Pietro Pagliardini
Salvatore d’Agostino, autore del blog Wilfing Architecture, mi ha segnalato, in un suo commento, un articolo di Ilvo Diamanti su Repubblica. Diamanti viene definito un “politologo” che sembra un’offesa ma lui è molto migliore del mestiere che gli hanno appiccicato.
L’articolo parla di edilizia e di città. Descrive la crescita esponenziale delle costruzioni eseguite in Italia negli ultimi anni ma il suo approccio al problema non è punitivo nei confronti di chi vuole costruire la casa per sé e per i propri figli, pur con tutte le complicazioni che questo costume italiano si porta dietro: un sostanziale immobilismo sociale, perché la proprietà della casa lega la persona al proprio territorio, e questo è un problema per i giovani e per il dinamismo della società nel suo complesso.
Diamanti prende atto di questo fatto senza le consuete supponenze e demonizzazioni del costume tutto italiano del possesso della casa che affonda le proprie radici nella cultura e nel modo di essere di un popolo, opposta a quella americana che, giovane di tradizione e nata dal pionierismo, è (o forse era) assai mobile e poco stanziale; non a caso è diffusa la residenza in case-mobili. Negli Stati Uniti è forte l’orgoglio di appartenere alla nazione americana, in Italia è immenso l’orgoglio di appartenere, in ordine decrescente, ad un quartiere, ad un paese, ad una città, ad una regione, ad una nazione. Ad esempio, nella mia città, Arezzo, c’è una forte propensione a comprare casa nel quartiere in cui si è nati e vissuti, a prescindere dalle qualità dello stesso.
Di questa crescita delle costruzioni in ogni parte del territorio Diamanti rileva invece la pessima qualità dei modelli di aggregazione e osserva, con grande acume, che la domanda sociale di edilizia non è la sola molla della richiesta:
“ Ma per ragioni che solo in parte - limitata, peraltro - si possono ricondurre alla "domanda sociale". All'evoluzione demografica, ai cambiamenti negli stili e nell'organizzazione della vita delle persone. Semmai è vero il contrario: gli stili e l'organizzazione della vita delle persone hanno subito mutamenti significativi e profondi in seguito alla rivoluzione immobiliare del nostro territorio”.
Il politologo ribalta perciò il luogo comune che la brutta architettura è il prodotto di una brutta società e riconosce che è la grande e disordinata crescita immobiliare ad avere cambiato li modelli di vita delle persone, cioè il vero problema è il modo, più che la quantità, in cui questa crescita si è manifestata. In altre parole riconosce che l’ambiente costruito influenza gli stili di vita, le relazioni tra individui. E come si sono trasformate queste relazioni? Lo dice a fine articolo:
“Tanti insediamenti grandi o piccoli, disseminati di palazzi, villette a schiera, appartamenti di varia metratura, garage interrati. Intorno: prati un po' esangui, strade e rotonde. Rotonde, rotonde e ancora rotonde. Magari una pista ciclabile. Al centro una piazza - veramente finta - attrezzata con panchine e magari un prato. Perlopiù ridotta a parcheggio, dove i bambini non giocano e gli adulti non si fermano a parlare. Accanto: altri quartieri e altri villaggi nuovi. Sorgono senza seri progetti di integrazione, socializzazione. Senza politiche finalizzate a costruire relazioni sociali, oltre agli immobili. Né ad alimentare la vita pubblica, oltre alla rendita privata. Località artificiali, dove confluiscono migliaia e migliaia di persone. Migliaia e migliaia di estranei. Di stranieri, immigrati: anche se sono veneti, lombardi, marchigiani. "Italiani veri": da generazioni e generazioni. Ma in realtà: apolidi. Abitanti del "villaggio Margherita" e del "condominio Europa".
È così che siamo diventati un paese di stranieri. Individui poveri di relazioni, sempre più soli e impauriti. Che passano la gran parte del loro tempo in casa. Con scarsi ed episodici contatti con il mondo circostante”.
Un inciso linguistico: da notare l’espressione “varia metratura” usata per ironizzare sul gergo delle agenzie immobiliari e che dimostra quanto la cartellonistica pubblicitara immobiliare sia ormai diffusa e invasiva. Fine dell’inciso.
Diamanti non si sofferma troppo su questioni di economia, non fa moralismi tanto stucchevoli quanto inutili per trovare la soluzione al problema quantitativo ma si pone, in maniera lucida, il problema del disegno urbano e delle conseguenze che l’assoluta mancanza di questo ha sugli stili di vita degli individui e della società. Individua con precisione alcuni punti essenziali che caratterizzano la costruzione e i difetti delle nostre periferie, nutrite esclusivamente, se va bene, di quantità: il verde, la pista ciclabile, la piazza; è proprio quest’ultima, la piazza, la nuova parola d’ordine perchè viene considerata da amministratori, consiglieri di circoscrizione e, purtroppo, anche da molti architetti, al pari di un elemento costruttivo dotato di una propria individualità e di una assoluta autonomia da tutto il resto, al pari di una panchina, di un lampione, di una statua, completamente svincolato dalla trama delle strade e dai relativi fronti edilizi circostanti che invece sono proprio quelli che determinano non solo la forma della piazza ma anche la possibilità stessa che uno spiazzo diventi piazza.
La piazza è il risultato di una trama viaria specifica che, in determinate punti nodali crea una polarità, un punto di concentrazione di flussi e perciò di informazione.
Per fare un paragone con la rete e con il traffico aereo, la piazza è simile ad un hub, un luogo di incontro e di scambio particolarmente intenso e, come costruire un aereoporto grande è relativamente semplice (questione di denari), farlo diventare un hub richiede invece rotte, relazioni territoriali a livello continentale, interessi economici diffusi, flussi turistici: lo stesso vale per le piazze.
Diamanti l’ha capito benissimo, ha capito che le piazze sono quelle che conosciamo nei nostri centri storici, punto d’incontro di strade principali che conducono da un luogo all’altro e non dal poco al niente, devono essere racchiuse da fronti continui di edifici e, generalmente, comprendono edifici (o come dice Marco Romano) temi collettivi che una volta erano prevalentemente pubblici ma che nulla vieta siano privati basta assolvano ad un interesse generale. Una piazza non si "fa", nasce o da un processo storico o da un progetto complesso, certamente non da una pavimentazione di un luogo qualsiasi e dall'apposizione di una targa con il nome del politico defunto di moda al momento.
Nell’immaginario collettivo la piazza è un luogo popolato di cittadini che intessono relazioni sociali, è un luogo mitico che ricorda l’antica Agorà: in realtà, come osserva giustamente l’architetto Danilo Grifoni, attento osservatore e studioso della città, solo in rare occasioni questo avviene, mentre nella stragrande maggioranza del tempo le persone si collocano ai bordi della piazza, vicino agli edifici, laddove ci sono generalmente le strade che creano la piazza, segno della precedenza temporale e gerarchica delle strade sulle piazze, le quali dall’incontro di quelle hanno origine. Raro vedere nelle piazze storiche il centro di esse occupate da elementi d’arredo, come è d’uso attualmente, a parte le piazze ottocentesche che hanno più il carattere di giardini.
Quali conclusioni trarre dalle considerazioni di Diamanti? Vittorio Gregotti ha commentato su Repubblica questo articolo e ne ha tratto le conclusioni che:
“L'insensato consumo del bene finito dei suoli, che quando sono rimasti liberi divengono solo resti in attesa di occupazione, è anche degli altissimi costi di infrastrutturazione a causa dei contraddittori indirizzi delle amministrazioni territoriali e della distruzione per inglobamento di quella straordinaria ricchezza (specie nel caso della tradizione europea), che è la fittezza dei piccoli insediamenti storicamente dotati di identità urbana, saggiamente distanziati e che proprio le tecniche delle comunicazioni immateriali potrebbero rendere altamente produttivi nella rete delle loro singolarità.”
Un linguaggio come al solito involuto ma anche, a mio avviso un po’ sfuggente: è vero che Gregotti parla della “straordinaria ricchezza…. dei piccoli insediamenti storicamente dotati di identità urbana” con ciò facendo una scelta di campo chiara ma, nella lettura di tutto l’articolo si coglie una diluizione di questo concetto in mezzo a molti altri quali la responsabilità della politica, la concertazione, ecc.
Io credo che per imboccare la giusta direzione sia necessario affermare il principio della centralità, almeno per gli architetti, del disegno urbano, della sua utilità nel progettare spazi che, se ben fatti, possono influenzare positivamente le relazioni tra individui, senza per questo avere nessuna pretesa di risolvere problematiche sociali che spettano ad altri soggetti, senza entrare in questioni procedurali e burocratiche che fuorviano e fanno il gioco di politici e funzionari.
Può sembrare un’affermazione scontata ma il fatto è che nei piani urbanistici il disegno è trascurato o assente del tutto a vantaggio di analisi, stime, uso del suolo, valutazioni integrate, coperture GIS, norme, vincoli, procedure, nell’attesa che il disegno possa nascere meccanicisticamente per “sottrazione”, una volta stabilito ciò che “non si può fare”. Il fondamento principale, ed anche unico, dell'urbanistica è diventata l'analisi mentre la sintesi è quasi completamente abbandonata.
Insomma il progetto della città, disegnato, va riportato al centro della pratica e della teoria degli architetti, tralasciando o mettendo in secondo piano questioni diverse, non deviare dal tema principale cercando di sminuirne la portata a vantaggio di altri: la speculazione, la rendita fondiaria, l’incapacità della politica, le responsabilità sociali dell’architetto, ecc., tutti temi vitali ma che, quand’anche fossero risolti (e dubito che gli architetti ne siano capaci) e mancasse il disegno, (e di questo gli architetti dovrebbero essere capaci) e tutto fosse lasciato al caso o al caos o alle mani di coloro i quali credono che la società sia “fluida” e l’organizzazione territoriale debba essere parimenti fluida, lascerebbe la situazione tal quale a quella descritta da Diamanti.
Con la differenza che avremmo una società regolata ma città brutte come quelle di adesso e individui ugualmente “apolidi”, cioè privi di cittadinanza perché privi di città.
Poi vi è il problema di quale sia il disegno giusto e su questo dobbiamo discutere, questa è la "mission" dell’architetto, per dirla con parole alla moda, la disciplina urbanistica, per dirla in italiano.
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10 settembre 2008
ILVO DIAMANTI: GLI APOLIDI ABITANTI DELLA PERIFERIA
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