Pietro Pagliardini
Nel blog sono apparsi di recente due post apparentemente diversi: uno sosteneva che la città è simile ad un organismo vivente, l’altro trattava dei frattali e dell’autosomiglianza in architettura.
L’autore del post sui frattali, intellettualmente molto esigente, comparando i due post si è posto però, con ciò ponendolo anche a me, questo dilemma:
“Il fenomeno dell’autosomiglianza appartiene all’architettura tradizionale e classica ma si può estendere anche alla città e nel post ci sono anche alcuni accenni . Ma i frattali non sono organismi, anzi sembrano l’esatto opposto, e allora come è possibile che da due procedimenti logici che partono da principi opposti si arrivi alle stesse conclusioni? Se la città è assimilabile ad un organismo come è possibile che presenti anche caratteristiche della geometria dei frattali?”.
Quesito difficile che, se non risolto, potrebbe indurre anche alla conclusione che l’uso che abbiamo fatto di queste metafore non siano tanto astrazioni della mente utili a ricavarne leggi sull’essenza e sul funzionamento dell’architettura e della città quanto espedienti letterari e narrativi privi di corrispondenza alla realtà, frutto di elucubrazioni intriganti ma fuorvianti.
Mi azzarderò a tentare una parziale risposta sperando di soddisfare il rigoroso interlocutore.
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Nei due post si sostiene che la città per funzionare deve essere simile ad un organismo vivente complesso e, contemporaneamente che una forma architettonica o urbana per essere riconosciuta come bella dall’uomo, deve riprodurre, in forma astratta, le forme della natura le quali sono, in moltissimi casi, identiche a sé stesse via via che si scende di scala.
Entrambe le due condizioni convergono (o forse sono strumentalmente utilizzate dai due diversi scriventi) verso la stessa visione di un ritorno alla storia sia in urbanistica che in architettura, portano cioè acqua al mulino di un ambiente urbano tradizionale e/o classico.
Tuttavia sembra di essere in presenza di una antinomia cioè di quella condizione che sfugge al principio di non contraddizione in base al quale o è vera A o è vera non-A mentre in questo caso sembrerebbero vere sia A che non-A.
Può darsi che uno dei due procedimenti logici parta da un principio sbagliato, per cui, ad esempio:
non è necessariamente vero che la città sia assimilabile ad organismo;
oppure:
non è necessariamente vero che l’architettura debba essere costruita con il principio dell’auto-somiglianza a causa della “necessità per la mente e il corpo dell’uomo di un rapporto di continuità con le forme della natura e dell’ambiente” che, perciò, risulterebbe falso.
Un bel problema che, logicamente, è fuori della mia portata. Per dare una risposta occorre però verificare, innanzi tutto, se entrambe gli assunti iniziali siano veri, o almeno verosimili.
Lo farò non ripetendo le stesse cose già dette nei due post precedenti ma appellandomi alla forza dell’analisi e della teoria di Caniggia e Maffei, i quali, sulla scia di Saverio Muratori, hanno studiato il processo evolutivo “dell’ambiente antropico”, dalla scala del tipo edilizio fino alla scala del tipo territoriale, nel loro “Lettura dell’edilizia di base”, Alinea
LA CITTA' COME ORGANISMO
Tutto lascia presumere che la città si evolva e si modifichi secondo principi analoghi a quelli degli organismi viventi: in particolare si consideri la “legge dei raddoppi” che vale ad ogni scala: dalla matrice elementare edilizia di circa 5/6 metri per circa 5/6 metri avviene il raddoppio in altezza; successivamente avviene il raddoppio in pianta, passando al tipo edilizio di base di circa 5/6 metri per circa 10/12 metri e per due piani, successivamente ancora alla casa in linea e così via in un processo di tipo organico per le sue forti somiglianze con il processo biologico cellulare
Ma c’è tutto il processo di crescita e modificazione “dell’ambiente antropico” a confermare il comportamento organico: “ Qual'è dunque la spinta alla crescita del tipo; a che è dovuta la necessità di acquisizione di spazio maggiore, in relazione allo sviluppo di una civiltà? Sembra evidente che, da uno spazio a uso indifferenziato, che già assolve e riassume tutte le funzioni di una casa odierna in poca superficie, il “tipo base”, vengono di volta in volta separate le funzioni che l’uomo ha progressivamente ritenuto di dover separare, attribuendo a ciascuna uno spazio proprio, specializzato ad assolvere quella determinata funzione.” (Caniggia-Maffei- Lettura dell'Edilizia di base - Pag. 98)
Cioè l’organismo da semplice e indistinto si specializza, come nel processo evolutivo della natura.
Questo per quanto attiene alla crescita, ma esiste anche la funzionalità della città e anche qui l’assimilazione all’organismo è dato dalla presenza di “organi, o altre parti che lavorano insieme per svolgere i vari processi della vita” (definizione tratta da www.thefreedictionary.com/organism).
Come negare l’esistenza di organi diversi e collaboranti nella città! Le varie polarità urbane, ciascuna con funzione specifica ma integrata, il rapporto tra le strade e la piazza, i temi collettivi, che integrano e servono la residenza, le connessioni stradali che, similmente al corpo umano, devono essere ridondanti per evitare che il blocco di una sola di ese causi il blocco di tutto il flusso.
Se poi qualcuno ritenesse che il corpo umano è assimilabile e ad una macchina (o meglio, l’inverso) si entrerebbe in questo caso in problematiche filosofiche diverse che esulano da questo post. Ciò che conta è che la città, nel suo complesso e a tutte le scale cresce e si comporta in modo simile ad un organismo vivente, almeno a livello di “coscienza spontanea”. Inutile tornare sul confronto delle favelas o delle borgate romane abusive che, planimetricamente, sono città migliori di molte tra quelle pianificate.
LA CITTA' COME AUTOSOMIGLIANZA
Che "l’ambiente antropico" si sia sviluppato secondo un disegno che si avvicina molto a quello dei frattali, lo dice la modularità, dalla scala edilizia a quella urbana, per cui “una città grande finisce per essere costituita dall’associazione gerarchizzata di tante città piccole, una piccola da un’associazione organica di paesi, un paese da una società di villaggi a loro volta fatti da una gerarchia, sia pur minima, di case. Tutto ciò implica che una metropoli dovrà essere letta attraverso un mondo di moduli progressivamente comprendenti moduli più contenuti, a loro volta fatti di moduli ancor più piccoli, ecc; ciascuno comunque rappresentativo di un organismo relativamente autosufficiente, gerarchizzato, ossia fornito di ruolo peculiare.....”(Lettura dell'edilizia di base- pag.178). In questo brano si descrive il fenomeno dell'autosomiglianza di un organismo. E’ d’altronde facile, a livello intuitivo, verificare questo fenomeno: basta solo visitare i siti Google Earth o Visual Earth, posizionarsi su una città e zoomare a scatti fino a che lo consente il software e, ad ogni vista, si possono osservare forme di aggregazione simili a quelle della vista precedente (vedi immagini di Siena all'inizio).
Allora, se Caniggia e Maffei hanno ragione, sembrerebbero veri entrambe gli enunciati (e loro non si sono posti il problema dei frattali, la cui prima pubblicazione è del 1975 in inglese, mentre i loro studi sono precedenti e contemporanei, né dovevano dimostrare che la città è un organismo ma lo hanno dedotto dalla lettura dei tessuti edilizi).
Siamo d’accapo: com’è possibile? Per tentare (ancora!) di spiegarlo devo ricorrere ad un’altra metafora, quella del corpo umano.
"Il corpo umano è un organismo perché risponde alla seguente definizione:
Una forma individuale di vita, come una pianta, un animale, un batterio ecc; un corpo costituito da organi, o altre parti che lavorano insieme per svolgere i vari processi della vita" (definizione tratta dal sito www.thefreedictionary.com/organism).
Il corpo umano è appunto costituito da organi (cuore, polmoni, neuroni, vasi sanguigni, ecc.) diversi che lavorano insieme. Il corpo umano, nella sua forma esterna ha ben poco di frattale, come invece avviene nel caso degli alberi o del cavolo. Ma i singoli organi hanno geometria frattale: i polmoni è il caso più evidente, ma anche il cuore e l’intestino.
Dunque vi è apparentemente una differenza tra la scala grande e la scala piccola. Ma è in fondo, la stessa differenza che c’è tra la simmetria e la asimmetria nel corpo umano: mentre il corpo umano è, all’esterno e frontalmente, simmetrico, la sua anatomia interna lo è molto meno, a parte la colonna vertebrale e gli organi doppi.
Ma per quello che riguarda la percezione umana l’anatomia interna non conta niente, conta ciò che si vede e l’astrazione della forma che viene elaborata dal cervello. Chiedete ad un bambino di disegnare un uomo e, somigliante o meno alla realtà, sarà certamente simmetrico.
Anche gli alberi sono, nella percezione immediata, simmetrici ma lo sono molto meno, se non affatto, nella realtà.
Dunque, se all’interno del corpo umano, che possiamo definire l’organismo per definizione in quanto è il più complesso, convivono anche forme frattali (forse solo forme frattali) credo che sia a maggior ragione possibile nell’ambito della città.
Sulla problematica dei frattali legati all’architettura e all’urbanistica resta il dubbio del perché l’ambiente antropico dovrebbe svilupparsi secondo processi di questo tipo, come se ammettere questo presupponesse una sorta di determinismo, di fede o di qualcosa di magico.
Anche a questo però rispondono bene i soliti Caniggia e Maffei:
“Al confronto con altri comportamenti non antropici, nel campo della biologia o della struttura della materia, possono notarsi sorprendenti analogie. Riteniamo che ciò non debba stupire poiché l’uomo non è “altra cosa” dal mondo della natura, non ne sta al di fuori: il suo modo di organizzare l’ambiente è sostanzialmente fondato sui medesimi presupposti e sulle medesime leggi che governano i processi biologici unitamente ai processi di progressiva formazione e mutazione della materia. In sostanza , quando l’uomo agisce, si assume il carico di partecipare al sistema di globale divenire di tutta la struttura del reale, quindi è intrinsecamente “naturale” anche quando attua le sue strutturazioni dotate di un alto grado di “artificialità”: lavora sulla materia che esiste, e non può che aderire, anche se non lo sa e non lo vuole, alle leggi formative della natura. Omissis.
In sintesi la nostra lettura porta alla comprensione di una globale organicità del reale: come parte di questo la realtà edilizia, “spontanea” o “pianificata” che sia ……… è fittamente strutturata, non nasce né si modifica casualmente, ma deriva da una costante evoluzione guidata da un sistema unitario di leggi di formazione e mutazione che costituisce quel che chiamiamo “processo tipologico dell’ambiente”, in tutte le sue possibili e molteplici diramazioni.
Caratteristica intrinseca a ogni fase di tale processo è la presenza di un sistema di progressive modularità tra ciascuno dei termini scalari, dall’arredo al territorio: così che la partecipazione individuale dell’uomo al suo mondo strutturato è connessa alla molteplicità degli uomini e delle cose mediante una progressione di grandezze crescenti, ciascuna comprensiva e compresa dalle altre”. (Lettura dell'edilizia di base . Pag.259)
Come si vede, senza conoscere la geometria dei frattali, erano giunti alle stesse conclusioni.
A chi poi facesse il prevedibile richiamo alla teoria del caos, che tanto piace evocare a molti architetti contemporanei, per affermare che proprio i frattali dimostrano l’impossibilità di determinare leggi universali per la città, essendo nel campo dei sistemi non lineari, faccio osservare:
a) Che caos non significa necessariamente confusione ma è il nome di un ordine di tipo diverso, molto più complesso. “Lo studio del caos ci consente di conoscere in quali condizioni il sistema si comporterà in un dato modo.” La definizione di Teoria del caos, da un punto vista scientifico si chiama Teoria dei Sistemi Dinamici non lineari. Anche i nomi contano.
b) Che le mele cascano sempre dagli alberi e le leggi sulla gravitazione dei corpi celesti, che si basa sui sistemi lineari, consentono sempre di determinare l’esatta posizione di un astro in un momento definito, per cui non si tratta di rinnegare secoli di ricerca scientifica e filosofica che hanno prodotto grandi scoperte nelle leggi della natura, ma prendere atto che esiste una complessità maggiore del previsto. D’altronde “ … l’indeterminismo di fatto, ma non di principio, non è eliminabile, dato che in un sistema numerico è comunque necessario fissare un certo grado di precisione non infinito e qualsiasi grado anche più alto di precisione produrrà storie dinamiche differenti. Questo è il cosiddetto caos deterministico, dove il sistema ha un comportamento complessivamente regolare ma irregolare nel dettaglio, e quindi è impossibile prevedere il suo comportamento negli istanti futuri.”. Questa definizione, che fa chiarezza su certe semplificazioni, è tratto da http://www.dti.unimi.it/~pizzi/TESI_ECG/1%20Teoria%20del%20caos.pdf
Certamente la teoria del sistemi dinamici non lineari ha rimesso in discussione il pensiero scientifico e filosofico precedente ma questo non autorizza ad utilizzarla strumentalmente e semplicisticamente per giustificare la dissoluzione della città e dell’architettura in un “caos” appunto, in cui ognuno possa fare ciò che crede con un automatismo deterministico, appunto, tra teoria del caos e teoria della confusione urbana.
Che le attività e gli eventi all’interno di una città appartengano al genere sistemi dinamici non lineari, credo sia abbastanza semplice da comprendere, ma che la sua forma, per questo, debba essere inevitabilmente caotica, per coerenza ad un sistema scientifico, mi sembra possa rientrare nell'ambito della scelta e non della necessità.
Basti un’osservazione elementare: il fatto che i sistemi dinamici non lineari siano stati scoperti qualche decennio fa non significa che prima i comportamenti non lineari della natura non esistessero, significa solo che erano sconosciuti; allora perché, pur vigendo ovviamente quel tipo di comportamento "caotico", le città medievali, rinascimentali, barocche si sono organizzate in quel determinato modo, che oggi si dice superato dalla “scoperta” della teoria del caos?
Anche quelle città si sono organizzate, in maniera "ordinata", in presenza del “caos”, solo che non se conosceva la teoria.
Conclusioni
La città, o meglio “l’ambiente antropico”, si sviluppa come un organismo e contemporaneamente prende forma seguendo il fenomeno dell’autosomiglianza, cioè dei frattali. Anche il corpo umano presenta queste medesime caratteristiche.
L’antinomia non è però risolta.
Ma, a questo punto, domando all’amico ingegnere e a chi avesse la soluzione: esiste davvero l’antinomia?
N.B. I riferimenti al numero delle pagine del libro di Caniggia e Maffei sono quelli della vecchia edizione di Marsilio editori e non a quella in vendita di Alinea.
Le immagini aeree sono tratte da Visual earth di Microsoft
28 agosto 2008
ORGANISMO E AUTOSOMIGLIANZA: UN'ANTINOMIA NON RISOLTA
21 agosto 2008
ANCORA SUL "FALSO IN ARCHITETTURA"
Giulio Rupi
Uno dei temi più stimolanti trattati da questo blog è quello del “falso in Architettura”.
Un tema del genere, che a Pietro interessa in relazione alla polemica tra modernisti e tradizionalisti, è tuttavia strettamente collegato ai dettati consolidati della cultura del restauro architettonico, nel senso che alla base del tabù sul falso nel progetto contemporaneo ci sta il tabù sul falso nel restauro contemporaneo.
Cosicché quando i dettati del restauro proclamano la visibilità dell’aggiunto rispetto al preesistente, ne vengono di concerto, per analogia non esplicitata ma reale, i dettati del modernismo in conseguenza dei quali il nuovo finisce sempre per essere de-contestualizzato rispetto a quello che gli sta intorno.
Ma per andare un poco più in profondità su questo argomento conviene fare un discorso allargato sulla riproducibilità delle opere d’Arte e infine porsi la domanda provocatoria: “L’Architettura è nel manufatto o nel progetto?”.
Se si estende il discorso a tutte le arti, anche senza voler fare una graduatoria puntuale del riproducibile e non riproducibile, si può partire da una banale osservazione: apprezzo “L’infinito” del Leopardi anche se non lo leggo sul manoscritto originale, così come per applicare le leggi di Newton non ho bisogno di consultare l’originale dell’autore.
Quindi all’estremo della riproducibilità ci stanno le opere della letteratura, della filosofia e della scienza.
Ma già se passiamo all’Arte figurativa nessuno potrebbe sostenere che ammirare un Velasquez al Prado sia lo stesso che guardarlo in una riproduzione.
E pure un concerto, una cosa è sentirlo dal vivo, altra è ascoltarne la registrazione.
All’altro estremo, quello della non riproducibilità, io personalmente metterei il balletto, l’arte in cui l’autore dell’opera è l’opera stessa e non vi è alcuna possibilità di separare (e quindi riprodurre) l’opera dal suo autore.
L’opera di Architettura a che punto sta tra questi due estremi? L’Architettura è tutta nel progetto (per cui, avendo il progetto, si può prescindere in parte dall’autore) o è tutta nel manufatto (per cui se parte del manufatto non c’è più, questo non va restaurato secondo il progetto ma, come si è detto, l’integrazione va decontestualizzata)?
E’ pericoloso prendere posizioni troppo nette su questo tema: avremmo da una parte chi ci accusa di giustificare le Piramidi e il Canal Grande a Las Vegas e dovremmo rispondere che la stessa, simmetrica aberrazione sta nella diffusione indistinta del medesimo panettone di Botta in qualsiasi parte del pianeta. Decontestualizzazione nel primo e nel secondo caso.
Tuttavia, dato che oggi il tabù è tutto da una parte, non sarà male contrastare l’idea corrente che ritiene che l’Architettura stia solo nel manufatto, idea che, con una catena di ragionamenti consequenziali, conduce, come sopra spiegato, alla fissazione modernista della decontestualizzazione.
Ebbene: a Mantova la Chiesa di Sant’Andrea è stata realizzata sul progetto dell’Alberti dopo la sua morte: è un falso? Oppure l’Autore è lo sconosciuto direttore dei lavori?
Della torre non costruita della simmetrica facciata di San Biagio a Montepulciano del Sangallo non abbiamo solo il progetto: abbiamo addirittura il manufatto (la torre costruita) dato che la facciata è simmetrica in tutto e per tutto. Che differenza tra il direttore dei lavori che ha costruito Sant’Andrea a Mantova su progetto dell’Alberti e l’ipotetico direttore dei lavori che ricostruisse oggi la torre mancante del San Biagio? Chi sa dare una risposta coerente a una tale provocazione?
O i Veneziani che hanno ricostruito il campanile di San Marco, i Fiorentini che hanno ricostruito il ponte dell’Ammannati (nella foto)?
E il monastero di Montecassino, che molti considerano un falso, o quanto meno un monumento fasullo, un’operazione di dubbia correttezza?
Per non parlare del più classico degli esempi: a Barcellona si può visitare il cantiere di una cattedrale medievale in costruzione. Visitando il cantiere della Sagrada Familia si ha come un senso di spaesamento temporale, eppure si percepisce la forza di un progetto che, come Sant’Andrea di Mantova, riesce a sopravvivere alla morte del suo autore: è un falso?
E’ questo un dibattito di grande interesse, di cui si sente il bisogno proprio perché investe dei tabù e quindi può produrre qualcosa di più delle solite frasi fatte.
Sta di fatto che da una parte il filologismo esasperato e con il paraocchi della moderna cultura del restauro, dall’altra parte la rottura con il passato e con la decorazione dell’Architettura modernista, hanno portato alla sparizione di una tradizione artigianale che fino a tutto l’800 è stata di supporto a una visione architettonica tradizionale e che oggi è dannata al girone infernale del Kitch.
Kitch: una parola assai ambigua e pericolosa, ma per adesso basta con le provocazioni...
Altri post sul falso in architettura:
IL TABU' DEL FALSO IN ARCHITETTURA
DE CORRUPTA EDIFICANDI RATIONE ovvero COME PROGETTARE FALSI E VIVERE FELICI
19 agosto 2008
IL TABU' DEL FALSO IN ARCHITETTURA
Pietro Pagliardini
Qualche giorno fa ho avuto in studio un colloquio con una neo-laureata in architettura interessata a fare la sua prima esperienza professionale.Abbiamo parlato della sua tesi, del relatore della sua tesi, del PRG della nostra città, dei suoi studi, del più e del meno. Il discorso è anche caduto su questo blog e qui ho avuto la sorpresa: ha detto di essere rimasta colpita dal mio post sul Falso in architettura.
Ora, al netto di una comprensibilissima quota di captatio benevolentiae, devo però dire che:
a) Su circa 60 post sarebbe andata a scegliere proprio questo che è vecchio di due mesi;
b) Ve ne sono certamente altri che avrebbero potuto tranquillamente attirare l’interesse di un neo-laureato e ottenere lo stesso, presunto, risultato;
quindi io prendo per sincera questa affermazione, tanto più che la sorpresa non sta nel valore del contenuto del post ma nel fatto che se ne è dichiarata colpita proprio per l’argomento in sé, perché all’università, parole sue, “Il falso in architettura è un tabù. Le rarissime volte che veniva sfiorato l’argomento i professori deviavano subito”.
Tabù: ha usato proprio questa parola antica, desueta e anche un po’ logora.
Tabù si usava ai miei tempi ma oggi quanti tabù sono sopravvissuti?
Wikipedia dà questa definizione di tabù:
“In una società umana un tabù è una forte proibizione (o interdizione), relativa ad una certa area di comportamenti e consuetudini, dichiarata "sacra e proibita". Infrangere un tabù è solitamente considerata cosa ripugnante e degna di biasimo da parte della comunità.”
Poi di seguito elenca una serie di presunti tabù. Dico presunti perché mi sembra che solo uno sia rimasto e cioè la pedofilia. Gli altri mi sembrano del tutto digeriti, almeno dalla nostra società.
Ma all’elenco ne manca uno: Il falso in architettura. Qualcuno dovrebbe aggiornare Wikipedia.
Io non dubito affatto che questa affermazione sia vera perché l’architettura accademica è sempre stato il luogo dei tabù e ogni epoca ha avuto il suo: quando frequentavo io, il falso non era neanche” in mente dei”, rimosso, mai esistito, ma in compenso l’architettura fascista (tout court) era deprecabile, Piacentini un servo del regime, ogni architettura classica sinonimo di regime dittatoriale.
Vedi a questo proposito Leonardo Benevolo che, nella sua Storia dell’Architettura Moderna, edizione 1971, associa l’italiano Giovannoni, il russo Lunacarskij (ministro della cultura sovietica) e il tedesco Speer (architetto e ministro della guerra di Hitler) nello stesso girone dell’inferno.
Di Giovannoni, in particolare, Benevolo utilizza questo brano come esempio:
“ Il classico è dignità, è equilibrio, è sentimento sereno di armonia. Forse per l’antropomorfismo delle sue proporzioni, o forse per la coscienza con cui si è inserito nell’anima della città e delle generazioni è il punto di riferimento del gusto e dell’arte pubblica, è l’espressione somma che l’uomo ha trovato … ovunque ha voluto dalle materiali contingenze elevarsi alle finalità di pura espressione della vita dello spirito”.
Con il che ho scoperto di essere anch’io un uomo di regime, che non sarebbe niente, se non fosse che giudizi molto simili a questo sono condivisi (a parole) da Rem Koolhaas il quale dice:
“I greci antichi erano una civiltà che ha creato monumenti in modo comunitario, che sentiva di avere una responsabilità collettiva verso la cosa pubblica e che aveva chiara la relazione tra il pubblico e il privato. Questa civiltà ha creato un' architettura e un' urbanistica che sono ancora, per la gran parte di noi, il modello dominante”.
Con tutto il rispetto dovuto a Leonardo Benevolo non sarebbe il caso, se già non lo avesse fatto, di ammettere un atteggiamento esageratamente ideologico e un po’ conformista nel suo giudizio?
Ora il povero studente, tanto più in clima sessantottino, che speranza aveva non dico di contestare ma di provare a immaginare lontanamente di contestare simili giudizi espressi da Leonardo Benevolo e, di conseguenza , dei professori? Casomai era ammessa e gradita una condanna ancora maggiore, uno scavalcamento a sinistra del grande storico, ma pensare di affrontare un esame e dire che, in fondo, il classicismo qualcosina di buono l’aveva fatto e forse avrebbe potuto anche continuare a farlo era suicidio curriculare se non rischio fisico, in assenza di un presidio di celerini. E così si plasma la mente del giovane studente di architettura!
Oggi non è così, il culto imperante del modernismo (in alcune facoltà, nella critica ufficiale, nei congressi e nei consessi pubblici) come lo chiama correttamente Nikos Salìngaros , non si manifesta in maniera rozza come allora, ma in modo molto più raffinato e subdolo, con una tecnica da conventio ad excludendum , cioè con un atteggiamento di sufficienza e sottile disprezzo per la volgarità del pensiero che mette in posizione marginale coloro che invece ritengono che Giovannoni avesse ragioni da vendere e come lui, oggi,Lèon Krier, e Rob Krier, e il principe Carlo d’Inghilterra, e Nikos Salìngaros, e Pier Carlo Bontempi, e Gabriele Tagliaventi, e Demetri Porphyirios, e Lucien Steil e tanti altri che non sto ad elencare.
Se è vero che oggi è possibile, tuttavia, azzardarsi a professarsi seguaci delle forme classiche e/o della tradizione senza rischiare molto di più di qualche sorrisino di sufficienza, di non aspirare a vincere concorsi, di ripetere qualche esame, è anche vero, evidentemente, che il tabù permane per il falso in architettura, per il restauro stilistico.
Una piccola riprova? Andate su Google, fate la ricerca “falso in architettura” e cosa trovate? Nella prima schermata in posizione n° 5 il mio post sul falso.
Ora, dico io, su un argomento di questa importanza che dovrebbe avere pagine e pagine cosa significa che il mio post "De corrupta edificandi ratione ovvero come progettare falsi e vivere felici" occupi quella preminente posizione?Una cosa sola: che dell’argomento non si parla e non si scrive, o almeno non a sufficienza e ciò che non appare non esiste, come è noto.
Ma il seguace del culto dirà: se non appare significa che non interessa!
Sbagliato: non interessa perché non appare, perché del tabù non si parla, altrimenti non sarebbe un tabù, perché parlarne è già farlo cadere e la caduta di un tabù come questo, per il solo fatto di parlarne e basta, sia bene che male, è causa di rimessa in discussione di tutto l’impianto si cui si basa il pensiero unico modernista e cioè che è possibile solo un unico canone architettonico, cioè quello della mancanza di canoni.
Tana, liberi tutti; ognuno faccia ciò che vuole perché sono la creatività, la sperimentazione e l’innovazione a rendere autentica solamente l’architettura contemporanea, tutto il resto è morte, mummificazione, ignoranza, volgarità.
Si ammette dunque un’apparente libertà assoluta, ma in realtà limitata e costretta nell’ambito dei tre canoni di cui sopra; mentre l’aderenza alla storia, l’annullamento dell’egocentrismo architettonico, il riconoscimento del valore civile dell’architettura, la convinzione, suffragata da studi seri, che vi sono valori permanenti in architettura e urbanistica, sono concetti oscurati, censurati, derisi.
Il tabù del falso, cioè la negazione della possibilità del solo parlarne, non il dichiararsi d’accordo con il falso, viola appunto "l’interdizione ad una certa area di comportamenti, dichiarata sacra e proibita" e questa è la migliore dimostrazione che il culto non è, purtroppo, un’ossessione o un’esasperazione retorica.
Parlare di falso è entrare in un recinto sacro e perciò proibito ai più, essendo solo i sacerdoti gli unici in grado di stabilire ciò che è giusto e ciò che sbagliato. La violazione del tabù comporta "biasimo da parte della comunità".
Ma perché il falso è tabù?
Perché parlare di falso significa, prima di tutto e a prescindere dal parere di ognuno in proposito, parlare di architettura per la città e per i cittadini, cioè avere come obbiettivo non l’auto-esaltazione dell’architetto ma il desiderio di creare ambienti urbani per l’uomo. Questo è l’obbiettivo del falso in architettura, salvo poi pensare, legittimamente, che non sia una strada giusta; ma, se si inizia a parlarne si mettono in discussione le radici dell’architettura contemporanea la quale non ha altro scopo che il personalismo esasperato del progettista, la ricerca del nome, del maestro, il gesto ad effetto, senza tenere in alcun conto i valori che la città storica e la città in generale esprime in relazione ai suoi abitanti, più che all’architettura stessa.
Per questo il povero Gustavo Giovannoni è stato relegato nell’inferno dei cattivi, perché non solo ha osato esaltare il classicismo e, si legga bene il brano all’indice, solo per i concetti di antropomorfismo (Rupi direbbe per la rappresentazione figurativa) e di armonia, non per aver detto di preferire l’ordine corinzio al dorico, ma anche perché ha introdotto il principio del restauro stilistico, che con il falso ha notevoli consonanze.
Ma è grazie al restauro stilistico che la mia città, Arezzo, è visitata con piena soddisfazione da migliaia di turisti ignari ed ignoranti del fatto che una serie di monumenti, non tutti, sono reinventati, e grazie al quale gli aretini nati dopo il 1940 hanno potuto godere di una città più bella e più riconoscibile di quella dei loro padri.
15 agosto 2008
ALLE RADICI DI CITYLIFE
Pietro Pagliardini
Questa piccola grafica, dal titolo L’Architetto, sta attaccata nella parete del mio studio da almeno 6 anni ma, confusa tra i numerosi oggetti cult della Coca Cola, è ricomparsa ai miei occhi solo oggi, Ferragosto, durante il riordino necessario per recuperare un po’ si spazio. Nascosto alla vista e alla memoria, eppure è il progetto di CityLife!
Possiedo il progetto di CityLife dal 2002 e me ne accorgo solo ora!
L’autore, tale Armando Orfeo, aveva buttato giù l’idea già nel 2001; chissà se ha già rivendicato la notula per il progetto preliminare! Se non l’ha fatto che si affretti perché credo che valga più quadretti di quanto egli possa fare nella sua vita.
Non saprei dire se c’è ironia nel disegno ma direi comunque che la rappresentazione della figura dell’architetto data attraverso una serie di edifici bislunghi e sinuosi come tre cobra è quella di un "artista" estroso e fantasioso. Il 7 in cima ad uno di questi edifici poi potrebbe significare che l’architetto è matto 7 giorni su 7 oppure potrebbe attribuire all’architetto capacità magiche. Personalmente propendo per la prima ipotesi e la mia convinzione è avvalorata dal dado che non può che significare casualità, cioè la stessa con cui alcuni fanno i progetti.
Comunque sia le somiglianze sono veramente notevoli e questo rende giustizia a Leonardo da Vinci, cui Libeskind ha dichiarato di ispirarsi: il vero, incolpevole, ispiratore è invece Armando Orfeo. Non so se i milanesi saranno contenti ma è doveroso almeno mettere il link al suo sito internet.
http://www.armandoorfeo.it/
10 agosto 2008
PENSILINA DI ISOZAKI E CONCORSI
Pietro Pagliardini
Il Ministro Bondi non vuole la pensilina di Isozaki agli Uffizi e lo dice al Corriere della Sera nel miglior modo possibile per un ministro:
«Non sono assolutamente contrario all' architettura moderna in sé, ma non è possibile pensare ad un nuovo progetto per una città rinascimentale come se non ci fossero mai stati Michelangelo e Vasari. Perché Firenze non è Dubai. Lo Stato non può autorizzare un intervento che ogni soprintendenza boccerebbe a un privato».
Il ministro, famoso per la sua mitezza e amante della poesia, ha parlato con grande fermezza, in modo che tutti possano capire: ha parlato di cultura, facendo riferimento all’unicità del patrimonio artistico, storico e culturale di Firenze e affermando che questo patrimonio va rispettato, e ha parlato di politica, dimostrando di essere a conoscenza dei rapporti tra cittadini e Stato e dichiarando che ciò che non è possibile ai cittadini non lo può essere neanche per le istituzioni che li rappresentano (la foto sopra di Firenze con l'astronave parla meglio dei rendering).
Venendo al tema, la domanda è: perché ripetere l’errore dell’Ara Pacis?
Per il semplice fatto che il progetto è uscito vincitore da un concorso?
E’ un fatto ormai noto che i progetti vincitori dei concorsi sono, nella maggior parte dei casi, progetti sbagliati perché giudicati da architetti che non si basano su ciò che è meglio per la città ma su ciò che è meglio per “l’architettura”, intesa come disciplina autoreferenziale, estranea al contesto e alla gente (ammesso che l’architettura sia ancora una disciplina).
Per dare dignità all’istituto del concorso, che in Italia non l’ha mai avuta, non resta che una strada: modificare la legge e affiancare alla giuria tecnica il voto dei cittadini (non si parli di lungaggini burocratiche perché la storia della pensilina, e di tutti i concorsi, va avanti da anni!) e poi, sulla base dei due diversi gradi giudizio, l’amministrazione, cioè il Sindaco (quando il soggetto è il Comune) prenda le sue determinazioni.
Si abbandonino i cosiddetti meccanismi automatici di falsi punteggi, buoni solo a dare apparenza di oggettività a decisioni che sono di tipo “sintetico” e non “analitico” (e non potrebbe essere diversamente).
Si mettano le decisioni nella mani dei cittadini e dei loro rappresentanti (pensando alla storia si potrebbe dire: si ri-mettano), dopo il necessario giudizio degli esperti. La figura dell’architetto progettista e dell’architetto giurato ne risulterà esaltata e non sminuita da questo confronto con i cittadini e la città, mentre oggi ai concorsi regolari non crede più nessuno.
La forma concorso acquisterà vera dignità e questo è l’unico modo possibile per avvicinare l’architettura ai cittadini, non certo con i vari festival, anche se mi rendo conto che smantellare l'attuale sistema dei concorsi a molti "esperti" potrà apparire "eversivo" perchè si vanno ad intaccare interessi accademici e professionali consolidati.
A proposito di questo concorso è assolutamente singolare un appello firmato nel 2004 da intellettuali di varia provenienza perché si facesse la pensilina. Questi i firmatari:
Zubin Mehta, Adolfo Natalini, Gianni Pettena, Fabrizio Rossi Prodi, Achille Bonito Oliva, Sergio Risaliti, Enzo Siciliano, Alberto Asor Rosa, Giorgio Van Straten, Stefano Passigli.
A parte Zubin Metha, che però nel dirigere Verdi non credo che gradirebbe l’intromissione di una chitarra elettrica, quello che meraviglia di più è l’ineffabile Alberto Asor Rosa: ma come, lui, il difensore dei valori del paesaggio e dell’architettura toscana firma a favore della pensilina?
Ma davvero dobbiamo credere alle motivazioni dell’appello che fa riferimento alla “credibilità internazionale dell’Italia”? E l’intervento contro cui si è mobilitato a Monticchiello non era forse una lottizzazione convenzionata, e quindi legittima, e il mettersi di traverso a quella lottizzazione non era forse uno screditare le istituzioni?
Forse che Firenze vale meno di Monticchiello? Probabile un errore di valutazione (l’appello per la pensilina, intendo).
Avrei una proposta per Asor Rosa: visto che è diventato il paladino dei comitati e ha buone conoscenze perché non si impegna anche lui a rendere possibile il voto dei cittadini nei concorsi?
La domanda è pleonastica perché Alberto Asor Rosa non legge certamente questo blog ma la considero come un messaggio dentro una bottiglia: chissà che, galleggia, galleggia, alla fine non gli possa arrivare!
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Altri post sui concorsi:
Concorsi per gli architetti o concorsi per la città?
Architettura come arte civica
La foto è tratta dal blog Skymino's House
7 agosto 2008
LA FIGURA - Parte seconda
Parte seconda: Le figure create dall’uomo, l’Architettura
di Giulio Rupi
Dunque, se nella prima parte abbiamo scritto di come la natura si organizza, secondo le necessità che si svolgono nei millenni, in figure cui è estraneo il concetto di bruttezza, in questa parte dimostreremo che anche per le opere dell’uomo vale lo stesso assunto: anch’esse, fino al momento in cui è avvenuta la discontinuità del Moderno, si sono strutturate secondo la necessità in figure riconoscibili, figure anch’esse estranee a quella che noni definiamo come “bruttezza”.
E vedremo che, come (raramente) la natura, in seguito a eventi improvvisi e catastrofici, si struttura in forme non più figurali, così anche l’uomo, nella Modernità, ha iniziato a creare forme astratte, senza figura, nell’Arte, nell’Architettura, nella musica e via dicendo.
L’Architettura tradizionale si pone dunque in continuità con le forme della natura perché segue anch’essa le leggi della necessità.
Se accostiamo l’una all’altra una pianta secolare e una capanna preistorica, vediamo le stesse regole della necessità nel radicarsi sulla terra dell’una e dell’altra, l’una con solide radici, l’altra con allargate fondazioni in pietra.
Vediamo il tronco levarsi verso l’alto a cercare la luce e, accanto, i muri della capanna salire a protezione dell’interno, con le aperture rivolte al percorso del sole.
Vediamo la chioma dell’albero aprirsi alla luce da cui trae energia e, accanto, il tetto della capanna che conclude la costruzione e la protegge dalle forze del cielo.
Possiamo definire “belle” o “brutte” le infinite forme di Architettura spontanea che si sono costruite in tutto il mondo e che hanno come archetipo di base la capanna fatta di cinque segmenti: un segmento orizzontale per il terreno, due segmenti verticali per i muri, due segmenti inclinati e convergenti per la copertura?
Questa “cosa” costruita dall’uomo secondo necessità è una figura come sono figure le “cose” costruite dalla natura.
Noi aderiamo con la nostra mente alle figure dell’Architettura spontanea così come aderiamo alle figure della natura: percepiamo quelle come perfettamente integrate e in continuità con queste perché frutto di un medesimo processo di necessità.
Ma dalla capanna primordiale fatta di cinque segmenti derivano, secondo processi di evoluzione, di accrescimento della complessità che però non modificano la sostanza dell’assunto, tutte le successive forme dell’Architettura tradizionale, dal tempio classico alla pagoda orientale, dalla cattedrale gotica o barocca al palazzo settecentesco.
Sono tutte figure costruite dall’uomo secondo un criterio in cui la necessità e la bellezza non sono che le due facce di un medesimo processo di creazione in continuità con la natura.
Quando si è detto “L’Arte imita la Natura” non si è detta una banalità dozzinale, ma proprio questa profondissima verità.
E dunque si può fare un parallelo tra l’Architettura tradizionale e l’Arte figurativa da una parte e tra l’Architettura modern(ista) e l’Arte astratta dall’altra.
Le prime da porsi in continuità con la natura nelle sue molteplici manifestazioni, le seconde da collegarsi alla natura quando questa assume forme “catastrofiche”.
Infatti non hanno più alcun rapporto con la figura e la necessità le architetture dcostruttiviste di Gehry come le torri storte della Fiera di Milano, ma queste architetture non sono che le estreme manifestazioni di una storia iniziata quando, agli inizi del ventesimo secolo, si è proclamato il distacco dalle forme della tradizione.
Questa rottura con la figura si è poi risolta in una diversa fruizione delle opere costruite.
L’Architettura tradizionale figurativa viene percepita come “gradevole” a tutti i livelli culturali perché attiene a un rapporto profondo tra l’uomo e la natura, con cui quest’Architettura si pone in continuità.
L’Architettura modern(ista) non figurativa richiede una fruizione a livello intellettuale, non istintivo, pari a quello con cui si osserva un quadro astratto o si ascolta una musica dodecafonica.
Questa fruizione è riservata a un’elite ed è preclusa alle masse, ma non ci stancheremo mai di ripetere che ciò non è consentito alla disciplina del costruire, che crea ambienti entro cui la gente, colta o incolta che sia, è costretta a vivere.
6 agosto 2008
"IO L'AVEVO DETTO.."
Oggi faccio la ruota come un pavone perchè....Gregotti è d'accordo con me!
Oddio, lui probabilmente, anzi sicuramente, non lo sa di essere d'accordo con me però io lo so e il mio ego ne gode fortemente.
Ognuno ha le sue debolezze!
Sul Corriere della Sera di ieri 5 agosto Gregotti ha scritto un articolo dal titolo "Caro Koolhaas, basta slogan", dove rileva, più o meno, le stesse contraddizioni che avevo già rilevato nel mio post L'ANTICA GRECIA, LA CINA, DUBAI E REM KOOLHAAS.
"Io l'avevo detto" non è una bella espressione ma... d'estate, si sa, i freni inibitori tendono ad allentarsi. Inoltre, dopo un vivace scambio di battute con un nobile architetto su Archiwatch, mi ci voleva proprio qualcosa per tirarmi su e dare anche a me qualche mezzo quarto di nobiltà.
Bella è la conclusione di Gregotti: "senza smarrirsi nella società dello spettacolo, nella nuova retorica mediatica dell' architetto artista che agisce al di là di ogni specificità disciplinare, credendo invece criticamente proprio nell' utopia di un' architettura della città dei cittadini e parlando con le opere di ciò che solo l' architettura può dire". Una prosa un pò involuta, come al solito, ma insomma si capisce cosa voglia dire. E anche questo richiamo alla città dei cittadini, che è un tema di questo blog, è da condividere. Inoltre è chiara la denuncia di un'architettura che è assimilata a produzione di oggetti di design nelle città.
Semmai mi sembra che manchi a Gregotti la percezione dell'esatta dimensione della potenza di un sistema che si permette di fare ciò che vuole e di criticarsi allo stesso tempo, con un cinismo e una sfrontatezza assoluta.
Io invece non ho capito bene se è anche Gregotti ad averci ripensato o se, come probabile, mi sono perso qualche passaggio. Inutile sottilizzare.
Certo resta un rimpianto: se Gregotti, con la sua autorevolezza, avesse parlato sempre in modo più forte e chiaro contro l'architettura degli archistar, senza troppi pudori snobistici nel pronunciare questa parola, che è in sè una denuncia, forse avrebbe contribuito a fare più chiarezza.
Pietro Pagliardini
5 agosto 2008
LA FIGURA - Parte Prima
L’assenza è quella di un termine quasi mai nominato, un termine che invece dovrebbe essere preso a riferimento, nel pro e nel contro, delle idee contrapposte nel vivacissimo scontro tra modernisti e antimodernisti; il termine è: “FIGURA”.
Si condensano in questa parola tutta una serie di concetti, molteplici e tra loro concatenati, che attingono all’idea di natura e di necessità, di bellezza naturale e di bellezza artificiale, di figuratività e di astrattezza, concetti che si rivelano utilissimi a discernere e chiarire i reali antagonismi posti alla base di questa diatriba.
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Cos’è dunque la figura?
Un tempo, ai primordi della televisione in bianco e nero, ci si doveva spesso sintonizzare con fatica sull’unico canale disponibile, ed ecco che, girando lentamente la manopola della lunghezza d’onda, da un brulicare indistinto e frenetico di puntolini bianchi e neri (quasi l’immagine di una miscela gassosa) si iniziavano a intravedere delle strisciate o delle macchie bianco grigie, le immagini di una composizione astratta, che infine si ricomponevano, in un sospiro di sollievo degli astanti, nella FIGURA nitida del mezzobusto intento a leggere le pagine del telegiornale.
Probabilmente ognuno di noi, quando appena uscito dal ventre materno apre gli occhi su un mondo fatto di suoni e di luci indistinte, impara poi a riordinarli nelle figure e nelle voci della madre, del padre, della pallina appesa alla culla e, piano piano, degli oggetti di tutto il suo mondo.
Ma così facendo noi non facciamo altro che adeguarci, riconoscendolo, al processo con cui la natura si è lentamente organizzata in forme riconoscibili, cioè in figure.
E’ il processo attraverso il quale da un pianeta giovane, caratterizzato da una forte indifferenziazione (quali oggi sono, ad esempio, la Luna, o Venere o via dicendo) si è passati alla formazione di oceani e terreferme, di pianure e di montagne, di fiumi, di laghi, di alberi, di animali e infine di esseri umani. La formazione di differenze dall’indifferenziato porte con se la formazione di figure riconoscibili.
Osservando una montagna ne percepiamo la FIGURA come effetto di un lentissimo contrasto tra le immani forze sotterranee che dal basso spingono la crosta terrestre a formare le catene montuose e, di contro, le azioni del clima, che tendono altrettanto lentamente a disgregare ogni asperità e a portare a valle polveri e detriti.
Osservando una pianta secolare percepiamo la necessità di una forma a simmetria circolare, indifferente alle direzioni in quanto immobile sul terreno, mentre osservando un animale percepiamo la necessità di una simmetria rispetto a un piano verticale, ma con un davanti e un dietro, in quanto questa creatura è adattata a muoversi in una direzione e quindi a concentrare su una parte del corpo (il “davanti”) gli organi sensori più raffinati.
E dunque se questa natura si è organizzata in FIGURE, seguendo lentamente la spinta della NECESSITA’, il concetto di Figura e quello di Necessità sono fortemente collegati.
Ma ecco che, di fronte a qualsiasi manifestazione di una natura incontaminata noi percepiamo una quasi automatica sensazione di bellezza, perché il “brutto naturale” non può esistere “per definizione”. Cosicché finiamo per associare, in natura, il concetto di Bellezza al concetto di Figura e al concetto di Necessità.
Insomma: la Necessità fa si che la lenta evoluzione delle cose pori alla creazione di Figure e che queste figure siano per ciò stesso espressione della Bellezza del mondo naturale, sia “animato” che “inanimato”.
Ma questo concetto va ulteriormente definito e meglio dimostrato “a contrario”, cioè attraverso il suo opposto, perché non è sempre così, perché ci sono dei frangenti in cui questo ragionamento non vale per nulla, dei frangenti in cui la natura non si organizza per figure ma si struttura in ambienti e paesaggi che non sono fatti di figure, bensì di forme astratte.
Questo avviene nei casi particolari in cui i fenomeni naturali si presentano con un’accelerazione improvvisa e “catastrofica”: la colata lavica dopo l’eruzione di un vulcano, il paesaggio dopo un terremoto, una frana, un’alluvione, la concrezione di un geyser (l’Islanda è un campionario di paesaggi astratti).
In questi casi la necessità naturale non ha avuto il tempo di tradursi lentamente in figure riconoscibili e ha creato ambienti e paesaggi del tutto particolari.
Sono paesaggi astratti che hanno altrettanto fascino di quelli figurativi formatisi in milioni di anni, ma che da questi ultimi distano di quanto un quadro di Pollock dista da una Madonna del Beato Angelico.
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Siamo quindi giunti al termine della prima parte del ragionamento: il “brutto” in natura non esiste perché l’adesione spontanea della nostra mente alla necessità naturale che si organizza in figure fa tutt’uno con quello che siamo usi chiamare il sentimento della Bellezza.
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Vedremo nel proseguo come questo collegamento tra necessità, figura e bellezza, possa essere esteso dal naturale all’artificiale, dalle opere della natura alle opere dell’uomo, e come anche qui possano esservi da una parte opere che, pur frutto dell’artificio, possono ricondurre al concetto di figura naturale e di necessità e, dall’altra parte, opere che, simili alla natura quando questa si presenta in forme “catastrofiche”, si astraggono dalla necessità della figura per vivere in un universo solo concettuale.
1 agosto 2008
GRADEVOLEZZA
Giulio Rupi
In questo blog (e ultimamente anche su Archiwatch) ricorre spesso il dibattito su quanta influenza possano o debbano esercitare i cittadini sul progetto della città.
Allora sgombriamo subito il campo dallo spinoso tema della partecipazione al progetto.
Qualsiasi progetto è preceduto dall’analisi delle esigenze, dell’uso a cui è destinato: l’ascolto di queste esigenze, da sempre uno dei fondamenti del progetto (l’Utilitas vitruviana) diviene forma grottesca di partecipazione quando si pretende che il cittadino possa avere gli strumenti tecnici e specialistici per compiere il passaggio tra l’espressione delle esigenze e la sua traduzione in forme dello spazio fisico.
Ma dato che Vitruvio parla anche di Venustas il vero problema è se il cittadino, fruitore finale dell’opera progettata, possa avere voce in capitolo sulla scelta della Venustas tra opere di pari Utilitas e di pari Firmitas.
E qui, tanto per chiarire le cose fin dall’inizio, la risposta del sottoscritto è un convinto “Sì!”.
Per spiegare questa posizione propongo di passare dal latino di Vitruvio all’italiano dell’uso comune e di utilizzare un termine di larga diffusione posto a titolo di questo scritto: la GRADEVOLEZZA (un termine diffuso ma non nei circoli dell’Architettura; sarei curioso di chiedere a un neolaureato di questa disciplina quante volte in 5 anni di studi ha sentito uno dei suoi docenti adoperare questo termine).
Gradevolezza è un termine che aggira il concetto, più altero e controverso, di Bellezza, sdrammatizza la disputa sull’Architettura e consente alla gente di entrare nel recinto impenetrabile di questa disciplina, perché è un termine che si relaziona all’istinto più che all’intelletto, alla sensazione più che all’elaborazione culturale.
Qui il nostro stereotipo interlocutore modernista sobbalza per l’ennesima volta sulla sedia (sedia ormai in procinto di sfondarsi) e grida: “Ma “L’urlo” di Munch è un capolavoro e non è certo gradevole! Ma i quadri di Pollock sono dei capolavori e non si può pretendere che la gente li consideri gradevoli!
E qui vale rifarsi alle consuete argomentazione e ribadire che:
1 – L’Architettura è una disciplina che crea spazi in cui la gente è costretta a vivere, pertanto non può prescindere dalla reazione dei propri fruitori, così come la scienza medica che stabilisce protocolli di cura, non può prescindere dagli esiti di queste cure sui malati.
2 – Non è corretto sostenere che queste reazioni non hanno alcuna validità oggettiva e pertanto vanno sostituite da giurie di esperti, perché invece le grandi opere del passato sono oggettivamente apprezzate tanto dai colti quanto dalle masse incolte, così come le orrende periferie del presente sono oggettivamente disprezzate tanto dall’elite accademica dei colti quanto dalla moltitudine degli ignoranti (che talvolta esprimono tale disaffezione dando fuoco a tutto).
3 – Ne deriva che il valore della Gradevolezza (cioè di una Venustas che abbia in più anche la qualità di essere apprezzata anche dal pubblico dei non esperti) è un valore necessario da sempre per la disciplina del costruire gli edifici e le città e pertanto il vaglio finale di un pubblico largo è la via più sicura perché tra progetti diversi, ugualmente validi sotto gli altri aspetti, si scelga quello che meglio si adatterà al carattere del luogo, alle aspettative dei cittadini, all’inserimento e alla convivenza con la città.
4 – Pur se, come sempre, si deve continuare a premettere che qui si parla di Architettura come disciplina del costruire (è quella che ci interessa) e non come opera d’Arte (quella la lasciamo alle Archistar) il termine Gradevolezza non indica qualcosa di alternativo al livello artistico di un’opera, ma solo un diverso livello di fruizione (quello stesso che vale per la fruizione colta o turistica delle grandi opere del passato).
La divaricazione tra questi due livelli ha avuto conseguenze tragiche per l’Architettura, rispetto alle altre discipline. Così si è finito con il confondere il tutto (appunto la disciplina generalizzata del costruire) con la sua millesima parte (le opere del circuito delle Archistar, delle riviste e delle Università di Architettura).
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Ben vengano dunque i referendum tramite i quali i cittadini potranno giudicare sulla GRADEVOLEZZA di un progetto che, una volta realizzato, avrà un impatto notevole sulla qualità della vita futura loro, dei loro figli e probabilmente anche dei loro nipoti.