“Le città cambiano ed è impossibile arrestare il processo in quanto la città è un organismo e come tale nel tempo, inevitabilmente, cambia”. Farei mia questa frase, la sposerei come si dice, se non fosse uscita dalla bocca e dalla mente di Rem Koolhaas , e allora è necessario ricorrere al pregiudizio in base al quale le parole non hanno sempre un significato oggettivo ma assumono significati diversi in base a chi le pronuncia. E’ un fenomeno abbastanza noto in politica che puntualmente si ripete.
Analizziamo la città-organismo, nella versione di Koolhaas. Questi si appella alla città come organismo per giustificare il suo progetto al Fondego dei Tedeschi a Venezia, accusando implicitamente gli oppositori di quel progetto di essere immobilisti e conservatori. Artificio retorico molto abile ed efficace perché utilizza un argomento proprio della tradizione per far passare l’idea di un progetto che invece la nega.
Mossa doppiamente abile, in quanto la sua metafora fa ricorso ad un attributo che effettivamente un organismo vivente possiede - e la città con i suoi edifici è un organismo vivente - vale a dire quello della “crescita”, facendo però ben attenzione a tacere l’altro fondamentale attributo, cioè quello del “modo” in cui ogni organismo cresce.
La natura ha previsto determinate regole per ogni specie, animale o vegetale, in base alle quali, ad esempio, un uomo nasce in un determinato modo e poi cresce formalmente uguale a se stesso ma con proporzioni e dettagli del tutto diversi. Poi ci sono specie che hanno un’altra storia, quali la metamorfosi, ma tutte hanno comunque un cambiamento prestabilito. Esistono poi variazioni e modificazioni significative così come esistono le malattie, anch’esse da considerare naturali ma tuttavia da debellare in quanto considerate “patologia” e non “fisiologia”.
Il progetto architettonico, e quindi il suo prodotto, l’edificio, appartiene in qualche misura alla natura in quanto opera dell’uomo, non come espressione di una legge, con tutte le sue eccezioni, non come prodotto di combinazioni genetiche in cui sta scritta, in buona misura, la storia futura di un organismo, bensì della sua volontà, del suo pensiero, dei suoi bisogni, della sua libertà di scelta come singolo individuo o come collettività. L’edificio quindi cresce, e deve crescere, anche nel senso di trasformarsi, al pari un organismo, per dare risposta a stimoli, necessità e scelte dell’uomo e della collettività.
Detto questo si potrebbe dunque dedurne che se la volontà dell’uomo, le condizioni esterne della società, la libertà di scelta, detto in una sola parola: la sua cultura è l’elemento caratterizzante la crescita di un edificio, è l’uomo stesso e non la natura direttamente a decidere, e questa scelta potrebbe essere dunque indifferentemente una crescita armonica e senza soluzione di continuità oppure una crescita dissonante e di rottura con ciò che esiste, questo in base a diverse scelte, culturali appunto, variabilida soggetto a soggetto. Ed effettivamente è così che avviene ed in maniera intensiva e diffusa da almeno un secolo, e Rem Koolhaas fa appello proprio a questo metodo di crescita dell’edificio di Venezia, che trova la sua ragion d’essere nella libera scelta del progettista, nella sua “sensibilità” e creatività, nel suo capriccio in fondo.
Prima della rottura del novecento non era questo il metodo di crescita degli edifici e della città. La città e gli edifici che la compongono crescevano con forme e metodi costruttivi determinati in massima parte dalla “coscienza spontanea”. Scrive Gianfranco Caniggia in Lettura dell’edilizia di base, Alinea Editrice:
“Al confronto con altri comportamenti non antropici, nel campo della biologia o della struttura della materia, possono notarsi sorprendenti analogie. Riteniamo che ciò non debba stupire poiché l’uomo non è “altra cosa” dal mondo della natura, non ne sta al di fuori: il suo modo di organizzare l’ambiente è sostanzialmente fondato sui medesimi presupposti e sulle medesime leggi che governano i processi biologici unitamente ai processi di progressiva formazione e mutazione della materia. In sostanza , quando l’uomo agisce, si assume il carico di partecipare al sistema di globale del divenire di tutta la struttura del reale, quindi è intrinsecamente “naturale” anche quando attua le sue strutturazioni dotate di un alto grado di “artificialità”: lavora sulla materia che esiste, e non può che aderire, anche se non lo sa e non lo vuole, alle leggi formative della natura”.
Ecco, il punto è questo: Koolhaas non aderisce “alle leggi formative della natura”. O meglio, vi aderisce (nessuno può sfuggire a questa regola, anche se lo volesse), ma alle leggi del genere “malattie” o “virus” come li chiama Nikos Salìngaros, di qualcosa di estraneo o anomalo alla legge della crescita di un organismo.
Lo spiega bene proprio Nikos Salìngaros in Anti architettura e Demolizione, LEF, 2008:
“Gli scienziati non sono ancora giunti ad un accordo definitivo sulla reale essenza della vita, tuttavia vi è un crescente consenso sulla natura dei processi che ne costituiscono il fondamento. Alcune delle caratteristiche salienti sono:
1) La vita è imperniata su connessioni e trame.
2) La vita è una “complessità organizzata”, una potente miscela di regole e contingenza, ordine e spontaneità.
3) La vita non può essere definita mediante equazioni matematiche tradizionali ceh pretendono di dare “una risposta”; ma è qualcosa di più che una rivelazione, paragonabile all’azione espletata dal programma di un computer.
4) La vita è un algoritmo genetico che crea e sviluppa complessità organizzata durante l’apprendimento.
5) E la vita non è soltanto complessa, ma – in modo ancora più misterioso, forse – è ordinata, mostrando una gamma di simmetrie davvero ampie”.
Oggi è l’architetto, cioè un solo soggetto, che decide come la città deve crescere, ma prima era la comunità, come somma di singoli individui, a decidere. A questo proposito riporto, proprio su Venezia, un passo dalla relazione al concorso “Ridisegnare Venezia”, di G. Caniggia, messo gentilmente a disposizione in rete da Giancarlo Galassi:
“La chiave della vitale complessità, e della duttilità del costruito veneziano sta nel suo processo formativo: nell’edilizia autenticamente di base e non in quella progettata. Non è lecito confondere: il “progetto” che “dietro i palazzi”, e, aggiungiamo, prima dei palazzi ha conformato Venezia è un grande evento collettivo, una illimitata schiera di “vite edilizie” che nello spazio di più di un millennio si è esercitata nella costruzione della città: progetto che è lontano dal piccolo numero di unità unitariamente progettate, quanto il progetto che ha fatto Roma è lontano dall’Esquilino o dal Testaccio, che ne sono una mera proiezione inficiata da intenzionalità devianti.
Di qui il nostro modo di intendere il “progetto come processo”, che vogliamo esercitare rivolgendoci alla rilettura critica della processualità di formazione-mutazione del costruito veneziano. Accettando il paradosso evidente, consistente nell’interpretare l’atto simultaneo del “progetto” per la Giudecca come prodotto di una successione storica di un costruito mutante, servendosi della “simulazione del processo” sia nell’assetto del tessuto che nel progressivo raggiungimento del costruito. E’ ciò che intendiamo col motto “progetto come processo”: attraverso la simulazione del processo cerchiamo una garanzia di connessione con un tessuto urbano derivato da un lungo processo di mutazioni che (nella misura in cui saremo riusciti a capire criticamente la successione di fasi e i caratteri determinanti e quindi nei limiti delle nostre capacità di approfondimento della lettura di ciò che è realmente avvenuto) chiamiamo a guidare il nostro progetto”.
Koolhaas potrà dunque progettare come vuole, potrà fare tutti i gesti che desidera, la sua libertà di scelta glielo permette, ma di certo non solo non stabilirà alcuna “connessione” con ciò che esiste (e questo non lo desidera nemmeno) ma avrà determinato una crescita anomala e malata dell’organismo originario, avrà cioè prodotto una patologia.
Quindi non c’è immobilismo nella tradizione e nel rispetto dei caratteri originari dell’edificio. Non so se il Fondego sia adatto ad una attività commerciale, ma suppongo di sì - e forse è anche utile un riuso prima che l’edificio decada per abbandono – perché, citando ancora Caniggia:
“Occorre infatti ricordare sempre che l’edilizia può avere una durata indefinita, e la sua corrispondenza ad esigenze attuali non deve impedire il progressivo adattamento al mutare delle condizioni civili”.
Non sarà immobilista invece l'atteggiamento di Koolhaas e di tutti quelli come lui che hanno una sorta di coazione a ripetere gli stessi schemi, gli stessi atteggiamenti ovunque e comunque, senza un minimo di lettura ed interpretazione del corpo vivente in cui operano?
18 giugno 2012
KOOLHAAS L'IMMOBILISTA
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14 giugno 2012
GABRIELE TAGLIAVENTI SULLA RICOSTRUZIONE IN EMILIA
Il Prof. Arch.Gabriele Tagliaventi, docente alla Facoltà di Architettura di Ferrara, ha scritto un articolo che qui linko sul dov'era e com'era, riferito al terremoto in Emilia.
Gabriele è certamente più colpito e più parte in causa di altri in quanto emiliano e quindi legato ai luoghi e alla sua gente.
Sullo stesso tema un mio recente post:
COM'ERA E DOV'ERA Leggi tutto...
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6 giugno 2012
UNA GENIALE INTUIZIONE SU ARCHIWTACH
Un post di Manuela Marchesi su Archiwatch che avrei voluto fare io:
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