Pietro Pagliardini
Chi non vorrebbe un’architettura “bella”?
Qualunque persona cui fosse posta la semplice domanda: “L’architettura deve essere bella o brutta?” non c’è dubbio che risponderebbe:”Bella!”. Il termine bello sembra comprendere tutto e mettere d’accordo tutti; di fronte a questo attributo cadono le differenze tra antichisti e modernisti, fra fautori della modernità e amanti della tradizione: bello è il Guggenheim di Bilbao “ma anche” il Palazzo Farnese a Roma.
Bello assume cioè un valore inclusivo, non solo in architettura, e il “ma anche” è la congiunzione che meglio esprime questo carattere di inclusione; doppia congiunzione appunto, la prima delle quali è avversativa, con il che si riconosce una diversità, la seconda è invece coordinativa, con cui si include, per meglio rafforzare il concetto che tutto può stare insieme.
Ma il problema è proprio questo: in architettura non si possono mettere insieme gli opposti (il Guggenheim con il Palazzo Farnese nell’esempio) perché si compie una falsificazione e un disconoscimento della realtà; si prendono due edifici e li si giudicano in sé, come se fossero due oggetti da collocare sopra una mensola di casa: in quest’ultima condizione è evidente che i due oggetti hanno un valore in sé perché sono pura forma astratta da un contesto e, addirittura, l’oggetto Guggenheim è forse più “bello” del Palazzo Farnese perché meglio si presta ad essere goduto esteticamente in quanto più plastico, splendente, dinamico che non l’altro, troppo composto, ordinato, dettagliato.
Perché ciò avviene? Perché l’architettura è fatta per la città e per essere vissuta dalla gente e la sua scala è la scala umana, quella cioè che si rapporta con le dimensioni del corpo umano; l’architettura si rapporta con la strada, con gli edifici accanto o con il paesaggio e con l’uomo che la vive, l’attraversa e vi si confronta prendendone le misure in relazione alle proprie; l’oggetto, invece, non ha alcuna relazione con il contesto ma solo con la percezione visiva di chi la guarda; per questo, più uniforme e anonimo è lo sfondo più grande è il godimento estetico perché siamo nel campo della sola percezione visiva e della pure forme astratte, al contrario della città in cui noi siamo immersi con tutti i nostri sensi. Il Guggenheim è oggetto di design bellissimo e una sua riproduzione in scala ridotta da porre sul mobile di casa è certamente preferibile a quella dei monumenti antichi che si trovano nelle bancarelle di souvenir o all’Italia in miniatura proprio perché l’architettura avulsa dal suo contesto è pura contraddizione. Per lo stesso motivo le foto dell'architettura contemporanea sono molto più "belle" di quelle fatte a monumenti di grandissimo valore, perchè la foto è una rappresentazione della realtà, non la realtà stessa, e le forme geometriche pure con cui si esprime quel tipo di architettura meglio si prestano ad essere esaltate, nella loro astrattezza, in quella rappresentazione che è esclusivamente bidimensionale, quindi altrettanto astratta.
Per questo la categoria del “bello” usata in architettura rischia di diventare ambigua e di non spiegare molto. Si prenda ad esempio una recente intervista rilasciata da Patrizio Bertelli al Corriere della Sera sul nuovo museo di arte moderna di Prada e sulle torri di CityLife:
«.....Trovo inutili certe polemiche, ad esempio sui nuovi grattacieli di Milano: quel che conta è la qualità del progetto, se un progetto è un bel progetto può davvero cambiare in meglio una città: pensi a quello che è successo a Bilbao con il Guggenheim di Gehry. Anche se, quando penso agli architetti che progettano musei, penso prima di tutto a Carlo Scarpa, alla sua Fondazione Querini Stampalia, alle sue stanze per l' Accademia a Venezia....».
Ora non c’è dubbio che di “bello” Bertelli se ne intenda perché su questo ha costruito l’immagine e la fortuna del suo marchio ma quella frase “se un progetto è un bel progetto” dimostra il fatto che c’è la valutazione dell’oggetto in sé stesso, senza alcuna relazione con il contesto. Che dire se lo stesso Guggenheim fosse stato edificato lungo i Fori Imperiali? Sarebbe sempre così bello quel progetto e avrebbe cambiato in meglio Roma?
Venendo alla torre di Libeskind e alle altre torri, non so se si possano definire addirittura belle in sé (la percezione visiva che ne ho io mi dice di no) ma viste nel contesto come dai vari rendering effettuati dagli studenti del Politecnico di Milano ci si rende conto che in architettura ben altre sono le categorie di giudizio da prendere a riferimento.
27 aprile 2008
L’EQUIVOCO DEL “BELLO” IN ARCHITETTURA
QUESTO MERAVIGLIOSO MONDO, di Alessandro Bertirotti
Poniamo il caso di un individuo che abiti a Londra e che si rechi a fare un viaggio in Africa. Viene invitato da persone del posto a trascorrere la serata insieme a loro, ma invece di partecipare ai consueti passatempi tipici del luogo, assiste alla proiezione di un nuovo film non ancora uscito a Londra. Questa è globalizzazione. Viviamo in un mondo in trasformazione costante che condiziona qualunque cosa noi facciamo.
Nel bene e nel male siamo in un ordine globale che nessuno comprende del tutto, ma che sta estendendo i propri effetti su tutti noi. La globalizzazione è oggetto di dibattito in Francia, con il termine mondalisation, in Spagna e in America Latina con quello di globalizacìon, mentre i tedeschi la chiamano globalisierung.
Globalizzazione si dice abbia a che fare con il fatto che viviamo in un mondo unico. Ma in che modo? E poi fino a che punto tutto ciò è valido?
Vi sono allora gli scettici che mettono in discussione l’idea nel suo insieme. Tutto il discorso sulla globalizzazione si riduce a chiacchiere, perché, quali che ne siano i benefici, vicissitudini e difficoltà, l’economia globale non è diversa da quella di altri periodi. Il mondo continua ad andare avanti come fa da tanto tempo. Vi sono poi i radicali che sostengono una posizione diversa. Essi dichiarano che la globalizzazione è qualcosa di molto concreto e che i suoi effetti sono ormai tangibili ovunque. Si prenda ad esempio lo sviluppo del mercato, indifferente ai confini delle Nazioni, oramai senza la sovranità che avevano un tempo. Io credo di essere più dalla parte dei radicali, anche se gli effetti non sono solo positivi, ma, purtroppo, anche negativi.
La Globalizzazione è dunque un sistema complesso, un insieme di processi che opera in maniera contraddittoria e a volte anche conflittuale.
Vediamone qualche aspetto.
Il passaggio dalla società pre-industriale a quella industriale riguarda il mondo totale, proprio per gli effetti della globalizzazione. Con la società industriale si estende fortemente l’obbligo scolastico, unitamente alla omogeneizzazione degli stili di vita, proprio per l’avvento di individui apparentemente simili, meglio raggiungibili dai media. Non si distinguono più i ricchi dai poveri come in passato, e la famiglia diven-ta nucleare.
Nella società post-industriale scienza e tecnologia diventano fonte di ricchezza, dunque di produzione. Questa situazione ci permette di avvertire, anche quotidianamente e nelle nostre case, la dilatazione delle attività economiche, politiche e sociali oltre i confini di ciascun paese. L’intero mondo è più collegato e si incrementa l’interdipendenza delle economie. Oggi tutto avviene a scena aperta, senza passare da una situazione definita ad un'altra da definire, perché le tecnologie permettono un aumento di contemporaneità di fenomeni. I paesi in via di sviluppo non sono il nostro ieri, ma sono i paesi in via di sviluppo oggi, proprio perché sono interconnessi e contaminati dalla tecnologia. Lo scenario globale è una crescente integrazione mondiale. Non si tratta solo di scambi meramente economici, ma anche di informazioni, simboli, immagini e modelli di comportamento. I mercati sono network mondiali, dove venditori e compratori si incontrano ovunque, ed è per questo senza vincoli né orari: la contiguità del tempo è più importante di quella spaziale, ed ognuno può connettersi anche di notte perché l’altro risponde attraverso la connessio-ne in tempo reale.
Viviamo dunque in un mondo dove tutti sono uguali? Si direbbe di sì, perché si pensa che la globalizzazione riduca le differenze tra paesi, mentre queste tendono ad accentuarsi Jean-Françoise Lyotard, filosofo francese nato nel 1924 e morto nel 1998, descrive il mondo post-moderno come il luogo in cui sono finite le grandi narrazioni, come il marxismo, il cristianesimo che esprimono riferimenti identitari forti. Ulrich Beck, sociologo tedesco nato nel 1944, definisce questo mondo come la società del rischio e dell’incertezza, mentre Alain Touraine, sociologo francese nato 1925, introduce il concetto di turbolenza, secondo cui si vive in un’epoca nella quale l’unica costante è il mutamento, talmente evidente che non possiamo più immaginare di vivere un una società senza cambiamento. Fino a qualche tempo fa i grandi rinnovamenti erano ancora riconoscibili. Si prenda ad esempio l’epoca dell’acquisto dei primi elettrodomestici, la fase delle automobili, poi quella dei televisori, etc. Oggi tutto è talmente veloce che si perde la concezione del tempo. Non assistiamo più a mutamenti radicali come l’acquisto del primo cellulare, oppure del computer, ma viviamo una fase assolutamente dilatata che ingloba la turbolenza. Ne deriva che anche i fatti sociali sono oggi meno intelligibili, proprio perché non si è più in grado di ricondurre ad un unico modello i fatti e quindi interpretarli. Max Weber, sociologo tedesco nato nel 1864 e morto nel 1920, definisce l’età moderna come l’età della razionalizzazione, direttamente proporzionale alla specializzazione della tecnica, e dunque della sperimentazione.
Se tutto è riducibile a scienza, la sperimentazione sconfessa la sacralità delle scelte più importanti, quelle appunto secondo le quali il futuro è sempre una costruzione elettiva delle proprie responsabilità. Siamo di fronte al disincanto del mondo, ossia di fronte alla separazione tra sacro e profano, tra mistero e razionalità, e tutto ciò che conduce l’uomo a stabilire un patto con il proprio Dio diventa solo un fatto privato e non più un riferimento culturale. Questo nostro mondo spiega i fatti con strumenti razionali e quindi da un lato abbiamo il disincanto, la religione personale, e dall’altro la razionalizzazione.
In questa situazione, dove il sacro è in crisi, quale etica il singolo individuo può adottare? Secondo Weber, economista e sociologo tedesco, nato nel 1864 e morto nel 1920, l’unica etica che possiamo assumere come guida è quella della responsabilità: l’individuo deve agire sulla base delle conseguenze delle proprie azioni. Avere un’etica significa dunque scegliere secondo l’analisi delle conseguenze delle proprie scelte.
Secondo Ludwig Wittgenstein, filosofo austriaco nato nel 1889 e morto nel 1951, invece, oggi l’unica etica che possiamo percorrere è quella del labirinto, secondo cui si individuano tre immagini: a), la mosca nella bottiglia; b), il pesce nella rete; c), l’uomo nel labirinto.
La mosca intrappolata nella bottiglia non può che agitarsi e non può che sperare di trovare un foro di uscita, supponendo che la bottiglia sia aperta. Il comportamento della mosca è senza un disegno certo, perché si affida alla fortuna e al caso. Questa è la situazione di chi non ha una risposta e si lascia trasportare dal destino. Il pesce nella rete più si agita, più rimane impigliato e non può neanche contare, come la mosca, sulla fortuna, perché deve calmarsi per limitare il dolore. E’ l’immagine di una società che al destino reagisce con rassegnazione, non producendo un comportamento attivo. L’uomo nel labirinto ha fondate speranze di trovare una via d’uscita, non pensa al destino già segnato, ma procede passo a passo, verificando razionalmente se la strada imboccata è quella giusta. Inoltre egli è disponibile a cambiare via, quando si dovesse accorgere di aver sbagliato.
E’ l’immagine della società che procede per tentativi, controllando razionalmente se questi siano giusti ed in sintonia con l’idea del labirinto, nel quale esistono diverse strade da prendere, con una via d’uscita che comporta una continua analisi dell’esattezza delle proprie decisioni. La sensazione che se ne ricava è quella di vivere una modernità nella quale si perdono i confini conosciuti delle proprie identità e delle proprie azioni, perché siamo effettivamente passati da una condizione rigida ad una società in cui i riferimenti si dissolvono rapidamente. Se nella società tradizionale ciò che eravamo era dato a priori, oggi ciò che dobbiamo essere è diventato un compito incerto, poiché ogni individuo si assume il rischio di una scelta sbagliata.
L’immagine che meglio evidenzia questo stato di cose è quella del puzzle. Ogni individuo deve comporre tanti pezzi di se stesso per completare un disegno, e la vita è l’insieme di essi. La differenza è che il nostro puzzle all’interno della scatola non ha un’immagine chiara e definita, perché sia i fini che i mezzi sono oggetto di incertezza. Nella società tradizionale i pezzi e gli incastri sono garantiti a priori, mentre in questa post-industriale globalizzata devono tutti essere ricostruiti. Karl Raimund Popper, nato nel 1902 e morto nel 1994, definisce questo atteggiamento epistemologia evoluzionistica, grazie alla quale si è costretti a risolvere vari problemi per formulare, attraverso l’eliminazione di errori, sempre nuove teorie da sottoporre a controllo costante.
Beck definisce la globalizzazione come la società del rischio. Di fronte ai pericoli naturali della società tradizionale (uragani, siccità, carestie, terremoti), oggi si verificano quasi interamente quelli prodotti dall’uomo, come il terrorismo, l’inquinamento, la fame nel mondo, la povertà.
Ed oggi, inoltre, nessuno di noi è fuori pericolo.
La globalizzazione cambia la società e continuamente. Essa porta sicuri effetti positivi, segnati dal progresso tecnologico, informatico, telematico, etc., anche se questi ultimi implicano uno spostamento della natura dei rischi, che da non più naturali passano ad essere quasi totalmente culturali, conducendoci nel regno dell’ incertezza. In questa turbolenza l’individuo si sente da un lato più libero (perché sono diminuiti i vincoli culturali con la tradizione), più responsabile e autonomo nelle proprie scelte, anche se dall’altro lato la mancanza di riferimenti identitari certi e di legami sociali lo porta in una condizione di smarrimento e solitudine.
Per questo si avverte l’esigenza di solidarietà e di sviluppare il maggior numero di relazioni sociali. Tutto ciò è riscontrabile nella vita quotidiana e nei nostri comportamenti. I ristoranti, i cinema ed i centri commerciali sono luoghi, spazi dove creare relazioni sociali. Si sente il desiderio di comunità e di interagire con l’altro anche attraverso la connessione telematica. Si pensi al rapido sviluppo delle comunità virtuali delle globosfere oppure delle chat.
La globalizzazione è molto complessa, ma ciò che rimane semplice è il cuore umano, sempre assetato di un affetto fisiologico e vitale, che stiamo sempre più negando, a noi e quindi anche agli altri.
Alessandro Bertirotti
Bibliografia
Bertirotti A., Larosa A., 2005, Umanità abissale. Elementi di antropologia secondo una prospettiva bioevolutiva e globocentrica, Bonanno Editore, Acireale-Roma.
Bhagwati J., 2004, In Defense of Globalisation, Oxford University Press, Oxford, trad. it., 2005, Elogio della globalizzazione, Laterza Editore, Roma-Bari.
Annunziato P., Calabrò A., Caracciolo L., 2001, Lo sguardo dell’altro. Per una governance della globalizzazione, Il Mulino Editore, Bologna.
Giddens A., 1999, Runaway World. How Globalization is Reshaping our Lives, Profile Books, London, trad. it. 2000, Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Il Mulino Editore, Bologna.
Williams B., 2006, Comprendere l’umanità, Il Mulino Editore, Bologna.
Foot P., 2001, Natural Goodness, Clarendon Press, Oxford, trad. it. 2007, La natura del bene, Il Mulino Editore, Bologna.
Pandolfi A., 2006, Natura umana, Il Mulino Editore, Bologna.
Beck U., 2001, La società globale del rischio, Asterios Editore, Trieste.
Bauman Z., 2002, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, Il Mulino Editore, Bologna.
24 aprile 2008
ILLUMINAZIONE!
di Giulio Rupi
Riflettendo sulla famosa frase di Le Corbusier: "DAL CUCCHIAIO ALLA CITTA'" ho finalmente capito, alla luce degli odierni risultati, che il Nostro non voleva dire che l'Architetto deve saper progettare bene a tutte le scale dal cucchiaio all'edificio alla città.
No. Il Nostro voleva dire che, disegnato un bel cucchiaio (o una bella teiera o che altro) si devono fare edifici a forma di quel cucchiaio, ma cento volte più grandi, e piani urbanistici a forma di quel cucchiaio, ma diecimila volte più grandi!
22 aprile 2008
UN BEL PENSIERO SUL RUOLO DELL'ARCHITETTO
TRATTO DA "IL GIORNALE" del 14-12-2007
DOMANDA DEL GIORNALISTA:
Qual è dunque il ruolo dell’architetto e quale quello dello spazio pubblico?
RISPOSTA:
Attilio Petruccioli, preside della Facoltà di Architettura del Politecnico di Bari, tenta una risposta: «Recuperare continuamente la memoria. È il contesto che genera il progetto, l’architetto non deve sentirsi un padre o un inventore, impegnato in gare di originalità e virtuosismo narcisistico, ma soltanto una levatrice».
20 aprile 2008
L'ARCHITETTURA E LA GENTE
di Giulio Rupi
Da più di un secolo abbiamo domandato alle Archistar perché si dovevano costruire per la gente edifici e tessuti urbani che non piacevano alla gente, che se fossero stati sottoposti a referendum preventivo mai avrebbero ottenuto l’approvazione delle moltitudini, edifici e periferie che, una volta abitati, hanno ottenuto la repulsa dei loro fruitori, testimoniata da abbandono, degrado e addirittura da rivolte violente.
Da più di un secolo ci hanno dato la solita risposta: “Anche la musica dodecafonica, anche l’arte astratta di Pollock, anche il cubismo di Picasso al loro apparire hanno raccolto il disorientamento del pubblico. L’Ar(chitetto)tista non deve curarsi della reazione del pubblico perché non è dal pubblico che deve essere giudicato”.
Da più di un secolo abbiamo inutilmente risposto così.
Prima parte della risposta:
“Chi vuole può acquistare un quadro di Picasso o di Pollock e attaccarselo alla parete del soggiorno. Chi vuole può comprarsi un disco di Luigi Nono e ascoltarselo in casa sua, ma se costruisco un pezzo di città, se costruisco degli edifici, i cittadini ne devono usufruire per forza, non per libera scelta.”
Seconda parte della risposta:
“Picasso dipingeva donne asimmetriche, ma poi andava a letto con donne simmetriche (e esteticamente apprezzabili dalla stragrande parte dei cittadini anche incolti).” “Ovvio, si controafferma, una cosa è la fruizione dell’opera d’arte, guidata dall’intelletto, una cosa è il rapporto carnale tra maschio e femmina, guidato dall’istinto!” E noi: “Il rapporto tra l’uomo e il suo ambiente, tra l’uomo e la sua città, è diverso da quello intellettuale della fruizione di un’opera d’Arte! Quel rapporto ha una forte componente istintiva, carnale, antropologica! Per questo le masse dei turisti, sia quelli colti sia quelli incolti, sono ugualmente attratte e affascinate dai medesimi monumenti, nelle città storiche di tutto il mondo!”
Conclusione del ragionamento:
E dunque l’Architettura e l’Urbanistica sono attività umane che, per il loro impatto “carnale”, “istintivo” su tutti noi, hanno una valenza sociale talmente forte, da dover essere forzatamente sottoposte al giudizio di “gradevolezza” della gente comune!”
18 aprile 2008
13 Principi per il Buon Progetto Urbano
Della Princep’s Foundation
Luogo:
Il progetto che rispetta il carattere complesso del luogo e tiene in considerazione la sua storia, la sua geologia, le relazioni dei trasporti e il suo paesaggio naturale
Spazio pubblico:
Un riconoscimento che il progetto delle aree pubbliche, compresi l’arredo urbano, la segnaletica e l’illuminazione, è importante tanto quanto il progetto degli spazi privati, e dovrà essere progettato come parte di un insieme armonioso
Permeabilità:
Il disegno urbano in cui gli isolati di edifici sono pienamente permeati da una maglia di strade interconnessa
Gerarchia:
Una chiaro e leggibile sistema di classificazione che riconosce una gerarchia tra i tipi di edifici o di strade e le loro singole parti in relazione con l’insieme
Longevità:
Il progetto che crea strade ed edifici che faranno fronte ad una varietà di utilizzazioni durante l’arco della loro vita
Valore:
Il disegno che crea un utile valutabile in termini economici, sociali e ambientali
Scala:
Città ed edifici che, a qualsiasi scala, sono in relazione con le proporzioni dell’uomo
Armonia:
Il progetto che suona la sua personale “nota” e malgrado ciò si armonizza con l’ambiente locale e naturale
Recinto:
Il progetto che stabilisce una chiara distinzione tra la città e la campagna, tra lo spazio pubblico e privato, incoraggiando in tal modo attività appropriate all’interno di ciascuna
Materiali:
Il progetto che usa materiali che siano, dovunque possibile, autoctoni, che siano in naturale armonia con il paesaggio, e che siano selezionati con attenzione per garantire che essi migliorino il loro aspetto con il tempo e con il degrado dovuto alle condizioni atmosferiche
Decorazione:
Il progetto la cui decorazione non solo innalzi la qualità e la bellezza di un edificio ma aiuti a generare valori emozionali e personali, e relazioni culturali
Fattura artigianale:
La cura e l’attenzione con cui è costruito un edificio premia sia l’autore che l’utilizzatore e ne rende probabile la conservazione e il valore per le future generazioni
Comunità:
Il coinvolgimento delle comunità locali, fin dall’inizio accuratamente favorito, allo scopo di creare luoghi che ne ricavino un’influenza positiva, che venga incontro alle necessità, ai desideri e alle aspirazioni della gente, e produca orgoglio civico.
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Brevi considerazioni
Non si può non apprezzare di questi principi la filosofia che li sottende:
• uno spirito di grande attenzione e aderenza alla realtà dei luoghi e dei cittadini; il progetto nasce come servizio alla comunità e in quanto tale deve rispondere a tutta una serie di requisiti che questa ritiene prioritari; luoghi e comunità civile sono i due capisaldi del progetto;
• il porsi nei confronti del progetto con un atteggiamento di umiltà e modestia, consapevoli che ogni edificio è un segno che rimane nell’ambiente e che influenza i comportamenti e la vita degli individui e della comunità;
• il progettista diventa perciò colui che propone, razionalizza, analizza la realtà, naturale e artificiale, e i bisogni e i desideri degli individui singoli e della comunità nel suo complesso, esprimendosi poi con le sue conoscenze nella redazione del progetto;
• queste regole danno sostanza all’affermazione del valore civico dell’architettura perché gli edifici appartengono alla comunità perché tutti i cittadini ne usufruiscono, volenti o nolenti, e dunque tutti hanno il diritto di esprimersi su di essi.
Questi principi sono l’esatto opposto della fantomatica “cultura del progetto” di cui si parla nelle riviste dell’editoria di regime (mediatico) che non ha sostanza culturale ma serve solo a giustificare forme astratte avulse dall’ambiente naturale e urbano, oggetti di puro design, in cui ciò che conta è lo smisurato e paradossale egocentrismo dell’architetto che pretende di essere il portatore di verità, figura messianica estranea perciò ad ogni giudizio che non sia quello adulatorio e osannante della critica ufficiale.
Giova inoltre osservare che da questi principi non discende automaticamente uno stile, un canone architettonico univoco; sono appunto principi generali, criteri minimi, ma essenziali, di impostazione dell’approccio al progetto che può sostanziarsi in forme diverse.
Tuttavia è assolutamente evidente che il decostruttivismo architettonico per certo non risponde a nessuno dei 13 principi, anzi è ad essi antitetico per scelta e per definizione.
Pietro Pagliardini
13 aprile 2008
I CITTADINI E LA POLITICA SCELGANO, NON GLI ARCHITETTI
Vittorio Sgarbi ha proposto che siano i cittadini di Milano a decidere se realizzare o meno le tre torri di CityLife, di cui una “storta”, attraverso un referendum. Aldilà delle pur legittime scaramucce fra forze politiche diverse, l’argomento è di grande interesse perché investe un principio fondamentale della democrazia: chi ha il potere di decidere le scelte importanti che riguardano la forma, il disegno, la vivibilità di una città.
L’architetto Libeskind, progettista della torre storta, non ha dubbi in proposito: è l’architetto che deve decidere e scegliere ciò che è bene e ciò che è male, perché è l’architetto che ha il potere, la conoscenza, la verità e si scaglia, in maniera non troppo urbana contro i suoi critici, in particolare contro Berlusconi, accusandolo di essere, oltre che fascista, talmente ignorante da non capire che il suo progetto è imparentato nientepopòdimenoche con Leonardo da Vinci.
Ora, ammesso e non concesso che questo sia vero (e ragionando per assurdo lo voglio ammettere per un istante) nulla dice l’architetto in cosa consista tale parentela, nulla spiega, neanche per accenno, se sia, che so, la forma flessa e sinuosa a richiamare le morbide linee pittoriche del maestro oppure l’analogia tra la asimmetria dell’edificio e il lieve strabismo della Monnalisa oppure una qualche affinità tra la concezione della modernità del suo grattacielo con i disegni di Leonardo per Milano in cui vi si può leggere la modernità della separazione dei percorsi. Fine del ragionamento per assurdo, si torna alla realtà.
In realtà quello che è più significativo non è il contenuto dell’analogia in se, ma la sproporzione tra l’affermazione fatta e l’intenzionalità della mancanza di spiegazione, per il semplice fatto che l’esperto non deve spiegare nulla, non ne ha bisogno in quanto l’essere esperto comprende in sé stesso il fatto di avere risposte ad ogni dubbio e i non esperti, cioè tutti gli altri, devono, oltre che possono, fidarsi ciecamente; d’altronde, se così non fosse, che razza di esperto sarebbe? Se non ci fosse l’esperto, allora sì sarebbe ragionevole, secondo questa logica, avere una discussione in cui si esprimono opinioni diverse e contrastanti ma se l’esperto c’è non c’è neanche il motivo logico per discutere. L’esperto racchiude in sé ogni risposta, è la sintesi assoluta, non serve né tesi né antitesi. Affermazioni come queste hanno lo scopo di lasciare l’interlocutore privo di argomentazioni e di confutazioni, perché non c’è proprio alcuna risposta coerente, l’importante è sconcertare, spiazzare, mettere l’altro in condizione di inferiorità: tutto, fuorché spiegare.
Di un processo decisionale come questo, l’episodio di Milano è solo un esempio come tanti altri, che mi interessa come architetto e che ha avuto in questi giorni vasta risonanza nella stampa, ma è solo uno dei sintomi della tirannia degli esperti che, come dice Ernesto Galli della Loggia sul Foglio, “è un sostituto delle ideologie ….che prende piede perché offre qualcosa che in fondo piace a tutti gli esseri umani: li deresponsabilizza”. E’ vero che questo ragionamento era riferito agli esperti che si occupano di scienza medica, alla tecno-scienza che vuole decidere della nostra vita, che ci vuole per forza belli e forti e sani ed eterni ma, a parte la differente scala di valori tra una possibile eugenetica e l’architettura, il ragionamento che sottintende alla logica dell’esperto è lo stesso.
Chi deve decidere le scelte fondamentali della città, chi ne ha titolo? Ma la domanda vera è la seguente: a chi appartiene la città, con le sue strade, le sue piazze, le sue case, le sue fabbriche, i suoi edifici pubblici, se non a tutti coloro che la vivono, la abitano, vi svolgono la loro attività e la loro esistenza? La città è l’ambiente dell’uomo, creato, inventato, sviluppato dall’uomo stesso, in un rapporto continuo con la natura e la geografia dei luoghi, talvolta dominandola, talvolta assecondandola. Non sono stati gli esperti a decidere, essi hanno solo aiutato, hanno fornito il loro talento e gli strumenti tecnici, ma è stata la società nel suo complesso a scegliere, in un equilibrio certamente difficile in cui ora il potere dominante ha sopraffatto le scelte individuali, ora la spontaneità proveniente dal basso ha vinto. Certamente mai un architetto ha deciso da solo, neanche nelle città ideali del Rinascimento dove niente egli avrebbe potuto senza la volontà del committente-ispiratore, papa o principe che fosse; e anche in questo caso l’architetto non ha progettato fuori della storia e della tradizione, semmai ne ha idealizzate forme e principi facendone un modello ideale appunto ma sempre sulla scorta dell’esperienza del passato e del presente.
Una società in cui le scelte siano totalmente delegate agli esperti è deresponsabilizzata e intrinsecamente totalitaria e anti-democratica, è la repubblica di Platone governata dai filosofi, l’esatto opposto della democrazia.
Se è vero che nel nostro paese esiste un problema di troppi livelli decisionali che nella stragrande maggioranza dei casi rallentano o addirittura impediscono la realizzazione di opere di qualsiasi tipo, è anche vero che non si può scavalcare il sistema affidandosi ciecamente ad un architetto creativo, rendere tutto possibile in nome di un brand, di una griffe.
La soluzione è dunque quella di affidare al giudizio popolare le scelte più importanti per la città, vuoi attraverso il referendum, nel caso di progetti contestati, vuoi attraverso un voto, eventualmente non vincolante, per i concorsi d’architettura, dove ormai la scelta sfugge di mano non solo ai cittadini ma anche agli amministratori che hanno ottenuto il voto proprio per decidere.
Se gli architetti sono sicuri del fatto loro non avranno difficoltà a farsi giudicare da coloro che saranno i veri padroni delle loro opere; e se si vuole alleggerire la lunga teoria di pareri, permessi, nulla-osta rilasciati dagli innumerevoli organismi che la illimitata creatività burocratica degli italiani ha inventato per decidere la realizzazione di un’opera, non manca certo il materiale dove intervenire per sottrazione, essendovene molti di inutili, e introducendone uno che invece è essenziale e decisivo: il parere dei cittadini.
Ricordo a quanti non lo sapessero che a Groningen, in Olanda, un nostro connazionale, l'architetto Adolfo Natalini ha potuto realizzare un’opera molto bella, molto moderna e rispettosa della tradizione a seguito di una votazione popolare. (Groningen ha continuato con questo metodo)Vogliamo forse accusare l’Olanda che ha creato la propria terra sottraendola al mare di essere un paese incapace di decidere?
P.S. Leggo ora sul Corriere che un politico milanese, Bobo Craxi, sui grattacieli ha detto: "decidano gli esperti" (che poi vuol dire si facciano i grattacieli ma nascondendosi dietro ad altri). Ironicamente direi che non ha letto questo post, realmente penso che buona parte della classe politica ha paura della responsabilità di scegliere. Perfetto tempismo per dimostrare le ragioni di Galli della Loggia.
Pietro Pagliardini
7 aprile 2008
REINVENTARE OGNI VOLTA LA RUOTA?
"Ogni giovane architetto dovrebbe essere RADICALE PER NATURA, proprio perchè non è assolutamente sufficiente per lui cominciare da dove gli altri hanno finito."(F.L.Wright)
Questa frase di un grande architetto la possiamo prendere a simbolo della situazione dell'architettura contemporanea, senza per questo volere attribuirne a Wright la responsabilità.
Facciamo una prova e applichiamo questa frase alla medicina:
"Ogni giovane medico dovrebbe essere RADICALE PER NATURA, proprio perchè non è assolutamente sufficiente per lui cominciare dove gli altri hanno finito."
Scegliereste come vostro medico un allievo di un simile professore?
In questa frase, che esercita indubbiamente un certo fascino, perchè è intrigante, immaginifica, sognante e dà un'illusione di potenza al giovane studente di architettura, c'è la spiegazione del disastro attuale delle scuole di architettura, come dice Nikos Salingaros nel suo scritto sul Domenicale del 7 Aprile 2008:
“Le discipline scientifiche sviluppano…. linguaggi adatti a questo scopo di lungo termine, permettendo di trascrivere e di salvare le conoscenze scoperte, per le generazioni successive. Il sapere stesso si basa sulla disponibilità di un efficiente meccanismo d’immagazzinamento delle informazioni.” E continua: “Questo processo di documentazione è allora quello che consente agli scienziati di costruire sulle scoperte precedenti. È un sistema che mette al riparo dalla necessità di “riscoprire la ruota” ogni qualvolta si debba eseguire un’applicazione di base………Per contro, invece, l’architettura deve ancora sviluppare un efficace sistema di riordino delle informazioni ereditate. In realtà, ciò che è successo in architettura è impensabile per le scienze: a un certo momento degli anni Venti del secolo scorso, un gruppo d’ideologi alla ricerca d’innovazione progettuale ha arbitrariamente scartato la base informativa dell’architettura”.
E’ dunque il metodo che è profondamente sbagliato, perché anti-scientifico e anti-moderno, rinuncia alla conoscenza accumulata da altri, rinnega la tradizione millenaria dell’architettura e pretende di dare, ad ogni architetto, la possibilità, direi quasi l’obbligo per non sentirsi inferiore, di diventare esso stesso il fondatore di uno stile personale, il creatore assoluto di nuove forme, dopo aver fatto tabula rasa di tutto il passato. E' la concezione dell'architetto come artista, peraltro deformata perchè anche lo scultore o il pittore fa tesoro del talento di chi lo ha preceduto.
Qui non si tratta di praticare la virtù della modestia, pure necessaria quando si costruiscono edifici destinati a durare nel tempo e non allestimenti provvisori da show-room, ma di ritrovare un metodo che riparta dal bagaglio di conoscenze di chi ci ha preceduto e che ci ha lasciato in eredità città certamente migliori di quelle che lascia il secolo scorso e di quello che promettono di lasciare questi primi anni del 3° millennio. Se ancora in ogni convegno siamo a parlare di risolvere i problemi delle periferie, create da noi, se ancora si va cercando la qualità e il bello nell’architettura contro il brutto attuale, vuol dire che il decantato metodo “ogni architetto la sua architettura” è un vero fallimento. La falsa sicurezza non la da, come si legge di continuo in giornali e riviste specializzate, il ritorno al passato, ma l’insistere su un presente che non ha futuro perché ha scelto di negare completamente il passato.
Pietro Pagliardini
6 aprile 2008
POLPETTONE AL CUMINO
Pietro Pagliardini
Questo articolo scritto per il periodico dell'Ordine è del 2002 e vi sono alcune previsioni sulla Cina ormai largamente superate dai fatti. Almeno su questo avevo visto giusto.
Vado al ristorante tipico aretino e ordino il polpettone. Mi propongono un piatto con due fettine sottili coperte da una salsa color senape. Mi predispongo, con curiosità, ad una versione più tradizionale del polpettone di mia mamma. Assaggio e un intenso sapore di spezie mi aggredisce il palato. Domando al cameriere: è cumino, una pianta particolarmente aromatica, molto più adatta a cibi nord africani che aretini. La chiamano fusion cioè mescolanza di sapori di diverse cucine.
E’ un esempio di globalizzazione culinaria? Baricco avrebbe risposto: forse sì, forse no. Io, più grossolanamente rispondo sì, lo è.
Si tendono a confondere sapori, gusti, abitudini consolidate con alimenti uguali in ogni parte del mondo. Oggi, ad esempio, è molto trendy il sushi: senza sushi sei out (globalizzazione della lingua).
D’altronde la Coca Cola è apprezzata da un secolo e non è certo di origine toscana, dunque vada per il sushi.
Ma cosa c’entra la cucina con l’architettura?
Poco, in verità, se non fosse che entrambe sono forme, diverse, di manifestazione della cultura di un popolo. E allora potremmo azzardare a dire che il corrispondente del sushi in architettura è il palazzo di acciaio e vetro: c’è a Tokyo? lo voglio anch’io. Con una non piccola differenza: il sushi viene “digerito” in poche ore, lo smaltimento del palazzo, per quanto mal costruito, è comunque più tardivo.
E’ difficile per un architetto non esperto di economia parlare di globalizzazione, perché è chiaro che di fenomeno economico, prima di tutto, si tratta. E’ l’economia che cambia realmente la vita degli uomini, che rende il pianeta un enorme mercato senza frontiere, che ci permette di comprare capi griffati o prodotti di uso comune con marchio italiano ma tutti rigorosamente Made in China. In una qualsiasi città europea si progetta un oggetto, da una qualche banca americana arrivano i soldi, in Cina si produce, nel mondo intero si vende.
Vi è chi in questo metodo vede, con qualche ragione, un pericolo, una minaccia alla democrazia, una perdita del controllo politico dei processi decisionali; vi è chi, viceversa, crede che dopo lo sfruttamento della mano d’opera a basso costo, i cinesi impareranno a fare da soli, troveranno i capitali, produrranno e venderanno nel mondo, miglioreranno il loro tenore di vita, diventeranno produttori e consumatori. Personalmente propendo per la seconda visione ma conta niente ciò che io penso, perché la globalizzazione è un fenomeno che difficilmente può essere fermato, non dico da me, ma da uno stato intero o da più stati. E’ un processo inarrestabile per ora: speriamo che abbiano ragione quelli che la pensano come me e che sia una buona cosa per l’umanità.
Ciò che invece non è certamente una buona cosa, ma che può, questa sì, essere parzialmente dominata, è la sua ricaduta culturale.
La circolazione delle idee, anche di quelle no-global, è il grandissimo merito della globalizzazione ma più le idee circolano e più c’è il rischio che si confondano (la fusion, appunto). Quello che dovrebbe essere scambio tra culture diverse, a causa dell’enorme velocità del processo tende a semplificarsi e a diventare cultura unica.
E in architettura? Alcuni esempi di globalizzazione:
1) le opere dei vari architetti dello star-system che, ovunque, ripropongono il loro cliché, il loro marchio, con l’unico scopo di promuovere sé stessi infischiandosene della unicità dei luoghi a loro affidati (Botta, ad es., riempie mezza Europa di cilindri);
2) le opere di tutti noi quando ci “ispiriamo” alle stars;
3) il movimento moderno che ha imposto uno stile uguale in ogni dove (international style, non a caso), senza rispetto per la diversità dei luoghi, dei popoli che li abitano, delle comunità locali
4) i grandi interventi immobiliari uguali a Londra come a NY o a Hong Kong.
Pochi “stili” sono stati così globalizzanti come quelli del XX secolo. Si prenda ad esempio il Duomo di Arezzo: gotico, sì, ma asciutto, scarno, rigoroso, puro creatore di spazio quasi privo di ornamento, maschio, povero forse, essenziale come il carattere degli aretini. Lo si confronti con il Duomo di Milano: anch’esso è gotico, splendido, ma quale somiglianza se non negli archi, nei pilastri a fascio, nella verticalità, nella concezione dello spazio? Sarebbe concepibile un Duomo di Milano, in piccolo, ad Arezzo? Impossibile, non c’era l’architetto star che lasciava il marchio; ogni comunità adattava lo stile al proprio carattere.
L’unica difesa possibile dalla globalizzazione, dalla omologazione, dalla fusion sta nel valorizzare la cultura dei luoghi e nella tradizione.
In questo ognuno di noi ha la sua responsabilità e può contribuire a cambiare un po’ le cose, anche perché ai nostri clienti piace molto di più la casa legata alla tradizione piuttosto che la villa americana acciaio e vetro e, dato che lavoriamo per loro, non vedo perché non accontentarli.
Non vi alcunché di provinciale in questa scelta anzi è vero il contrario: quanto è irritante l’atteggiamento di qualche collega che, di ritorno da un viaggio all’estero, vorrebbe trasferire, sic et simpliciter, ciò che ha visto nel nostro territorio!
Nessun rifiuto della modernità in sé stessa ma delle forme attraverso cui la modernità si manifesta in altri paesi sì, eccome!
Nessun rifiuto dell’innesto di architetti “di fuori” nella nostra realtà ma a condizione che non ci venga propinato un prodotto preconfezionato altrove.
Riassumendo tutto in uno slogan direi:
sì alla globalizzazione dell’economia, no alla omologazione delle idee.
1 aprile 2008
MILANO EXPO 2015
Ma, polemica a parte, credo si impongano alcune riflessioni.
Il tema dell’Expo ho sentito essere “l’alimentazione”. Non è che ne sappia molto di più di quanto detto dai telegiornali, cioè poco, ma immagino che si tratti anche di veicolare nel mondo la qualità dei nostri prodotti e della nostra cucina. E’ fuori discussione che questo sia un settore economico importante che ha anche il pregio, contrariamente ad altri, di riuscire a valorizzare realtà produttive piccole e medie. Ma il successo dell’alimentazione italiana è intimamente legato al territorio di provenienza, ai luoghi dai cui essa ha origine. I nomi stessi dei prodotti portano in sé la toponomastica dei luoghi: lardo di Colonnata, prosciutto di Parma, pecorino romano, grana padano, ecc. ecc. spesso basta il nome del luogo o un aggettivo per individuare il prodotto: il parmigiano o il reggiano, il San Daniele, la fiorentina, il Chianti, ecc.
Tutti questi prodotti affondano le loro radici nei più disparati territori italiani, costituiscono parte integrante della cultura di quei luoghi, sono i frutti di lavoro umano maturato nel tempo, anche se reinterpretati alla luce delle moderne tecniche di lavorazione. Vengono presentati, quasi sempre, in confezioni che hanno un sapore antico e di fatto mano, per distinguerli nettamente dai normali prodotti industriali delle multinazionali dell’alimentazione.
Il mondo della cultura ufficiale esalta le differenze alimentari tra una località e l’altra, talvolta in maniera bucolica, quasi con un senso di rimpianto per il bel mondo che non c’è più; la cultura del cibo viene talora sventolata come bandiera della resistenza alla globalizzazione. Ad essa si associa anche una sorta di filosofia di vita, lo slow food, vicina al mondo ambientale che, giustamente, rivendica la ricchezza della diversità.
Del tutto opposto l’atteggiamento nei confronti dell’architettura la cui bandiera è invece l’omogeneizzazione completa, l’assenza di diversità, la mancanza assoluta di declinazione in chiave locale di elementi architettonici generali. Tanto si apprezzano i piaceri del palato con gusti diversi, nel campo del cibo, quanto si apprezza un tipo di architettura tutta uguale a sé stessa in ogni parte del mondo, a Dubai come a Londra e a Milano.
Eccoci tornati a Milano, appunto: già stamani alla radio l’onnipresente Fuksas ha pontificato sulle mirabolanti architetture che si andranno a costruire in occasione dell’Expo. Ha decantato il quartiere Santa Giulia, il grattacielo di almeno 200 metri, la fiera di Rho, un tocco di ambientalismo con parchi e laghetti (ma l’ambientalismo non dovrebbe apprezzare la diversità?) e la linea è dunque tracciata.
Quindi è chiaro che il made in Italy si presenterà, una volta di più, avvolto in una “confezione” di stile “internazionale”. In questa logica perversa mi domando: un grattacielo di 200 metri di altezza non entra neanche nelle graduatorie delle riviste tra quelli più alti del mondo; a Pechino ne sorgono così come i funghi: possiamo competere con i paesi emergenti in questo campo? Che ci sarà di straordinario, di italiano nel quartiere Santa Giulia e nel grattacielo? Pensano lor signori che milioni di turisti vengano in Italia per vedere le nostre “architetture moderne”? Pensano che i cento milioni di cinesi ricchi che desiderano fortemente visitare il Bel Paese lo facciano per Fuksas, Piano, eccetera? Pensano che a Roma andrebbero a visitare l’Ara Pacis per il contenitore e non per il contenuto?
Ma ormai il destino è segnato, è tutto scritto: l’Italia rinuncia al suo petrolio che è la ricchezza dei luoghi, naturali e artificiali, in nome di una modernità ideologicamente intesa.
A proposito di contraddizioni: perché tutti questi signori che guardano avanti diventano benpensanti quando si parla di ponte sullo stretto di Messina che almeno assolve ad una funzione importante? Mah, vallo a capire!
Pietro Pagliardini