattutto vuol dire che i cittadini giudicano e poi confermano o mandano a casa.
Detto questo, il problema vero è il secondo fatto: poiché, come dice il prof. Marco Romano (vedi post Archittetura come arte civica 2) “La civitas costituisce in se stessa, nella specifica organizzazione dialettica della sua democrazia, il committente dei temi collettivi, e per questo la loro grandiosa dimensione, come abbiamo accennato, li rende espressivi del suo desiderio di manifestare il proprio rango”, allora, per i temi collettivi, cioè per quelle opere in cui la città si riconosce tutta, deve essere la civitas stessa a scegliere e decidere. Questa affermazione potrà sembrare a qualcuno demagogica, ad altri nostalgica, ad altri ancora entrambe, invece è semplicemente un’ovvietà; è solo questione di individuare bene metodi che non trasformino una scelta democratica in una tattica dilatoria per non decidere un bel niente, in aggiunta alle tante trappole burocratiche che ci sono nel percorso di approvazione di un’opera.
Con la legge attuale non solo il Sindaco non decide niente ma anche i cittadini subiscono i progetti senza poter attribuirne la responsabilità a nessuno, perché scelgono “gli esperti”, molto spesso architetti docenti di qualche cosa in qualche facoltà universitaria, i quali sono assolutamente non responsabili rispetto alle decisioni di merito prese, visto che il giudizio delle commissioni è insindacabile.
Tralasciamo per adesso lo scambio di figurine che viene fatto nei concorsi fra commissari e partecipanti, per cui c’è una specie di compagnia di giro i cui attori una volta assumono un ruolo e una volta l’altro; non si tratta tanto di corruzione in senso stretto ma di affermazione e consolidamento di potere e rendite di posizione. E’ cosa assolutamente nota a chiunque partecipi a concorsi, per cui con questo sistema se il progetto alla fine è quello sbagliato, e lo è quasi sempre, non sono responsabili i giurati, non sono responsabili i progettisti perché sono stati giudicati dai giurati, non è responsabile il Sindaco perché non ha avuto voce in capitolo (l’unica cosa che può fare è non dare attuazione al progetto, con grande frustrazione di tutti) e la città subisce un progetto senza fiatare.La difesa (debolina)che viene fatta di questo sistema è che i bandi sono fatti male, che ci vuole sempre il mitico “documento preliminare della progettazione” che deve spiegare bene le intenzioni dell’amministrazione e che la giuria si deve attenere rigorosamente a quello. Cioè, le sorti di una città vengono assegnate ad uno strumento prettamente burocratico, ad una procedura, il più delle volte scritta da qualcuno che non sa scrivere e che, se la commissione non lo rispetta, non si sa bene come fare ad annullare il concorso.
Prendiamo il caso Ara Pacis e ipotizziamo che, a seguito di regolare concorso, fosse stato redatto il famigerato documento. Certamente questo avrebbe contenuta l’indicazione di “rispettare le caratteristiche storiche, ambientali, artistiche ed architettoniche del contesto su cui dovrà sorgere l’opera”. Ma è proprio su queste considerazioni che i difensori (pochi) dell’Ara Pacis si basano, dicendo che la teca “valorizza” l’Ara Pacis, perché la storia si rispetta rendendola “viva” ed attuale, bla, bla, bla. Mai fidarsi dell’architettese, figurarsi di quello declinato in forma burocratica nei documenti di progettazione!
Non parliamo poi delle gare di progettazione al massimo ribasso o che comunque non prevedono il progetto per l’assegnazione, perché siamo alla lotteria di capodanno: raramente vincono i più bravi ma i più grossi, e raramente i grossi, dopo aver fatto anche un forte ribasso, hanno tempo da perdere per farsi condizionare dall’Amministrazione durante la progettazione, casomai avviene proprio il contrario.
Io credo che, come avrò detto almeno in quattro post, la soluzione per i progetti importanti che, secondo la definizione di Marco Romano, rappresentano temi collettivi (non certo per un campetto di calcio) si possa seguire sia la gara di progettazione (con qualche correttivo) che il concorso di progettazione, ma con giuria in cui il sindaco possa scegliere almeno un “esperto” di sua fiducia e almeno un amministratore sia giurato. Dopo di che si dia la parola anche ai cittadini, con un voto ovviamente consultivo ma ugualmente significativo. Ripeto per l’ennesima volta che in Olanda si è fatto e si continua a farlo tuttora quindi è possibile.
Un’amministrazione efficiente può guadagnare due mesi nelle operazioni successive per la realizzazione dell’opera in cambio di due mesi “persi” per fare esprimere i committenti e gli utenti dell’opera stessa.
Se poi una scelta come questa sia di sinistra o di destra non saprei dire: a me sembra solo la scelta giusta.
Elenco dei post che trattano ossessivamente lo stesso argomento:
Architettura come arte civica- 2
Architettura come arte civica: il caso CityLife
L'ide di Politca e Architettura di Mimmo Paladino
Referendum per demolire o referendum per costruire?
I cittadini e la politica scelgano, non gli architetti
24 maggio 2008
NORMAN FOSTER RIPROGETTA UN EDIFICIO PER LA PACE DEL VICINATO
Pietro Pagliardini
Sul New York Times del 14 maggio, il terribile critico d’architettura Nicolai Ouroussoff, terribile perché sfegatato modernista anche se talvolta fortemente critico con le archistar (ha bocciato irrimediabilmente il progetto di Meier per l’Ara Pacis e ha criticato l’edificio in cui egli stesso lavora, di Renzo Piano)racconta le vicissitudini di un progetto di Norman Foster nella Madison Avenue.
Il primo progetto prevedeva una torre di 30 piani come “ampliamento” di un edificio anni ’50 e su questo infilato proprio al centro.
Il comitato del consiglio della comunità dell’East Upper Side (che immagino sia una sorta di commissione edilizia) ha giudicato questo progetto poco rispettoso del contesto e con esso troppo in contrasto e il committente, una società immobiliare, ha chiesto a Foster un altro progetto.
Quest’ultimo si sovrappone esattamente al perimetro dell’edificio esistente ma un vuoto lo stacca da questo ed è rivestito con bande orizzontali di bronzo.
Ouroussoff se la prende con il parere della commissione non tanto per il progetto in sé stesso quanto per i principi che esso sottende e fa alcune considerazioni nel merito, anche piuttosto pertinenti.
Ouroussoff scrive:
Ma il nuovo progetto è più garbato e meno originale, in ossequio al punto di vista reazionario(sic!) che la maggior parte dell’architettura contemporanea è migliore quando è invisibile.
Dal confronto, il progetto di forma ovale (la torre) rispetto a quello con facciata in bronzo, sembrava essere piuttosto ingegnoso e misurato. Ancora, l’idea, sostenuta dai più seri architetti di oggi, era che il miglior modo per rispettare il passato non è imitarlo ma tessere una visione contemporanea nella trama edilizia storica con sensibilità.
Entra anche nel tema specifico e afferma che il rivestimento in bronzo è comunque in contrasto con l’esistente almeno quanto il vetro (?) e allora tanto valeva dare chiaramente il segno del cambiamento.
E’ molto difficile dare, da due fotografie e senza conoscere bene la zona, un giudizio compiuto esattamente mirato al caso specifico però, grazie a Microsoft Virtual Earth, è possibile farsi un viaggetto gratis a New York e capire qualcosa di più. Come si vede, e come riconosce anche Ouroussoff, la zona, l’Upper East Side, non è interessata ancora da interventi di grattacieli in acciaio e vetro; è una zona residenziale abitata da benestanti, meglio dire ricchi, e conserva una sua unità complessiva.
Ha ragione Ouroussoff a preferire un birillo di vetro, completamente dissonante o la commissione, certamente guidata dai ricchi vicini da casa (come dice il giornalista), a preferire, anche se per biechi interessi personali, un semplice rialzamento, peraltro a parità di volume?
Guardando l’immagine generale non si può non riconoscere che il progetto della torre avrebbe avuto solo una valenza immobiliaristica di sfruttamento di un gesto dell’archistar per rappresentare se stesso e il suo brand per meglio pubblicizzare il prodotto.Ma Ouroussoff in realtà non difende con grande convinzione il primo progetto quanto il principio tirato in ballo dal comitato di una maggiore attenzione al contesto urbano. Sembra quasi che consideri l’atteggiamento della comitato (ripeto, sempre supportato dal lobbying dei residenti)una sorta di attentato alla libertà di espressione dell’architetto.
Da quest’articolo sembra di cogliere il fatto che lo scontento per le follie dell’architettura cominci a farsi strada anche nella città che prima e più di altre ha iniziato la corsa verso l’alto, se Ouroussoff si scomoda per una torre di “soli” trenta piani priva di qualsiasi qualità specifica che non sia quella di andare a fare da colonizzatrice in una zona ancora vergine.
Si tenga conto che facendo una ricerca sul sito del NWT l’ultimo articolo che parla di New Urbanism risale a luglio del 2007 che, per un giornale che dedica all’architettura e al design una massa enorme di articoli, vuol dire un secolo.
Grazie al New York Times e a Microsoft possiamo comunque seguire gli sviluppi di questo dibattito, sempre tenendo presente che New York non è Firenze né Roma.
SPAZZATURA: PROTESTE
Immagine tratta da Microsoft Virtual Earth Leggi tutto...
FUKSAS E' PRONTO A PROGETTARE CASE POPOLARI
Dal Corriere della Sera del 22 maggio 2008
Fuksas: Pronto a progettare case popolari.
Commento:
Anch'io
22 maggio 2008
ARCHITETTURA COME ARTE CIVICA (2)
Pietro Pagliardini
Ritorno ancora sul libro di Marco Romano “La città come opera d’arte” - Einaudi, € 9,00 - nella parte in cui tratta dei temi collettivi, cioè quegli edifici o spazi pubblici che ciascuna comunità assume come rappresentativa di se stessa nella sua interezza, quali cattedrale, palazzo comunale, ecc. e la cui caratteristica, come spiega l’autore, è specifica ed esclusiva della città europea.
La tesi principale del libro è che alla base della città europea ci sia un principio estetico adottato per scelta consapevole della cittadinanza e viene raccontato in che forme si sia manifestata questa volontà che nasce da una volontà collettiva, espressione della somma delle volontà individuali dei cittadini. Ne riporto alcuni stralci significativi:
La civitas europea ha dunque una sua riconosciuta personalità, di ordine superiore a quella dei cittadini che la compongono, e proprio come i singoli cittadini in quanto individui confrontano il proprio status nella facciata della loro casa, così i medesimi cittadini in quanto civitas rappresentano il rango che considerano confacente alla propria città nella grandiosità e nella magnificenza relativa dei suoi temi collettivi, in un confronto che le coinvolge tutte, dal villaggio alla città, mentre nelle altre civiltà del mondo gli edifici monumentali li vediamo soltanto nelle città maggiori e invano cerchereste una moschea o un tempio nella miriade di modeste cittadine e di villaggi nelle campagne dell’Islam o dell’India.
omissis
La democrazia non ha lo scopo di perseguire scelte “razionali”, cioè oggettivamente “giuste”, (omissis) è soltanto una procedura accettabile per prendere decisioni nella sfera collettiva riconoscendo a tutti la dignità dei loro desideri individuali e la legittimità degli argomenti dei loro sostenitori, quali che essi siano, a prescindere dal loro effettivo merito e dunque senza necessariamente farli propri.
La lite su un nuovo tema collettivo è per questo endemica, viene prolungata e ramificata nella scelta dell’architetto, nella conduzione del cantiere, nell’enormità della spesa, finché, una volta realizzato, e archiviati i litigi, il nuovo tema apparirà col tempo, per la sua stessa natura di rispecchiare un tema sociale europeo, esito di una concorde volontà civica, e nella misura in cui in effetti rappresenta il sentimento della civitas della propria consapevolezza di sé, costituirà davvero l’espressione della volontà di fare della città un’opera d’arte.
Omissis
La civitas costituisce in se stessa, nella specifica organizzazione dialettica della sua democrazia, il committente dei temi collettivi, e per questo la loro grandiosa dimensione, come abbiamo accennato, li rende espressivi del suo desiderio di manifestare il proprio rango. Anche se lo stile di volta in volta adottato nasce sempre nell’ambito della sfera specifica della cultura architettonica - spesso con punti di vista contrastanti come conviene a una società dove la competenza e la capacità di innovazione nel mestiere sono oggetto di apprezzamento come quando Brunelleschi riuscì a voltare la grande cupola di Santa Maria del Fiore, rimasta da un secolo incompiuta - il giudizio sulla loro congruità, sulla loro utilità e sul loro decoro costituisce per principio una competenza di tutti i cittadini della civitas in quanto tali, dove tutti siamo legittimati ad avere un punto di vista sul se e sul come realizzarli a prescindere dalla nostra specifica cognizione dell’arte.
Se nel Trecento la forma dei capitelli di Santa Maria del Fiore venne sottoposta e referendum, in uno sketch giornalistico del tardo Ottocento Carlo Collodi tratteggia la lite tra un macellaio e il suo cliente sul come avrebbe dovuto venire completata la sua facciata, allora in concorso, tricuspidata o orizzontale, lite culminata a lanci sanguinolenti.
Tutto quanto sopra spiega bene il significato che del termine di “architettura come arte civica” e che ne fa cosa tutt’affatto diversa da ogni altra espressione artistica. Pittura, scultura (quando non destinata a spazi pubblici), letteratura, poesia sono arti che possono avere certamente una valenza civile nel senso che in esse la società o parte di questa può riconoscersi come nazione o come comunità locale o come gruppo specifico però il loro atto creativo, qualunque ne siano gli esiti, non può essere sottoposto a nessuna censura preventiva, a nessuna valutazione preliminare, non solo per garantire a tutti libertà di espressione, ma perché l’uso che ne verrà fatto dai cittadini dipende anch’esso da una scelta individuale: io posso leggere o no un libro, guardare o meno un quadro, ascoltare o meno un brano musicale; invece nell’architettura io non sono libero di scegliere cosa vedere, perché cammino nella mia città e lungo il percorso mi imbatto, per forza, in edifici che altri hanno progettato e costruito e non dovrò essere costretto a chinare il capo per non guardare ciò che ritengo sbagliato o brutto.
Per questo appellarsi come fanno spesso gli architetti alla “libertà di espressione” per avere mani libere nella progettazione, è argomento usato in modo molto superficiale, quando non in mala fede, se non si inquadra nella giusta prospettiva il rapporto libertà del progettista-libertà dei cittadini.
La civitas, come dice Romano, costituisce in se stessa il committente dei temi collettivi. La città è un bene collettivo, come l'ambiente naturale, su cui tutti hanno il diritto di esprimersi; questo spiega il motivo dell’esistenza della commissione edilizia (oggi in disuso per una errata, e spesso ipocrita, esigenza di snellimento burocratico)che è una logica semplificazione della forma assembleare per la gran massa degli edifici che vengono costruiti dai privati, cioè per l’edilizia di base; ed è sempre per questo che, salendo il livello di complessità e di importanza, i piani urbanistici, di dettaglio e generali, vengono approvati dal Consiglio Comunale, che è un'assemblea rappresentativa dei cittadini, previo esame delle osservazioni da questi presentate. Al vertice per importanza urbana, cioè per aree ed edifici pubblici (molti dei quali sono, come dice Romano, temi collettivi) che interessano tutti, ma proprio tutti gli abitanti di una città, anche i cittadini dovrebbero poter esprimere il loro parere, senza lasciare politici e amministratori in balia delle scelte di architetti o “esperti” a vario titolo o, peggio, senza delegare solo a questi soggetti la decisione ultima.
Con questo sistema, che non è certo lineare come io l'ho descritto ma è sicuramente conflittuale come conflittuale è la democrazia, il progetto della città torna patrimonio comune di chi la vive e l'esperto acquista un ruolo determinante, come progettista e come uno tra i molti soggetti giudicanti, non l'unico.
Mi domando spesso: a chi e perché fa paura il voto popolare?
21 maggio 2008
CAMILLO LANGONE: BRANI DI UNA SUA PREGHIERA
Da il Foglio del 21 maggio 2008:
PREGHIERA
di Camillo Langone
Preghiera per la difesa della democrazia.
Che il voto etnico del 13 aprile sia rispettato, che quel sussulto di vitalità del popolo italiano non si dimostri.......
Che Mara Carfagna resista.......
Che Sandro Bondi resista ai grattacieli delle archistar: gli italiani hanno votato per amore dei campanili.
Che Franco Frattini resista.....
Venti secoli di religione cristiana e dieci secoli di lungua italiana li guardino, li sostengano.
20 maggio 2008
L'ESTETICA DEL WC
Gabinetto ombra
Ombra di gabinetto
Commento fotografico a:
Quelli che il Museo sembra un WC di Angelo Crespi su Libero 29 Aprile 2008 - e Il Domenicale
L'estetica del bidet di Gian Carlo Leoncilli Massi - Rinascimento Urbano
ARCHISTAR E PROPAGANDA: BASIC INSTINCT 2
Pietro Pagliardini
Qualche sera fa in TV è andato in onda il film Basic Instinct 2. Cosa c’entra con questo blog? C’entra, non solo per Sharon Stone, la cui splendida architettura basterebbe a dare ragione ai difensori di progetti che si rifanno all'uomo vitruviano(1) (simmetria perfetta, armonia, proporzioni) ma per il fatto che l’altro protagonista, insieme alla Stone, non è il disorientato psicanalista ma the Gherkin, cioè il cetriolo, l’edificio nel centro di Londra di Lord Norman Foster la cui forma, per chi eventualmente non lo conoscesse, è facilmente deducibile dal nomignolo; infatti per non meno del 50% del tempo le scene sono girate dentro quell’edificio o lo hanno come sfondo negli esterni. Si può dire che tutto il film giri intorno al “cetriolo”, sia come immagini che come contenuti.
Questo non intende essere un porno-post e neanche la recensione di un film, peraltro noiosissimo, ma un’analisi di come l’architettura delle archistar venga sostenuta e veicolata dai media facendo indirettamente passare il messaggio di essere l’unico linguaggio possibile per la contemporaneità.
Non intendo dire che il Gherkin sia stato sponsorizzato direttamente da chicchessia come scenografia prevalente del film, credo anzi che sia stata una scelta, anche abbastanza semplice, perfino banale, degli autori perché funzionale alla trama, tutto incentrato su riferimenti psicanalitici legati alla morte e al sesso. Ma che sia pubblicità occulta o scelta autonoma gli effetti non cambiano affatto e sono proprio quelli di cui parla Nikos Salingaros nel suo Anti-Architettura e Demolizione la creazione di un culto.
Il simbolismo tra la forma del grattacielo e la trama del film è anche fin troppo scontata, dicevo prima, ma qui è portato alle estreme conseguenze, fino ad arrivare a riprodurre come soprammobile il modello dell’edificio,
in un altrettanto scontato accostamento tra la posizione della Stone e la presenza dell’oggetto.
Questa continua, esasperante presenza del Gherkin, in scala reale come sfondo, in scala ridotta come soprammobile, visto da dentro la pelle stessa durante le sedute “terapeutiche”
e addirittura come oggetto autonomo facente parte integrante e dominate del paesaggio ha, oggettivamente, un effetto propagandistico straordinario, in parte facendo ricorso anche a tecniche subliminali.
La conseguenza è alla fine l’assuefazione del pubblico a questa architettura, d’interni e d’esterni. Certamente si potrà obbiettare che questo edificio è presente in una situazione dichiaratamente anomala, parossistica, in cui follia, squilibrio, torbide passioni e ambiguità sono elementi dominati e dunque nessuna associazione è possibile con la vita reale o perlomeno comune alla stragrande maggioranza delle persone, per cui ci potrebbe essere addirittura l’effetto opposto di un’architettura anomala almeno quanto la narrazione della storia.
Non credo però sia così perché il film, pur essendo, noioso e banale, è tuttavia ben confezionato e la presenza di una diva come Sharon Stone, l’attesa per essere il sequel di un film che, per una sola scena, è diventato comprensibilmente un cult, generano una notevole partecipazione emotiva positiva verso il film e verso l’architettura. Questo mio vedere il film in chiave critica mi è stato consentito dal fatto che, come ho visto l’edificio di Foster, cioè quasi subito, è scattato in me il blogger, ho preso la macchina fotografica e ho guardato il film con il principale scopo di cogliere le immagini e scrivere questo post, altrimenti è probabile che mi sarei rilassato sul divano ad ammirare la bellezza e la bravura straordinaria dell’attrice, dai lineamenti perfetti e dallo sguardo gelido come l’acciaio e il vetro del grattacielo, e magari avrei apprezzato anche l’ambientazione. La quale in realtà non è affatto male perché raramente film ed edificio si compenetrano fino a questo punto. Solo lievi accenni di rughe nel volto della Stone, segno inevitabile del tempo, contrastano con la pelle lucente e la perfezione geometrica del cetriolo: di là la vita, di qua la morte.
L’unico momento di normalità in cui compare un barlume la vita nell'intero film si svolge nello studio dell’anziano professore che intuisce la devianza dello spaesato interprete e che ha, non a caso, uno studio circondato dalla natura e arredato in modo tradizionale con tende e drappeggi.
Quanto al Gerkin che altro dire se non che l'affidarsi al simbolismo fallico (anzi, ad un fallo privo di simbolismo) per dominare lo skyline di una città non può che avere come unico scopo la celebrazione del suo autore perché è una firma indelebile e sicuramente riconoscibile ma certamente non credo possa avere a che fare qualcosa con l'architettura, l'urbanistica e l’identità di Londra.
A meno che Foster non abbia voluto sfatare il famoso adagio puritano “Niente sesso, siamo inglesi”.
(1)Leonardo da Vinci: « Vetruvio architetto mette nella sua opera d'architettura che le misure dell'omo sono dalla natura distribuite in questo modo. Il centro del corpo umano è per natura l’ombelico; infatti, se si sdraia un uomo sul dorso, mani e piedi allargati, e si punta un compasso sul suo ombelico, si toccherà tangenzialmente, descrivendo un cerchio, l’estremità delle dita delle sue mani e dei suoi piedi. »
(Le foto sono state effettuate direttamente dalla TV)
17 maggio 2008
E' ANCORA POSSIBILE COSTRUIRE NUOVE PARTI DI CITTA'?
Giulio Rupi
Ho recentemente assistito ad una puntata della trasmissione televisiva “Report” dedicata ai numerosi e poderosi interventi edilizi ultimamente realizzati o di prossima realizzazione nelle periferie romane.
Il servizio, non tenero verso la passata Amministrazione Comunale, seguiva gli usuali cliché delle cosiddette trasmissioni di denuncia: le interviste ai rappresentanti dei Comitati cittadini che lamentavano la mancata realizzazione di alcune delle urbanizzazioni promesse (il parco, l’asilo…), l’alto costo degli alloggi, le cubature realizzate superiori a quelle in un primo tempo ipotizzate; le interviste agli amministratori che rivendicavano la correttezza di ognuno dei mille passaggi burocratici; le interviste ai costruttori che reclamavano la pregevolezza e l’alto livello di finitura degli appartamenti e l’enorme entità degli oneri versati e delle opere pubbliche previste o già eseguite.
Il tutto accompagnato dalle immagini dei luoghi e degli edifici realizzati e dalle immagini dei plastici dei progetti da realizzare.
La trasmissione si articolava tutta, volutamente e inevitabilmente, su un generico atteggiamento critico verso un modello di crescita urbana troppo speculativo, poco partecipato, eccessivo nelle cubature, scarso negli interventi pubblici, accondiscendente nei confronti dei colossi dell’imprenditoria romana.
E tuttavia si avvertiva che dietro questa rappresentazione, dietro l’effettivo disagio delle gente che veniva cosi efficacemente raccontato e dietro il disagio dello spettatore che assisteva alla trasmissione c’era qualcosa di più profondo, qualcosa di profondamente sbagliato, qualcosa che stava all’origine vera di quel disagio e che non veniva rappresentata perché sfuggiva agli stessi protagonisti della vicenda, ai cittadini, agli autori del servizio, agli amministratori, ai costruttori, ai telespettatori.
Tutti quei progetti, sia quelli realizzati, sia quelli da realizzare, pur nelle forme architettoniche più diverse (la cosiddetta qualità architettonica esula del tutto dai contenuti di questa memoria) non erano e non sarebbero mai state nuove “parti di città”: era facile percepire l’assoluta alterità tra quegli spazi e quelli del Centro Antico, percepire che non c’era nessuna innovazione qualitativa rispetto alle periferie degli anni sessanta, anch’esse fatte di edifici residenziali isolati, intervallati da spazi destinati al degrado (anche se urbanizzati e serviti da grossi centri commerciali) prive di vere strade e quindi di vere piazze, prive della mescolanza di funzioni che porta alla forte pedonalità di una città vera.
Dietro quel disagio c’era e c’è dunque una cultura urbanistica impropria, matrice del fallimento di tutte le periferie urbane dell’ultimo secolo, una cultura che ha rinunciato a realizzare i nuovi spazi urbani ispirandosi a quelli, meravigliosi, delle antiche città europee perché segue ancora delle rovinose regole fisse: no alle costruzioni allineate sul filo delle strade e delle piazze, no alla commistione delle destinazioni, si alla concentrazione dei servizi in imponenti centri commerciali e direzionali (i monumenti dell’architettura) in cui finisce per concentrarsi la vita pedonale dei cittadini.
In parole povere allo struscio per il corso principale delle città si va sostituendo il ritrovarsi alla multisala, a causa della rinuncia di quella cultura urbanistica accademica (tuttora imbalsamata sui proclami lecorbuseriani del primo novecento) a porsi l’obbiettivo di creare ancora pezzi di città.
E di questa rinuncia è talmente impregnata la cultura della progettazione, che essa si ripresenta immutata sia negli interventi da un milione di metri cubi della periferia romana, sia nelle più modeste lottizzazioni della piccola città di provincia.
E siccome in Urbanistica e in Architettura un esempio concreto vale più di mille enunciati, sarà utile calarsi nella realtà di una piccola città, nella fattispecie la città di Arezzo, per citare alcuni esempi di interventi urbani a dimostrazione dei suddetti assunti.
Prendiamo dunque in Arezzo la lottizzazione “Il parco” con gli edifici residenziali (ai piani terra sparute attività non residenziali di scarsa attrazione) arretrati sulle strade e con i servizi concentrati su un unico edificio rivestito in metallo dorato.
Dall’altra parte prendiamo ad esempio la cosiddetta “Martini Bisaccioni”, una lottizzazione in cui, almeno in parte, gli edifici si allineano al filo delle strade e hanno i negozi al piano terra.
Ebbene, prescindendo assolutamente dalla qualità dell’Architettura (che, si ripete, in queste argomentazioni non ha alcun interesse), si dovrà ammettere che è nella seconda delle due che si è realizzato un qualche effetto città, una mescolanza di funzioni e un rapporto strada edificio che portano a quel minimo di vera pedonalità (verificabile anche dalla densità dei bar presenti) e quindi al successo degli esercizi commerciali.
Diverso è il caso della prima lottizzazione (“il parco”), in cui le strade che attraversano le parti residenziali non sono vocate alla pedonalità (chi ci va a passeggiare?) e i piani terra, privi di rapporto con la strada, non aspirano ad ottenere alcun valore commerciale: è un complesso monofunzionale in cui le funzioni non residenziali sono concentrate in un unico edificio.
Analoga impostazione si può rilevare nella nuova lottizzazione in zona tribunale: edifici residenziali isolati, in scarso rapporto con le strade, servizi commerciali e direzionali concentrati in un unico edificio specialistico fortemente caratterizzato dal contesto delle abitazioni.
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Sarà compito allora di chi è riuscito a distaccarsi da questa secolare e fallimentare ideologia urbanistica creatrice di periferie e a riconoscerne i difetti, gridare ai quattro venti che è ancora possibile costruire “nuove parti di città” con spazi multifunzionali altrettanto vivibili e passeggiabili che quelli del centro Antico, e capaci di contrapporsi all’attrazione devastante dei grandi centri commerciali.
15 maggio 2008
NON ESISTE LA TERZA VIA
Pietro Pagliardini
Navigando nel mondo dei blog e dei siti di architettura, ultimo Archiwatch del prof. Giorgio Muratore che si distingue per uno spirito molto libero, mi imbatto spesso in commenti, che immagino lasciati prevalentemente da giovani, fortunatamente insoddisfatti dell’architettura, dell’edilizia e dell’urbanistica contemporanea, sia di quella comune delle nostre città, in gran parte speculativa e priva di alcun interesse per il disegno urbano e architettonico, sia di quella sfavillante del mondo delle archistar, con i suoi simboli architettonici diffusi da riviste patinate e magazine allegati ai quotidiani; per fare un esempio: Libeskind, Zaha Hadid, Rem Koolhaas, Fuksas, ecc.
Spesso, a questi commenti sconsolati segue un ritornello che, più o meno, dice: “questa architettura è sbagliata, però un ritorno alle forme antiche (Es. Krier) non è possibile perché il mondo è cambiato, sarebbe come andare in giro con auto che avessero le forme delle carrozze ecc. ecc.” – e concludono –“Occorre una terza via”.
La terza via! La soluzione di ogni problema o meglio la fuga dal problema: non va bene il moderno, non va bene l’antico, va bene… che cosa va bene? Va bene quello che non c’è.
La ricerca della terza via corrisponde però ad un’esigenza precisa, al bisogno di bellezza, ma con lo sguardo dritto in avanti; è un atteggiamento che esprime ottimismo e fiducia nelle capacità umane di trovare soluzioni ad un problema nuovo che prima non c’era (l’enorme sviluppo della tecnologia) ed è perciò un valore positivo, tanto più in un giovane studente il quale capisce, evidentemente, che ciò che gli viene propinato in facoltà e nelle riviste di architettura (peggio in quelle di moda che presentano lavori di archistar come fossero film di divi del cinema) non è così lucente come sembra, non è così scontato come gli vogliono far credere ma, non volendo volgere lo sguardo al passato, cerca strade “nuove”.
Il problema della terza via in architettura, tra un presente brutto, ma “in linea con i tempi”, e un passato bello, ma “anacronistico” secondo me è, dal punto vista della teoria, irrisolvibile. Proverò a spiegare premettendo che mi è stata di grande aiuto la rilettura critica fatta da Raffaele Giovannelli in un lungo e argomentato scritto sul pensiero di Bruno Zevi, dal titolo “Critica ai fondamenti dell’architettura moderna”, nel sito effedieffe.com.
Già cinquant’anni fa Bruno Zevi aveva teorizzato la ricerca di una terza via tra il mondo dell’accademia e quello di una modernità senza regole, affermando che occorreva fissare canoni per una nuova architettura. Con una notevole intuizione aveva capito che alla rottura delle regole architettoniche classiche effettuata dal movimento moderno, avrebbe dovuto necessariamente seguire una proposta architettonica matura e positiva, a modo suo un nuovo rinascimento. E’ così che, nel tempo, teorizza le sette invarianti dell’architettura moderna e dovendo queste essere profondamente diverse da quelle precedenti, egli, con rigore logico, le teorizzò opposte.
La prima delle sette, la più distruttiva, il così detto “elenco” è l’azzeramento totale dei segni, la tabula rasa, l’annullamento cioè della memoria.
Questa operazione, che resetta l’architettura, tira una linea su un foglio e cancella tutto ciò che c’è sopra, corrisponde al lavaggio del cervello di un uomo per fargli dimenticare tutto affinchè, facendolo regredire allo stato di neonato, possa ricominciare, attraverso un processo percettivo completamente nuovo, a ricreare le sue conoscenze, i suoi codici di comportamento, le sue relazioni con il mondo, la sua coscienza.
Siamo ai peggiori incubi dei film di fantascienza i quali, tuttavia, hanno il potere di esercitare un grande fascino intellettuale e una grande presa emotiva, sono intriganti e danno una sensazione di potenza incommensurabile; è un processo che presenta affinità e somiglianze con l’atto creativo divino in questo annullare la storia e impostare una vita nuova e completamente diversa.
Applicata all’architettura, inoltre, la tentazione del “grado zero” è fortissima e non stupisce affatto che i giovani ne rimangano rapiti (è successo anche a me) sollecitati, s’intende, da gran parte dei loro docenti.
Questo è un processo acritico che trova un terreno adatto nella cultura della nostra società la quale tende ad esaltare ogni manifestazione individuale come creativa in sé, senza distinguere mai tra brutto e bello, tra buono e cattivo, tra banale e profondo; e questo avviene grazie al pedagogismo e alla psicologia diffusa ad abundantiam nelle scuole di ogni ordine e grado fin da quella della prima infanzia, nei giornali, nelle TV e che attribuiscono valore all’atto espressivo di ognuno, prescindendo del tutto dalla qualità dello stesso. La grande diffusione di scrittori, poeti, pittori, artisti in genere tra professionisti, operai, intellettuali, casalinghe, pensionati, impiegati, studenti ecc. ne è la più limpida dimostrazione: siamo tutti artisti, basta esprimersi in qualcosa.
L’altra invariante che rompendo col passato arriva al cuore e interessa la sostanza della forma architettonica è la asimmetria. Su questa rimando alla lettura del citato articolo di Raffaele Giovannelli che è assolutamente esemplare.
Va riconosciuta a Bruno Zevi una razionalità e una intelligenza smisurata nell’aver messo insieme quanto di più distruttivo vi possa essere per l’architettura dell’uomo e per il suo ambiente di vita. Non c’è dubbio che sia riuscito a strutturare un corpus di regole e canoni assolutamente unitario e internamente logico e i risultati che oggi vediamo sono l’applicazione esatta di quello. Tant’è vero che, nel libro Architettura della Modernità, uno dei suoi ultimi credo, nelle pagine finali che si riferiscono alle opere contemporanee si legge:
“I decostruttivisti mettono sotto processo gli architetti intenti a produrre forme pure, basate sull’inviolabilità di figure geometriche elementari, incontaminate, emblemi di stabilità, armonia, sicurezza, confort, ordine, unità. Nelle loro opere da Eisenmann e Gehry a Koolhaas e Libeskind, l’architettura è dichiaratamente un agente di instabilità, disarmonia, insicurezza, sconforto, disordine e conflitto. Respinge le ideologie del numero d’oro, dell’impianto scientifico immutabile, eterno e universale, per difendere i diritti di un “progettare disturbato” calzante con la realtà”.
Più chiaro di così non è possibile: la realtà è disturbata e l’architettura si deve adeguare ad essa comunicando disordine, disarmonia, instabilità; siamo nel mondo dell’incertezza, siamo esattamente agli antipodi della triade vitruviana di firmitas, utilitas e venustas.
L’impressione è che questa analisi prenda in considerazione due fattori:
il primo l’architettura, ovviamente, e il secondo la società, intesa però non nella sua interezza ma nei suoi fenomeni più legati alla comunicazione e separata completamente dai suoi agenti principali, cioè gli uomini. Infatti è come dire: la società è disordinata, per questo bisogna progettare cose disordinate per aumentare il disordine. Il grande assente da una visione di questo tipo è l’uomo che invece richiede ordine, bellezza, armonia; ma del tutto assente è anche la natura nel suo insieme la quale proprio nel processo evolutivo mostra la sua tendenza all’aumento di ordine e di complessità, cioè di bellezza (Vito Mancuso, L’anima e il suo destino).
Bruno Zevi è dunque il teorico di quello che Salingaros chiama il nichilismo architettonico che dà spessore e sostanza alla furia contestatrice del classicismo fatta dal razionalismo e ne è la naturale ed estrema evoluzione.
Ecco dunque cosa intendevo per impossibilità di teorizzare una terza via: le strade sono solo due, l’armonia o la disarmonia, la firmitas o l’instabilità, l’utilitas o l’inutilità, la venustas o il brutto. Non esistono, filosoficamente, possibilità diverse da queste: la semi-stabilità è instabilità, la semi-bellezza è un edificio mal riuscito, l’armonia disarmonica è un ossimoro che può essere usato solo nel vuoto linguaggio architettese ma non trova riscontro nella realtà.
L’architettura non può che oscillare tra questi due poli, di uno dei quali, il nichilismo appunto, oggi se ne vedono chiaramente gli esiti maturi e di cui si comincia, però, ad avvertire una critica serrata e soprattutto il rifiuto da parte di chi quegli edifici deve subire, cioè la gente.
L’esistenza di due sole condizioni dell’architettura,l’una alternativa all’altra, non significa tuttavia l’obbligo dell’uso di forme classiche per coloro che rifuggono dal decostruttivismo. Le forme esterne, la morfologia degli edifici, la cifra stilistica non è data una volta per tutte; sono possibili, perché esistono nella pratica architettonica recente e attuale, scelte diverse e valide per chi non vuole ricorrere all’uso degli ordini classici, della colonna, degli archi e del timpano e più volte, in questo e negli altri blog di architettura che frequento, sono stati fatti i nomi di architetti che lo sanno fare e l’hanno fatto con grande maestria: Moretti, Gino Valle, Natalini ecc. i quali, nella loro diversità, hanno in comune il rispetto di alcune regole architettoniche minime per cui gli edifici non volano, non sono fatti di sola luce (questi sono totem della comunicazione in cui l’uomo non può vivere o lavorare), sono piantati per terra e si innalzano da questa con materiali idonei a sostenere, hanno un inizio e una conclusione, hanno proporzioni gerarchizzate e un’armonia compositiva adatta al corpo umano.
Ma piena dignità e valore, non esente da critiche ovviamente, deve essere riconosciuta a Krier, Duany, Porphyrios, Bontempi, ecc. i quali sono più aderenti alle forme classiche e/o vernacolari che sanno riproporre con grande fascino e rispetto per la storia e i luoghi. Ed è appunto laddove la storia è presente, cioè nei centri storici e nel paesaggio della città italiana ed europea, che questa architettura, a mio parere, meglio si confà al dialogo con l’esistente.
Si tenga inoltre conto che vi è un altro campo in cui il nichilismo è ancora più distruttivo: l’urbanistica. Qui abbiamo parlato di architettura che è la parte più immediatamente visibile e percepibile della città, quella di cui tutti, anche i non addetti, possono cogliere gli aspetti positivi o negativi, ma io credo che ciò che può contribuire a ridare un senso alla città, ed anche all’architettura è proprio l’urbanistica. E in questo campo non esiste proprio alcuna alternativa a quella della storia, non esiste né la seconda né terza via.
Qui si può apprezzare di più e meglio la teoria e la pratica di Leon Krier, di Duany, del New Urbanism. Ma questo è un altro discorso da affrontare in un altro momento.
12 maggio 2008
UMBERTO ECO, CITYLIFE E IL VIAGRA
Pietro Pagliardini
A chi ha domandato ad Umberto Eco cosa pensasse del grattacielo storto di CityLife, questi ha risposto “Prenderà il Viagra” (Corriere della Sera).
Come interpretarla? Come una grassa battuta da bar? No, non è possibile, non risulta che Umberto Eco passi i suoi pomeriggi a giocare a briscola al dopolavoro degli intellettuali. E allora? Le parole di Umberto Eco vanno perse seriamente e interpretate:
Intanto c’è l’aspetto psicoanalitico perché ha riconosciuto nella tipologia grattacielo una forma fallica. E' sicuramente vero e quelli di Jean Nouvel e di Norman Foster lo dimostrano; infatti c’è questo noto disegno di Leon Krier in cui il grattacielo segue una sorte diversa e inversa da quella presupposta da Eco.
Ma nella frase “Milano è piena di gente che ha il membro storto: ce ne sarà uno in più che prenderà il viagra” si legge anche un giudizio da bio-antropologo: i milanesi hanno il membro storto, e questo è un vero scoop. Fino ad oggi sapevamo da Bossi l’esatto contrario. Necessita quindi dibattito e/o convegno ai massimi livelli.
Anche l’interpretazione politico-mediatica sembra abbastanza chiara: con membri storti è difficile penetrare.. nei problemi del paese e allora occorre il Viagra. Che il Viagra sia la metafora delle televisioni che raccolgono consenso e drogano il voto?
Poi c’è una forma di distacco culturale da questi argomenti urbanistico-architettonici, ritenuti evidentemente di secondo ordine: un grattacielo più, un grattacielo meno, anche se solo temporaneamente storto, conta poco.
Se io fossi Libeskind non mi sentirei molto lusingato da questi giudizi.
Se fossi un milanese sarei veramente incazzato.
11 maggio 2008
BENVENUTO ASSESSORE
Pietro Pagliardini
In questi giorni circola il nome di Leon Krier come possibile consulente del Sindaco Alemanno per l’urbanistica e l’architettura. Addirittura sul Messaggero si parla di lui come Assessore all’urbanistica!
Tutte e due le indiscrezioni sono una ghiottoneria, la prima perché è il segnale di una svolta, ma non a destra, bensì verso un’architettura più umana , più classica, più rispettosa della città e del suo passato, e dimostra una grande attenzione del neo-sindaco verso il mondo della cultura; la seconda, se fosse vera e se diventasse realtà, sarebbe addirittura una rivoluzione cuturale per diversi motivi:
Leon Krier, prima che essere un progettista è un grande teorico dell’urbanistica, è il leader riconosciuto di un movimento culturale che si articola in diversi settori, con diversi nomi e sparso in ogni continente, che si chiami New Urbanism, o Rinascimento urbano, o Prince’s Foundation ecc.
Fino a qualche anno fa era l’unico, nel dilagante, conformista e spesso arrogante pensiero unico modernista, a difendere, il diritto all’esistenza di un’urbanistica a scala umana, basata sul modello delle città europee; ma poteva svolgere questa sua battaglia (questo è il nome giusto quando c’è una controparte intollerante) in ambiti ristretti, in nicchie di ammiratori e proseliti, quasi in un circolo di amicizie e di estimatori. Tra gli studenti di architettura non vi era chi non lo conoscesse, non fosse altro per i suoi splendidi ed efficaci disegni di città, di edifici, di simboli con cui riesce a rappresentare un’idea. Ma era tuttavia visto come qualcosa di lontano, di utopico, di fuori del mondo, era considerato quasi un visionario del quale non se conosceva la teoria, quasi un artista un po’ folle che si applicava ai disegni di architettura. E il mondo accademico si guardava bene dall’indicare le sue idee come una possibile alternativa all’imperante disastro urbanistico dello zoning. In periodi di PEEP e PIP quali migliori esercitazioni dare agli studenti che non lo studio di quartieri popolari con strade larghe e senza fronti continui di case, senza isolati, ma con blocchi di edifici inumani disseminati in composizioni da quadri astratti o da grafica pubblicitaria?
Certamente in Italia c’è sempre stata, sotto traccia e anch’essa negletta dalla cultura ufficiale, la tradizione degli urbanisti e dei tipologi della scuola di Saverio Muratori, ma anche questa era una nicchia, molto colta, estremamente preparata ma non adatta, proprio per l’intrinseca serietà disciplinare che ne faceva, sia detto senza offesa, una sorta di snobistico circolo chiuso portatore di verità, alla diffusione di quel pensiero attraverso i vari mezzi di comunicazione che si espandevano. Prova ne sia che se si effettua una ricerca su Internet si trovano solo spezzoni di notizie, rari testi da consultare, pochi nomi, credo pochi o nessun blog. Questo può essere considerato un merito ma anche un limite per una disciplina che, parlando di territorio, città, case, cioè dell’ambiente dell’uomo, riguarda tutti, ma proprio tutti gli uomini (come dice lo stesso Krier su RU).
Leon Krier ha invece il pregio di essere un grande divulgatore di idee, ha la stoffa del leader, si muove nel mondo dell’urbanistica e dell’architettura con l’abilità di un politico senza mai abdicare ai suoi principi.
Forse è anche per queste doti di “agitatore” di idee che è avvenuto l’incontro con il Principe Carlo d’Inghilterra, che gli ha dato l’opportunità di realizzare la sua idea di città, Poundbury . E’ da questo momento che il nome di Krier è diventato di successo e consentendo che un movimento già esistente, ma barricato, sia potuto emergere e diffondersi con estrema velocità. Si faccia una ricerca su internet e se ne avrà la riprova.
E Krier assessore all’urbanistica? Stiamo al gioco e facciamo finta che possa avverarsi questa “rivoluzione culturale”. Voglio, con una goliardata, provare a immaginare una giornata di Krier in assessorato.
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L’ordine del giorno è il piano urbanistico di una grande area su cui c’è una richiesta presentata da un costruttore.
Krier ritarda un po’ perché viene da un incontro con Meier con cui ha discusso di Ara Pacis e i due hanno idee lievemente diverse, anche se l’architetto americano è disponibile al dialogo (forse potrebbe fare la direzione dei lavori dello smontaggio e del rimontaggio?).
Entra in una grande sala con al centro un grande tavolo circolare gremito di persone, molte delle quali non conosce ancora. E’ la prima vera riunione operativa di routine e per l’occasione sono intervenuti tutti, curiosi di conoscere questo singolare personaggio vestito di bianco. Lo spazio sul tavolo davanti ad ognuno è occupato da faldoni di documenti.
Krier, che parla benissimo italiano (oltre all’inglese, al tedesco, al francese, allo spagnolo) saluta tutti con il suo cordiale e rassicurante sorriso e da inizio alla riunione.
Il funzionario espone a grandi linee l’oggetto della riunione e inquadra il problema.
Krier vuole ascoltare tutti (serve anche a conoscerli) e comincia il giro degli interventi. Intanto prende un foglio bianco, lo sigla in alto con le sue iniziali e mette la data con la sua bella grafia classica.
Inizia l’Architetto che ha seguito quel piano ed espone le compatibilità con il PRG, il suo dimensionamento, i i vincoli presenti, le procedure da seguire per andare avanti, i contatti avuti con la Regione, con la Provincia, con la Soprintendenza. Krier ascolta e prende appunti.
Si alza poi il geologo che srotola carte colorate di cui nessuno capisce niente e dice che sono stati effettuati sondaggi, comunque dovranno esserne fatti altri più approfonditi per l’approvazione del piano ed altri ancora per il rilascio del permesso di costruire. Krier invita tutti gentilmente ad essere più sintetici.
E’adesso il turno dell’ingegnere idraulico che presenta tabelle , grafici e dati, da cui deduce che, su base duecentennale, c’è il serio rischio che un fosso largo un metro che lambisce l’area possa esondare, e poi adesso gli eventi atmosferici sono fatti più violenti e quindi è meglio essere più restrittivi per cui occorrono ulteriori indagini a carico della proprietà e comunque nella delibera di approvazione dovranno prevedersi delle opere di messa in sicurezza consistenti in….. Krier lo interrompe garbatamente e lo ringrazia. Adesso ha smesso di prendere appunti, si è tolto la giacca di lino bianca e ascolta, il mento appoggiato sulla mano.
L’ingegnere dell’ufficio traffico fa presente che per la viabilità è necessario fare uno studio dei flussi per verificare l’aumento del carico…. Grazie mille, dice Krier, che si rimbocca le maniche della camicia bianca di lino.
E’ il momento della valutazione di impatto ambientale. Il professionista ambientalista fa un elenco di verifiche da fare: rumore, inquinamento, presenza ed effetti su flora e fauna, estesi su un raggio di due chilometri, inserimento nel paesaggio con rendering foto realistico, consumo di energia, eventuali fumi nocivi, presenza di elettrodotti e onde elettromagnetiche, ricadute sociali ed economiche, effetti sulle falde e sul reticolo idraulico primario e secondario, conseguenza sulle colture limitrofe, ecc. Qualcuno accenna ad aprire il giornale ma viene fulminato con gli occhi dal funzionario. Krier vorrebbe dire qualcosa ma si limita a ringraziare sorridendo. Fruga nella sua borsa di pelle.
Sarebbe adesso la volta dell’addetto alle urbanizzazioni, dell’ingegnere dei Vigili del Fuoco e di quello dell’ENEL ma il funzionario, vista l’ora, chiede loro di mandare un’istruttoria scritta, tanto ci sarà tempo per altre riunioni.
E’arrivato il momento di Krier. Torna l’attenzione di tutti.
Si alza in piedi e dice:
“Ringrazio tutti per l’impegno e la competenza dimostrata. Mi avevano parlato bene di quest’ufficio ed oggi ne ho avuto conferma, ma adesso sarebbe bene vedere qualche disegno, visto che si tratta di un progetto.”
Funzionari e professionisti rimangono immobili e solo gli occhi di ciascuno si muovono a cercare risposte negli altri.
La storiella si interrompe bruscamente qui, perché non riesco ad immaginare quale potrebbe essere la fine.
La domanda è: vincerà l’urbanistica dei SIT, dei quadri conoscitivi, dei geologi e degli idrologi, degli economisti e dei dimensionamenti, delle sigle e delle normative e delle leggi, vinceranno cioè i piani senza progetti o riuscirà a vincere l’urbanistica disegnata, il progetto urbano di Leon Krier?
9 maggio 2008
GERUSALEMME, EPITOME DELL’ARCHITETTURA, TRATTO DA MONI OVADIA
"L’arrivo a Gerusalemme è di quelli che ti si imprimono nella memoria. Non parlo della Gerusalemme vecchia, con l’eccezione di qualche luogo, risulta deludente. Lo sviluppo della città nuova colpisce, è davvero impressionante. Le case sono accorpate fitte fitte sulle colline che circondano al Città santa. Il loro colore unico, ma non uniforme, è di straordinario impatto. Una legge inglese, tuttora in vigore, impone che tutte le case siano edificate con la pietra del luogo, o per lo meno che, di quella pietra, ne sia garantito il rivestimento esterno. La stessa regola vige per le abitazioni residenziali come per gli edifici commerciali o le grandi strutture istituzionali. Perfino i pochi grattacieli non si sottraggono alla normativa, anche se questi sparuti giganti appaiono soli e sconfortati nel contesto di quella selva di piccole case popolate sempre più da uomini che vibrano per la Torah. La fibra calcarea, gessosa, conferisce alla morfologia della città una personalità fortissima che si sposa ad altre ragioni di natura spirituale, rendendo questo luogo davvero unico al mondo.
Parlare di speculazione edilizia sarebbe assolutamente sensato, ma non è, a mio parere, il merito della questione. Quelle case appaiono uscite dalla pietra stessa, come vi fossero inscritte. Stonano paradossalmente i boschi di alberi piantati saggiamente dal KKL (il Fondo nazionale israeliano per la forestazione) nella parte bassa delle alture. Quel verde è salubre ma non coerente. Le case sembrano invece scaturite da un deserto, seguendo la profezia: “Sarete numerosi come i granelli di sabbia nel deserto (di giorno) e come le stelle nei cieli (di notte)”. Come quella profezia era intrisa della sabbia del deserto, culla del progetto identitario ebreo, così quelle case sembrano possedere il colore e il calore della parola divina. E come le rocce e la sabbia nel deserto , di giorno la pietra di quelle case riflette la spietata volontà del sole, mentre al crepuscolo si abbandona a una pietà rosata e accoglie la brezza collinare che conforta la giornata del residente e quella del commosso e atterrito viandante che sono. Gerusalemme mi attrae con la mistica ferocia di una donna santa, e mi sgomenta come una bella donna che abbia sposato la santità come destino. Mi rifugio in albergo a smaltire la violenta sbornia di liquore millenario distillato nella contemporaneità che ho tracannato tutto d’un fiato."
Qui potreste anche interrompere la lettura per non rovinare l'emozione di questo brano con le modeste considerazioni che seguono, ma la tentazione di un commento è troppo forte.
Perché questo brano in un blog di architettura? In verità mi è ritornato in mente a causa degli avvenimenti a margine del salone del libro di Torino, e mi è sembrato il modo giusto per rendere un modesto omaggio a Moni Ovadia che non è israeliano ma che, da saltimbanco, come lui si definisce, diffonde cultura ebraica.
Ma il motivo vero è che con questo veloce sguardo a Gerusalemme, l’autore riesce a cogliere in modo emozionale ed esemplare tutte le qualità essenziali della città, che costituiscono un compendio del bello e del brutto della città in generale. Vediamo perché:
1) Intanto non parla della città vecchia, del centro storico, ma della parte nuova. Se si trattasse di una delle nostre città non c’è dubbio che ci aspetteremmo di leggere la rappresentazione del degrado. Qui no, qui in realtà l’autore non dà un giudizio esplicitamente positivo, ma è evidente che, dal contrasto con una certa delusione per il centro antico, questa parte di città lo colpisce in modo positivo. Le case sono “accorpate fitte fitte”, come deve essere una città, densa, con il pieno che prevale sul vuoto, come nei nostri centri storici. Il vuoto nelle città è il lascito del razionalismo, è la Ville Radieuse di Le Corbusier che dilata la città in orizzontale, allontanando gli edifici dalle strade e lasciandoli soli in mezzo ad un lotto, terra di tutti e di nessuno.
2) Il colore delle case è “unico, non uniforme”, al pari dei nostri centri storici, in cui vige il principio dell’omogeneità nella diversità. Omogeneità delle caratteristiche morfologiche ma ogni casa ha elementi di caratterizzazione individuali nei dettagli e nelle decorazioni di facciata, nei portoni d’ingresso, nelle riquadrature delle finestre, nei davanzali, nelle gronde, nel colore delle facciate.
3) I grattacieli, che sono anch’essi trattati con la stessa pietra, appaiono “soli e sconfortati” e soprattutto forte è il contrasto tra le piccole case, in cui c’è vita, rappresentata dagli uomini che “vibrano per la Torah”, e il vuoto di quelli.
4) La pietra di cui sono rivestiti tutti gli edifici, pubblici e privati, alti o bassi, fa apparire la città tutta come uscita dal deserto, manifestando l’appartenenza al luogo e alla sua geografia. Una città di acciaio e vetro a quale luogo può appartenere?
5) Infine la frase conclusiva in cui vi è il riconoscimento che la contemporaneità è il distillato di una cultura millenaria, cioè nella visione della città odierna si legge la problematicità di due sensazioni diverse ed opposte perché il distillato è allo stesso tempo qualcosa di meno, perché è un estratto della materia originale, e qualcosa di più e di diverso nella esaltazione e nella trasformazione del prodotto originale in un sapore nuovo e più inteso ma che trae la sua origine in quello precedente.
Un saluto e molte scuse al saltimbanco Moni Ovadia.
Pietro Pagliardini
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8 maggio 2008
L' IDEA DI POLITICA E ARCHITETTURA DI MIMMO PALADINO
Pietro Pagliardini
Così Mimmo Paladino su Repubblica:
"Ma non deve essere la politica a dettare i canoni dell'architettura". Parla Mimmo Paladino, che ora espone le sue opere all'Ara Pacis. Tra le prime dichiarazioni del neo-sindaco Gianni Alemanno c'è stata quella sulla teca di Richard Meier che ricopre l'Ara Pacis. "Un intervento invasivo", così si è espresso "che rimuoveremo".
Strana l’idea che ha Paladino del ruolo dell’architettura e della politica!
Quante volte abbiamo sentito dire da autorevoli esponenti della cultura e dell’architettura: “Ci vorrebbe il Principe per fare una bella architettura, ma i politici di oggi….!”. Luogo comune molto snob e molto poco democratico perché non si può sposare il governo del Principe con la democrazia tantomeno si può nominare un Principe.. con delega all’architettura. La democrazia è altra cosa, è conflitto, è scontro di idee e non sempre le migliori vincono (negli ultimi lustri direi che, in campo architettonico, hanno sempre perso) e le scelte non sempre si fanno nei salotti, ultimamente un po’ logori in verità.
L’Ara Pacis è stata scelta dall’ex Sindaco Rutelli e adesso che arriva un nuovo Sindaco che ha idee precise, ma diverse, non va bene perché….. non coincidono con quelle di Paladino. O forse perché, come dice nell’intervista: “non credo che Alemanno abbia una cultura estetica in grado di comprendere il valore di un'opera come quella”. Rutelli e Veltroni, evidentemente, ce l’avevano la cultura estetica: ma guarda un pò! Forse Paladino voleva dire: "certa politica non deve dettare i canoni dell'architettura".
Quando si vuole citare un esempio virtuoso di politico che ha fatto dell’architettura il perno della sua fama internazionale si citano Pompidou e Mitterand, quest’ultimo un vero Principe. Loro vanno bene come politici che decidono perché gli edifici fatti durante i loro mandati appartengono tutti al medesimo filone culturale, quella dell’opera straordinaria, del grande gesto dell’architetto. Dico questo senza negare che a Parigi siano state fatte opere anche importanti, di qualità e, in fondo, capaci di rappresentare lo spirito di grandeur francese.
Ma, polemica a parte, la sostanza del problema è un’altra: chi abbia titolo a scegliere, a decidere sulle sorti della città, a maggior ragione nel caso di una città come Roma, che se qualcuno non se ne fosse accorto non è Parigi, e a maggior ragione ancora in un’area in cui la memoria del passato è così forte e presente, per quello che c’è e per quello che non c’è più.
Ogni opera di architettura di grande interesse o di riqualificazione urbana, proprio per l’importanza che riveste, porta inevitabilmente strascichi e polemiche: è sempre stato così anche nel passato per opere che adesso vengono ritenute capolavori dell’architettura. E questo, come ricorda Marco Romano nel suo ultimo libro, è una caratteristica esclusiva della città europea e avviene perché l’architettura è arte civica ed appartiene alla comunità, alla civitas, ai cittadini.
Il committente di un’opera pubblica ed è rilevante per la città è la città stessa, cioè i suoi cittadini; se questo è vero, ed è certamente così, il giudizio spetta a loro e, per via indiretta, ai suoi delegati, cioè ai politici, e nella fattispecie al Sindaco. Il che non esclude affatto, anzi è secondo me auspicabile, che per casi particolari e di grande importanza, tutta la città possa e debba esprimersi; non a caso Alemanno, parlando di Ara Pacis, ha detto che vorrà sentire prima il parere dei cittadini.
E allora quale ruolo rimane all’architetto, al mondo della cultura e alla critica, domanderebbe Paladino? Quello che a ciascuna di questi attori compete: l’architetto ha il ruolo fondamentale di fare il progetto, di leggere e interpretare il luogo e di restituire graficamente ciò che meglio si confà a quello specifico contesto, alle aspettative del committente, ai mezzi che questi mette a disposizione. Certamente l’architetto ha il diritto di difendere il proprio lavoro con ogni mezzo (lecito) ma difficile pensare che possa essere lui a decidere, come sembra ventilare Paladino, oppure gli esperti che ragionano, appunto, come Paladino.
Alla critica, al mondo della cultura, agli esperti, il compito di criticare appunto ma con argomenti fondati e non con la solita vecchia menata della modernità.
Le idee, e d il loro contradditorio contano, non i ruoli che vengono dati o che qualcuno si assegna da solo.
Nel caso dell’Ara Pacis mi è sembrato di trovare più idee contro che a favore: Italia Nostra ha fatto ripetuti appelli, il New York Times, giornale della città di Meier, ha dato un giudizio molto negativo, lo stesso Fuksas non ne ha parlato bene, Camillo Langone sul Il Foglio, caustico, lo definì il progetto di un geometra (con tutto il rispetto per i geometri), Paolo Portoghesi, Vittorio Sgarbi, Leon Krier, che adesso sembra potrebbe svolgere un ruolo di consulente per il Sindaco di Roma, ecc. Come la mettiamo con la “cultura estetica” di Rutelli e Veltroni?
Certo, adesso è già costruita, il problema è diverso, se la consultazione popolare vi fosse stata prima sarebbe stato certamente meglio, però la tentazione di smontare, con la teca, un mondo di conformismo, una cultura glamour chiusa nei salotti, una cultura antipatica, antipatizzante ed escludente, beh, è veramente forte.
5 maggio 2008
Architettura come "Arte Civica": il caso CityLife
Pietro Pagliardini
Nell’introduzione del libro di Marco Romano (architetto e professore di Estetica della città) “La città come opera d’arte”* si legge:
“Se la città è un’opera d’arte sarà per sua natura il tema di un giudizio critico, un giudizio in ogni città competenza di ciascun cittadino per il suo diritto a contribuire al suo modificarsi nel corso della propria generazione …..” – e ancora- “Come ogni opera d’arte la città ha un suo committente: nel nostro caso quell’insieme dei suoi cittadini che ne fondano il Comune - originale creazione europea - per i quali la sua bellezza costituisce un obbiettivo ma anche il riconoscimento della loro stessa esistenza collettiva …..”
Leggendo queste frasi non posso non collegarlo all’articolo a firma dell’architetto Daniel Libeskind sul Corriere della Sera di oggi, in cui egli fa un’appassionata e colta difesa della sua torre di CityLife e che inizia con questa affermazione:
“L' architettura è un' arte civica e in quanto tale, come tutte le arti, è espressione del pensiero creativo. In una democrazia, l' architettura è il dischiudersi di possibilità inventive, culturali, sociali e funzionali conseguite con materiali sostenibili e proporzioni perfette, plasmate nella luce.”
E’ fin troppo facile leggere nei due testi atteggiamenti completamente diversi e opposti e che esprimono al meglio le due tendenze prevalenti nel mondo della cultura architettonica: da una parte il riconoscimento che la città, quella europea in particolare, è il prodotto sedimentato di secoli di storia in cui i cittadini si riconoscono e si identificano, in quanto appartenenti alla civitas; dall’altra l’esaltazione, invece, della libertà individuale dell’architetto che, proprio grazie ad una società democratica, può e deve trovare la possibilità di esprimersi nella creatività e nell’invenzione. Da una parte prevale la lettura e il rispetto del passato e della tradizione, dall’altra il gesto d’artista dell’architetto.
Libeskind attribuisce all’espressione “arte civica” proprio il significato opposto di arte al servizio di e per i cittadini e, con un salto logico, ne trasfigura completamente il senso perché pone al centro del processo non la civitas ma la figura dell’architetto stesso con il suo genio, la sua espressività, la sua potenza creatrice; mi sembra che si ripeta qui lo stesso tipo di relazione che c’è, in campo scientifico, tra libertà di ricerca e libertà di applicazione delle tecnologie, con il dibattito se spetti allo scienziato o alla società decidere sull’applicazione di quelle tecnologie che interessano l’essenza stessa della natura umana.
A me sembra che egli possa compiere questo ragionamento solo legando intimamente la forma dell’architettura alla forma politica della società, per cui in una società non democratica non vi sarebbe libertà per nessuno, quindi neanche per l’architetto che avrebbe l’obbligo di seguire canoni e regole consolidate e accettate dal “regime”, essendo perciò costretto a restare nel solco della tradizione; mentre in una società libera e democratica, essendo garantita libertà di espressione a tutti, anche l’architetto sarà libero, anzi, avrebbe quasi il dovere di scegliere, innovare, inventare, creare, al pari di ciò che avviene in tutte le arti.
Il mio parere è che la forma politica di una società c’entra sicuramente ma il ragionamento che fa Libeskind, pur essendo estremamente raffinato, presenta questa forte contraddizione:
A) o tutta l’architettura passata (o almeno quella che viene universalmente riconosciuta di grandissima qualità) deve essere ritenuta frutto di società democratiche come si intendono oggi, il che è palesemente falso, si pensi all’Egitto, alla Persia, all’epoca imperiale romana, alla stragrande maggioranza dei Principati del Rinascimento ecc.
B) oppure tutta l’architettura passata (o almeno quella che viene universalmente riconosciuta di grandissima qualità) deve essere considerata scadente perché frutto di una società non democratica e, improvvisamente, con l’avvento della società democratica sembra che abbiamo scoperto la “vera” architettura, il che è altrettanto falso.
In realtà Libeskind ricorre ad un artificio retorico di notevole efficacia ma il fatto è che la democrazia urbana ha poco a che vedere (salvo casi di assolutismo e/o dittatura estremi) con la forma politica di una società perché proprio nella civiltà medievale (che pure aveva ben pochi elementi di democrazia paragonabili ai nostri) vi era condivisione delle scelte importanti sulla città (si pensi al concorso per la cupola del Brunelleschi, si pensi agli statuti dei comuni in cui si disciplinava in maniera puntuale la proprietà e le regole per costruire); ma, soprattutto, vi era la condivisione nel corpo della società e quindi anche negli architetti, di canoni di base che erano rispettati, senza per questo escludere evoluzioni, ricerche, rotture, salti in avanti e ritorni al passato.
L’architettura è sì “arte civica”, come scrive Libeskind ma nel senso che dice Romano perché l’architettura appartiene a tutti i cittadini i quali sono gli attori della scena urbana di cui la città è il proscenio. La città è l’ambiente dell’uomo e deve essere salvaguardato; la città deve sì trasformarsi e non deve restare ferma (e non potrebbe anche se qualcuno lo volesse) ma la rottura totale dei canoni architettonici riconosciuti, interiorizzati e trasmessi da secoli hanno conseguenze gravi sull’equilibrio e la stabilità sociale delle città, al pari degli effetti che ha la deforestazione della giungla amazzonica per le tribù indigene. Si vuole affermare che gli indigeni hanno il dovere di essere “civilizzati”, anche a costo della perdita d’identità e della loro estinzione? Gli indiani d’America sono stati confinati nelle riserve e si sono praticamente estinti a vantaggio dell’occidente ma oggi il “progresso” architettonico del decostruttivismo (insieme, per la verità, alla lottizzazione incontrollata e speculativa) che rompe gli equilibri delle città perché fa perdere il senso d’identità e appartenenza ai cittadini, si ritorce contro noi stessi.
Un'architettura come arte civica dovrebbe essere sottoposta al giudizio dei cittadini e dunque la proposta di Sgarbi per il referendum è la forma più democratica di scelta e i milanesi hanno il diritto di scegliere.
*collana Le Vele, Einaudi