Il titolo non è un errore e nemmeno uno scherzo, ma solo il bilancio di un anno che ho letto oggi sul Sole24Ore, in cui l'economista Alesina scrive che la povertà del mondo nel 2010 è fortemente diminuita, non solo in oriente, ché già lo sapevamo, ma anche in Africa.
Non so quali possano essere le conseguenze per le città ma la notizia è un'ottima notizia a prescindere.
L'augurio è che il trend prosegua e che anche l'anno prossimo sia possibile stilare lo stesso bilancio.
Auguri a tutti di un sereno 2011.
Pietro
31 dicembre 2010
UN BUON 2010!
28 dicembre 2010
ECCO I FASTI DELL'URBANISTICA E DELL'ARCHITETTURA CINESE
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Domanda: quale "cultura" c'è dietro?
Ognuno si risponda da solo
26 dicembre 2010
GRATIS AL MUSEO
Nel 2011 musei gratis per tutti i cittadini italiani e UE nel giorno del loro compleanno. Questa la nuova, lodevole iniziativa promozionale del Ministero dei Beni Culturali in occasione del 150° dell’unità d’Italia.
Galli della Loggia potrebbe dire che la “vita” irrompe nei musei e prevale sulla storia; cosa c’è infatti di più legato alla vita se non il ricordo del proprio giorno genetliaco?
E poi quel giorno, quello del biglietto gratis dico, ognuno di noi potrebbe avere il suo momento di gloria: immagino me che il 10 ottobre, fatta la mia bella coda, arrivo alla cassa e dico con orgoglio mostrando il documento: “Oggi è il mio compleanno”, mi volto indietro e mi prendo il mio attimo di successo mentre tutti, applaudendo, intonano un happy birthday to me, ed io esco dall’anonimato, come in un reality. Sono soddisfazioni, c’è poco da fare!
E poi, in fondo, anche il Ministro Bondi è un poeta, uno che si appella ai sentimenti, uno che ama la narrazione, proprio come Niki. Dunque….
Per il mio turno dovrò aspettare più di 10 mesi. Pazienza, il problema non è questo ché anzi l’attesa alimenta il desiderio; il problema è la scelta.
Penso che andrò a Roma. Ho consultato l’elenco dei musei che rientrano nel programma e avrei stilato la mia check-list:
Museo Mario Praz
Galleria Nazionale di Arte Antica in Palazzo Barberini
Galleria Borghese
MAXXI
Dato che escludo di poterli visitare tutti, sia per mancanza di tempo, sia per l’incapacità di mantenere a lungo il livello di attenzione, qualcosa dovrò tralasciare, anche per rispettare il senso di una check-list.
Certamente non perderò la Galleria di Palazzo Barberini, per le opere in essa contenute e per l’opera di Maderno, Bernini e Borromini.
Credo di riuscire a farmi anche il Museo Mario Praz, che è relativamente piccolo anche se ricco delle opere accumulate dal padrone di casa e degli arredi che fanno lo sberleffo ai loft di Manhattan.
La Galleria Borghese l’ho già visitata, metterebbe conto tornarvi ma non voglio esagerare con il biglietto a scrocco.
Mi resta il MAXXI! Sarebbe logico sceglierlo. Nella sua scheda riportata nel sito del Ministero c’è scritto:
Il MAXXI, Museo nazionale delle Arti del XXI secolo è la prima istituzione nazionale dedicata alla creatività contemporanea pensata come un grande campus per la cultura.
Non è un invito particolarmente incoraggiante per me. Sì, ho un pre-giudizio, basato però su un post-giudizio: se la stragrande maggioranza delle opere della creatività contemporanea rifiuta per scelta bellezza, figura e quindi comprensibilità ma costringe invece a leggere un catalogo impregnato di discorsi incomprensibili all’uomo comune che io sono, è altamente probabile, per non dire certo, che io mi ritrovi nella situazione di dover fingere di apprezzare e capire opere incomprensibili e di rimpiangere la Galleria Borghese.
A meno che non vi possa trovare opere contemporanee come quelle di Luciano Ventrone della due foto ad inizio post, ma mi sembra arduo che venga considerata dai curatori del Museo un'opera della "creatività contemporanea". Chissà, magari verrà giudicata solo vile tecnica pittorica, roba da operaio specializzato dei pennelli.
Però c’è il MAXXI, che non è solo "istituzione nazionale dedicata alla creatività contemporanea" ma opera essa stessa della suddetta creatività, del tutto indipendente dal contenuto.
Ma oramai l’ho visto in tutte le salse: dal plastico ai rendering del concorso, dalle foto sui giornali e in rete, più numerose di quelle di Belen Rodriguez – che è certamente una bellezza contemporanea - ai post satirici e irriverenti su Archiwatch.
Certo, come scriveva Bruno Zevi, l’architettura non è rappresentabile attraverso la fotografia perché:
“Lo spazio interno, quello spazio che.… non può essere rappresentato compiutamente in nessuna forma, che non può essere appreso e vissuto se non per esperienza diretta, è il protagonista del fatto architettonico. Impossessarsi dello spazio, saperlo «vedere», costituisce la chiave d'ingresso alla comprensione degli edifici. Fino a che non avremo imparato non solo a comprenderlo in sede teorica, ma ad applicarlo come elemento sostanziale nella critica architettonica, una storia e perciò un godimento dell'architettura non ci saranno che vagamente concessi. Ci dibatteremo in un linguaggio critico che giudica gli edifici in termini propri della pittura e della scultura, e tutt'al più elogeremo lo spazio astrattamente immaginato e non concretamente sentito (1)”.
Qui Zevi ha ragione. Ma forse quando ha scritto questo testo non poteva ancora immaginare a quale livello sarebbe potuta arrivare l’interpretazione dell’architettura e dello spazio da parte dell’architetto e soprattutto dal computer dei suoi collaboratori. Una interpretazione talmente individuale e personale, fuori da ogni schema, regola e da ogni linguaggio comprensibile e condivisibile, in senso letterale, che sembra costruita solo per il suo autore, come un diario privato, con la non piccola differenza che l’opera di architettura, quella pubblica a maggior ragione, appartiene a tutti e dovrebbe parlare una lingua nota a tutta la comunità.
Invece ai più non può restare che accettarla o rifiutarla, non per specifiche qualità dell’opera, difficili da trovare e ancor più da descrivere e comunicare, quanto per la maggiore o minore attenzione divistica attribuita al progettista dai media, corroborati dalle così dette scuole di architettura. Difficile anche comprenderlo in sede teorica, come auspica Zevi.
E allora farò a meno del MAXXI che non ha alcun segreto da svelare e su cui nemmeno Saper vedere l'architettura può essere di aiuto. Mi spiace solo dover rinunciare al terzo happy-birthday to me.
AGGIORNAMENTO: CONSIGLIO QUESTO LINK PER GODERE LE BELLEZZE DI UNA MOSTRA DI AVANGUARDIA. POTREBBE ESSERE IL MAXXI UNA SEDE ADEGUATA O SARA' UN EVENTO UNICO E IRRIPETIBILE?
Nota 1: Bruno Zevi, Saper vedere l'architettura, Einuadi, 1964
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23 dicembre 2010
10 dicembre 2010
IL DUOMO DI MILANO COME LUMINARIA NATALIZIA
L’amico Enrico Delfini, non architetto, mi ha inviato una mail con un commento ad alcune foto di architettura, come fa di tanto in tanto.
In genere mi manda foto curiose di stranissimi edifici oppure commenta architetture contemporanee non famose ma ugualmente strane e di tendenza. Enrico non è pregiudizialmente ostile all’architettura contemporanea, tutt’altro.
Questa volta mi ha offerto un punto di vista originale e profondo sull’illuminazione delle vetrate del Duomo di Milano. Non so se questa scelta rientri nel progetto natalizio delle luminarie, presentato anche al TG, ma so che il Duomo, in questo caso, è assimilato ad una luminaria di Natale, ad arredo urbano, il Duomo diventa anch’esso spettacolo occasionale ed “evento”, al pari di qualsiasi altra manifestazione pubblicitaria con al centro oggetti architettonici. Enrico spiega le motivazioni che non lo convincono, legando l’architettura, in questo caso l’architettura sacra, alla sua autentica funzione di luogo di culto per i fedeli e non a semplice involucro letteralmente “svuotato” di significato e di spazio interno e ridotto a gigantesca luminaria per “eventi” particolari.
Le foto sono visibili qui, nel sito del Corriere della Sera, il testo che segue è, naturalmente, di Enrico Delfini.
Quando si dice che il mondo va alla rovescia.
Avevo sempre creduto che le finestre servissero per far entrare la luce dentro gli edifici, e che le vetrate gotiche (le RollsRoyce delle finestre) aggiungessero alla luce il colore, la forma, le immagini, le storie....
Ribaltare uso e funzione è buffo, ma soprattutto stupido.
Da parte della Curia ambrosiana (già nota per usi e abusi di spazi sacri) un autogol: non fosse mai che qualche turista potesse essere invogliato ad entrare in duomo, a respirarne lo spazio, a percorrerne le navate; magari trovarsi smarrito nella foresta di colonne, captare un certo vago sentore di una essenza superiore....
Le forme gotiche del duomo di Milano possono piacere, o essere di difficile digestione; ma resta un colosso dell'ingegneria e dell'architettura.
Mi ha sempre affascinato il suo essere "fuori scala" (senza riferimenti al vicino teatro!). Se ancor oggi giganteggia nel centro storico meneghino tra palazzi e costruzioni posteriori di secoli, ma che nemmeno si avvicinano alle sue dimensioni, mi chiedo che effetto deve aver fatto sui popolani del XIV secolo... quando le dimensioni degli edifici circostanti dovevano essere irrisorie.
Immagino quel che potrebbe aver pensato il buon Renzo Tramaglino, avvistando da chilometri di distanza quell'enorme montagna bianca artificiale, svettante su un mare di casupole e di campanili pigmei.
Qualcosa del genere, è possibile forse (era?) a chi arrivava a Manhattan via mare nei primi decenni del '900.....
Anche i grattacieli vengono illuminati (l'Empire State Building. ha colori diversi alle diverse cornici; tutto verde per San Patrizio!), ma sempre si tratta di luce proiettata da fuori sui muri e sulle pareti. Non mi risultano esempi di illuminazione "verso l'esterno" !
Enrico Delfini
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8 dicembre 2010
STRADE 10° : BERNARDO SECCHI
E' la volta di una concezione della strada completamente diversa da quella dei post precedenti. Un punto di vista a mio avviso sbagliato e allo stesso tempo sfuggente, nello stile personale di Bernardo Secchi, piuttosto involuto e prolisso, pur se immaginifico, ma anche nello stile di Casabella, direzione Gregotti. Nel testo ci sono però lo stile e i contenuti del tempo, con la percezione che qualcosa stava cambiando, che niente andava più bene, ma senza saper individuare una direzione da prendere, a parte la ormai abusata formula del così detto progetto di suolo, che ha informato di sè tutto un periodo di leggi e di piani urbanistici. Il progetto di suolo, un metodo assurto a merito, privo di contenuti se non si stabilisce "come", in base a quali criteri, con quale scopo il "suolo" debba essere progettato. Alla fine il progetto di suolo è diventato la presa d'atto di ciò che già esiste, una formula per congelare la realtà, molto spesso sbagliata. Quando invece diventa progetto, si esplicita in una occhiuta attenzione ad ogni dettaglio del territorio, tanto insopportabile e invasiva della sfera privata quanto irrealizzabile e iper-burocratica. Nel testo vi è una parte di analisi corretta e condivisibile, un insieme di suggestive narrazioni ma la sintesi è assente o, almeno, scarsamente comprensibile.
Bernardo Secchi è un urbanista che ha davvero influenzato l'urbanistica italiana di fine millennio, ma i suoi effetti si allungano fino ai nostri giorni.
Persona amabile e gentile, ha purtroppo dato vita ad una serie di allievi pessimi imitatori dell'originale, che hanno esasperato gli aspetti peggiori, più astratti e burocratici, del suo già abbastanza astratto insegnamento.
Il testo è tratto da un articolo di Casabella n° 553-554 del 1989, numero monografico dal titolo "Sulla strada".
"Gli edifici sono uno accanto all'altro. Sono allineati. E previsto siano allineati, per loro è una grave colpa non essere allineati: si dice allora che sono fuori allrneamento, ciò vuol dire che si può demolirli per ricostruirli allineati con gli altri.
L'allineamento parallelo di due serie di edifici determina ciò che si chiama una strada: la strada è uno spazio bordato, generalmente lungo i suoi lati più lunghi. da case; la strada è ciò che separa le case le une dalle altre ed anche ciò che permette di andare da una casa all'altra, sia lungo la strada che attraversandola...
Contrariamente agli edifici che sono quasi tutti di proprietà di qualcuno, le strade non sono di alcuno. Esse sono suddivise. abbastanza giustamente, in una zona riservata alle automobili, che si chiama carreggiata, e in due zone, ovviamente più strette, riservate ai pedoni, che si chiamano marciapiedi. Un certo numero di strade sono riservate ai pedoni, in via permanente o in occasioni particolari. Le zone di contatto tra la carreggiata e i marciapiedi permettono agli automobilisti che non desiderano più circolare di parcheggiare. Essendo il numero dei veicoli che non desiderano più circolare molto maggiore del numero di posti disponibili, le possibilità di parcheggio sono state limitate...
Non è molto frequente vi siano alberi nelle strade... La maggior parte delle strade, invece, è fornita di attrezzature specifiche corrispondenti ai diversi servizi: vi sono così dei lampadari che si accendono automa¬ticamente... delle fermate di autobus... delle cabine telefoniche... delle buche per la posta... dei parchimetri... dei cestini per la carta... dei semafori... delle indicazioni stradali..."
Al suo esercizio di descrizione elementare George Perec fa seguire una "esercitazione": "Osservare ogni tanto la strada, magari con intenti sistematici. Applicarsi. Prendersi il tempo necessario. Notare il luogo... l'ora... la data... che tempo fa... Notare tutto ciò che si vede. Ciò che avviene e che sia degno di nota. Cosa è degno di nota? lo sappiamo? C'è qualcosa che ci colpisca? Niente ci colpisce. Non sappiamo vedere".
1. Non si può che essere insoddisfatti delle strade che abbiamo: inadeguate a risolvere i problemi del traffico e della sosta, luogo della massima concentrazione dell'inquinamento acustico, aereo e paesistico, suddividono incongruamente lo spazio urbano ed il territorio, ne esaltano le potenzialità e possibilità edificatorie, ne moltiplicano indefinitamente il carattere frammentario, la dispersione delle origini, delle destinazioni e delle motivazioni dello spostamento e con ciò aggravano lo stesso problema che sono state “ridotte” a risolvere.
La strada è oggi “luogo” cruciale per una riflessione sulla città ed il territorio: manufatto e spazio fondamentalmente ambiguo, destinato contemporaneamente a svolgere funzioni assai precise, solitamente interpretate in termini di meccanica dei fluidi, ed assai vaghe, interpretate solitamente in termini di meccanica dell'interazione sociale; destinato a svolgere ruoli palesi, di collegamento, ed impliciti, di redistribuzione della ricchezza, la strada impone un ritorno a visioni d'assieme che esplorino nuovamente, attraversando numerosi strati di riflessione, territori vasti e tempi lunghi.
La strada ci costringe ad abbandonare due grandi “miti d'oggi”: aiutati dall'orgoglio inconsapevole di una cattiva ingegneria e di un'urbanistica troppo adattativa, essi hanno cumulativamente riempito tutto l'immaginario collettivo dei paesi occidentali nell'ultimo mezzo secolo. Con conseguenze nefaste.
2. Nel nostro paese si potrebbe iniziare dall'alta valle del Chienti, nei pressi di Piastra, dove la nuova superstrada in costruzione ha aperto nei fianchi della montagna incisioni enormi, distruggendo, alterando, modificando interamente un paesaggio, senza porsi il problema di quello che avrebbe costruito e che pur avrebbe potuto essere progettato.
Si potrebbe proseguire lungo 1'Autosole nel tratto appenninico, o lungo l'autostrada della Cisa, o in molti altri luoghi analoghi, laddove il nuovo manufatto stradale già sovrasta alcuni strati di sue recentissime rovine: tratti di autostrada franati ed abbandonati. La vecchia statale e la più antica vicinale passano sinuosamente ai loro piedi ed insinuano il dubbio: che non si sappia abbastanza dei materiali, della loro durata, dei terreni e della loro stabilità, delle nostre stesse tecniche di costruzione: che si voglia andare troppo in fretta.
Si potrebbe entrare in città con la sopraelevata, correndo all'altezza delle finestre di appartamenti che un tempo guardavano il mare e ora si affacciano su rumori, gas di scarico e polvere. Oppure scendere per attraversare il traffico al passaggio pedonale non protetto, sull'esiguo marciapiede occupato dalle autovetture in sosta, prendere il sottopasso scuro, maleodorante; camminare in fretta lungo la strada periferica deserta, o tra la folla che non riesce a stare in marciapiedi così stretti, con le macchine parcheggiate in doppia fila.
Si potrebbe riconoscere in tutto ciò i caratteri del paesaggio metropolitano, rendersi conto che ciò è il portato di un cambiamento radicale che ha investito negli ultimi decenni la nostra società, la sua cultura e la sua città, dire a cosa tutto ciò si associa. Oppure pensare che tutto ciò derivi da errori evitabili: non si è previsto ciò che pur si poteva, non si sono mobilitate risorse adeguate, non si sono riservati i terreni necessari, non si sono valutate le conseguenze di ogni intervento. Tutto ciò ho l'impressione racconti solo una parte della storia. L'altra parte riguarda più da vicino il progetto urbanistico e di architettura.
3. Quando sta facendo un piano, qualunque sia la dimensione dell'area o del centro urbano investito, la questione delle strade diviene per l'urbanista un rompicapo ed un incubo.
Attorno ad essa, nei testi e discorsi degli amministratori, dei rappresentanti dei di versi gruppi sociali e di interesse, nella stampa, nella pubblicità, nelle analisi e nei progetti di altri tecnici e studiosi, nella loro stessa fraseologia, nelle metafore ed analogie cui essi ricorrono con maggior frequenza e che si riversano poi sulla società divenendone buon senso e senso comune, si viene quasi inevitabilmente ad addensare un nugolo di enunciati “anonimi, contorti, frammentari, chiacchieroni”, che, nel loro insieme, costruiscono il problema della strada in modo pressoché insolubile.
Alcuni pretendono di avere un carattere eminentemente inferenziale che possa essere sottoposto alla verifica o falsificazione. Nella maggior parte di questi enunciati Roland Barthes e Alfred Sauvy avrebbero riconosciuto alcuni dei principali “miti d'oggi”. Altri tendono a rinviare l'urbanista ad una visione d'assieme e ad un tempo lungo, a ramificati ed estesi sistemi di relazioni tra soggetti, attività, luoghi e saperi tra loro fisicamente o concettualmente distanti. Molti, all'opposto, gli propongono visioni limitate a situazioni contingenti, a soggetti, luoghi e saperi particolari ed ai loro specifici caratteri e ruoli. Alcuni enun¬ciati costruiscono il problema al di fuori dello specifico campo d'indagine dell'urba-nistica e dell'ingegneria ed architettura della strada, ma altri propongono e disegnano soluzioni di emergenza per problemi non ancora correttamente costruiti. Nessuno appare proprio di uno specifico soggetto parlante, deposito di uno specifico sapere; ma il loro insieme dà luogo ad una “rappresentazione collettiva” internamente contraddittoria che attraversa obliquamente i diversi gruppi sociali e di interesse e che tende a permanere con grande stabilità nel tempo; difficile da rimuovere e che peraltro si oppone con forza ad altre ed altrettanto importanti rappresentazioni: è da questa opposizione che nasce il rompicapo e l'incubo.
Ciò che domina la rappresentazione è un'immagine idraulica “banale”, solitamente utilizzata nelle due flessioni organica ed alluvionale per ridurre ed esaltare il ruolo della strada, ridurlo ad un unico scopo ed esaltarne l'importanza: si tratta di incanalare flussi; smaltire, evacuare, far circolare; evitare la formazione di ingorghi, allargare, dare nuovi sbocchi, impedire che il flusso rompa gli argini, straripi e sommerga la città. Nello spesso linguaggio, “intessuto di abitudini, di ripetizioni di stereotipi, di clausole obbligate e di parole-chiave” dell'odierna rappresentazione collettiva dei problemi del traffico e della viabilità le strade divengono “gronde”, “scolmatori”, “arterie” e “capillari”, "infrastrutture semplici", nel disegno delle quali si vorrebbe rappresentata un'idea pervasiva del movimento, della sua continuità e velocità; dalle quali si vorrebbe togliere nascondendola ed occultandola ogni incrostazione, ogni scopo diverso, come il fermarsi, lo stare, il voltarsi indietro e guardare.
Il frammento, l'eterogeneo, l'incongruo, il molteplice, la differenza hanno costruito un'altra grande e forse ancor più importante rappresentazione collettiva, un altro “mito d'oggi”; esso invade ogni aspetto del mondo fisico e delle idee opponendosi con forza ad ogni sguardo, ad ogni discorso e ad ogni pratica che aspiri a farsi generale. Siamo talmente immersi in questa nuova rappresentazione del mondo che vi riferiamo ogni incoerenza riscontrabile nei fatti o nei discorsi; l'usiamo in modo acquietante per trasgredire le regole linguistiche, le sintassi argomentative, le procedure d'interazione che ci siamo dati; per accettare la frequenza dell'imprevisto, per disfarci del peso della regola che si fa norma, per giustificare ogni progetto, forse ogni sua motivazione. Ad esempio per non rilevare le aporie contenute nell'idraulica della precedente rappresentazione collettiva. Per accettare che entrambi i miti rendano la strada, confinata allo svolgimento di una sola mansione tecnica, sempre più estranea alla costruzione del territorio, dello spazio urbano e del loro senso. La strada è divenuta oggetto di uno specialismo che la sottrae al campo dell'urbanista.
4. Per lungo tempo, invece, la strada è stata ineludibilmente costitutiva dell'oggetto di studio e del progetto dell'urbanista. Attraverso le strade l'urbanista ha letto ed interpretato la città, il territorio e la loro storia; attraverso le strade ha cercato di dare loro nuovi sensi e ruoli. Mi sembra persino difficile pensare il problema urbanistico od una sua qualsivoglia articolazione senza riconoscervi il ruolo assolutamente cruciale della strada.
L'urbanista ha usato le strade per misurare il territorio, per suddividerlo, per significare le differenze tra le sue parti ed il carattere di ognuna, per porre della distanza tra le cose, tra gli oggetti architettonici, le attività ed i loro soggetti, per definire allineamenti, regole d'ordine e loro eccezioni, per rappresentare il potere e la gerarchia, per separare, stabilire limiti e mediazioni, tra l'interno e l'esterno, il sopra ed il sotto, il privato ed il pubblico, ciò che si può o vuole mostrare e ciò che si nasconde; oppure per collegare, per mettere in comu¬nicazione tra loro territori, popolazioni e società, per attivare od imporre scambi, per rendere accessibili risorse umane e materiali, sfruttare loro giacimenti, rendere edificabile e valorizzare uno specifico luogo o terreno, deviare un flusso di traffico, attirarlo, consentire la sosta e la circolazione, delle persone e delle merci, lo scambio delle cose e delle idee. La strada, nella inesauribile serie delle sue specifiche varianti tecniche, funzionali, formali e simboliche, solo pallidamente ripetuta dalla varietà dei nomi mediante i quali vi facciamo riferimento, è sicuramente uno dei principali materiali con i quali l'urbanista si è da sempre trovato a lavorare; di volta in volta per affermare il valore della “regolarità”, della “continuità”, della “permanenza”, del “visibile”, dell'”organico”, della “tecnica”, della “velocità” entro differenti concezioni ed immagini dello spazio.
Alla strada, metafora del vivere, del conoscere e dei diversi percorsi della storia, nel progetto dell'urbanista è stato da sempre affidato un ruolo collettivo; non solo nel senso di costituire lo spazio dove per eccellenza la collettività si vede e riconosce sé stessa, la propria cultura ed i propri "miti", ma anche in quello di divenire segno di ciò che rende discreto, non omogeneo, articolato e cionondimeno coeso lo spazio sociale. Con il suo ambiguo carattere di traccia che collega e di limite che separa la strada, spazio tra le cose, si è fatta struttura cui gli altri spazi urbani, edificati e non, si riferiscono per acquisire significato: individualmente, come parti dotate di una propria riconoscibile identità, od insieme, come dettagli di una forma comprensibile e più generale. In questo senso la strada può rendere tra loro non incompatibili le due rappresentazioni collettive che dominano Io spazio urbano ed il territorio contemporaneo.
5. La cultura diffusa dei paesi occidentali è oggi percorsa da una ambigua nostalgia per la città antica in tutte le sue diverse declinazioni, ivi compresa la città del secolo scorso, e da un ingiusto rifiuto della città moderna; quasi una nuova rappresentazione collettiva in via di formazione che si esprime, per ora, in modo implicito ed inconsapevole come insieme disordinato di pratiche sociali, di procedure amministrative e di atteggiamenti progettuali. Della città antica non vengono rimpianti e riproposti per la conservazione e ripetizione i caratteri dello spazio privato, individuale, quanto piuttosto quelli dello spazio collettivo: la strada e gli gli spazi urbani, aperti o coperti, pubblici e privati, che ad essa si articolano. È mia impressione che di tutto ciò non si stia capendo molto: che si scambi il nuovo atteggiamento per una maggiore consapevolezza storica, per una più gelosa cura delle testimonianze storiche del passato, per una nuova specie di “antiquariato”, per uno snobismo di gruppi emergenti, soprattutto per un programma di ricerca dell’urbanistica e dell’architettura moderna.
Al contrario il nuovo atteggiamento mi sembra riveli “solo” l’emergere vago, cioè ancora aperto alle più diverse interpretazioni interpretazioni, di una domanda di spazio collettivo; di uno spazio, altrettanto vago, nel quale la collettività possa rappresentarsi, osservarsi e comprendersi nelle sue articolazioni e nel suo insieme, nel suo passato e nel suo divenire.
Il compito che sta oggi di fronte all’urbanista è appunto quello di restringere la vaghezza di questa domanda fornendole interpretazioni adeguate al carattere delle società contemporanee, che si rappresentino attraverso un “progetto di suolo”, inizialmente un progetto dello spazio stradale e di quelli che ad esso si articolano. Che si incominci conservando ed imitando, rivolgendo psi con qualche nostalgia al passato, osservando i caratteri “elementari” delle maggiori interpretazioni che ci hanno preceduto, cercando di descriverle, di classificarle, di ordinarle in differenti strati di senso, mi sembra normale, ma ancora insufficiente.
Ciò che occorre è ridare alla strada il suo spessore funzionale e semantico, farla divenire ancora elemento costitutivo del progetto urbano e territoriale, materiale resistente che, con la propria forma, si opponga al prorompere frammentario degli eventi e degli interessi, al fluidificarsi e mescolarsi delle idee, all’annullarsi di ogni riconoscibile identità, di ogni differenza tra progetti alternativi, di ogni criterio atto a stabilire la loro legittimità.
Ciò non si ottiene attraverso affrettate e burocratiche classificazioni e separazioni, risolvendo la questione per parti distinte: ad un estremo le strade destinate a smaltire il flusso informe del traffico con attaccati i loro parcheggi, all’altro, dietro il muro del parcheggio, la piazza commerciale riempita dei piccoli segni dell’arredo urbano. Non vi è niente oggi di più destinato all’insuccesso del piano di settore. Neppure si ottiene solo aumentando le dotazioni di superficie per la circolazione e la sosta delle nostre città. Le stime più ragionevoli ci portano a dire che non abbiamo le risorse fisiche, monetarie e temporali per ottenere significativi risultati risultati lungo questa strada. Ciò implica invece che i temi proposti alla politica urbanistica vengano di nuovo formulati, soprattutto che ne venga ripensata l’importanza e la priorità: la sintassi. In particolare, ciò implica che il problema del traffico venga per un momento de-drammatizzato, fatto uscire dall’emergenza “alluvionale” e ricollocato entro un progetto che aspiri ad una propria coerenza e legittimità nel tempo lungo. Si vedrà che questo è di nuovo un progetto complessivo: al centro vi saranno gli assetti morfologici, i principi insediativi e le loro mutue relazioni, le architetture urbane; dettagli che comporranno e trarranno significato da un insieme, da un piano urbanistico.
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4 dicembre 2010
POST A QUATTRO MANI SU CITYLIFE
Siamo in crisi? A Milano c’è Citylife, la mostra d'arte moderna che ci conduce nella casa-modello di 220 mq di Libeskind
di Ettore Maria Mazzola
Il Corriere della Sera del 3 dicembre 2010, con un articolo sul web supportato da immagini ci informa dell’evento milanese con la “casa-modello” dell’archistar, e ci annuncia che nella primavera del 2012 saranno pronte le case disegnate da Zaha Hadid.
La società dello spettacolo ha avuto la sua degna passerella, così gli organizzatori Maurizio Dallocchio, presidente della società CityLife, e Martina Mondadori, direttrice di Tar Mag si sono affrettati a far sapere che «Abbiamo dedicato una parte del quarto numero a CityLife proprio perché il cuore della nostra rivista è anche a Milano. Questo progetto porta tre archistar internazionali in città, ed è un evento straordinario». Il successo apparentemente sarebbe dovuto al fatto che sono arrivati come ospiti nientemeno che “Ambra Angiolini ad Arturo Artom, passando per Costantino della Gherardesca e Alberta Ferretti”.
Sulle pareti dell’edificio di Libeskind è stata organizzata una mostra di giovani artisti organizzata dalla galleria di Giò Marconi, il risultato è nelle immagini che il Corriere ha messo sul web.
Di tutte ce n’è una che mi ha colpito, ed è quella inserita anche nel corpo del testo dell’articolo.
Come si può vedere, trattasi di una stanza minuscola, (che in una casa da 220 mq costruiti ex-novo ci sta sempre bene), dove due visitatrici – che non sono né Ambra, né Alberta Ferretti – si trovano a dover aggirare un fantoccio riverso a terra con un imbuto conficcato in bocca.
Che vorrà dire?
Penso che il messaggio non sia tanto nascosto: nonostante la necessità dell’arte moderna di non svelare mai il significato ultimo dell’opera, in questo caso l’artista ci ha voluto rappresentare il padrone di casa a cui gli architetti vogliono fare ingurgitare a forza le loro schifezze! … quel pupazzo non è casuale.
La vita non è un party
di Pietro Pagliardini
Primo:
guardare le foto di questo link.
Secondo:
Che cazzo vuol, dire Citylife?
Dovrebbe voler dire, se ricordo la regola inglese per cui l’oggetto principale si scrive alla fine, la vita della città, oppure la vita di città, insomma la vita.
Certamente è così, perché la città della vita potrebbe essere il titolo di un film, troppo impegnativo, troppo filosofico, escatologico quasi e anche un po’ presuntuoso, tipo la città celeste. Oddio, visto il progetto, il tono delle foto pubblicitarie e le opere d’arte esposte, ci sta anche che abbiano voluto aspirare a questi livelli.
Comunque diamo per buono il primo significato.
Ma, ironia della sorte, “Back to city life” è anche il titolo di un workshop romano sul recupero delle periferie degradate. Ad essere malpensanti si potrebbe ipotizzare un’unica regia, un’operazione di lobbying, una pubblicità occulta, sarebbe a dire un’operazione orchestrata dal Grande Vecchio per veicolare il messaggio che la soluzione al problema delle periferie e della città sia Citylife, quella delle foto. Ad avvalorare l’oscuro intrigo almeno un paio di grattacieli presentati al workshop, uno da Portoghesi e l’altro da Purini. Ma quello di Portoghesi era un grattacielo formato famiglia, forme accattivanti, un grattacielo nazional-popolare. Quello di Purini aveva più pretese, in verità, più metropolitano, con tanto di pannelli fotovoltaici, addirittura.
Potrebbe essere proprio lui il tramite del complotto, se non proprio il Grande Vecchio? Tenderei ad escluderlo perché, nonostante tutto, anche questo aveva qualcosa di più ordinario, più provinciale di quello milanese. Senza offesa, anzi per complimento, ma era più ruspante, vagamente borgataro, relativamente a quello schiettamente metropolitano delle foto.
Insomma, niente complotto, solo una pura coincidenza temporale.
Ma vogliamo mettere quei bordi esterni spezzati delle terrazze, quelle linee sincopate e nervose, a scatti, quei cambi di direzione improvvisi proprie di chi va di fretta, di chi non può permettersi di perdere tempo. Nemmeno per mettersi a sedere, né per mangiare o per soggiornare davanti alla TV o a leggersi un giornale, almeno a giudicare dalle foto. Opere d’arte ai muri e anche per terra. Tavolo da giocatore NBA, pupazzo steso a terra con imbuto in bocca, molto elegante devo dire, colore bianco ovunque. Nessun letto, quindi niente riposo, niente amore e di conseguenza niente figli. No, questo non è vero, i figli si fanno anche in laboratorio. D’altra parte, avete visto forse una stanza per bambini? L’armadio? Abiti e scarpe attaccate al chiodo.
C’è gente che gira, che guarda un po' attonita. Donne in costume etno-religioso, donne statuarie, praticamente statue.
Una casa da party. Una casa metropolitana. Unica stanza riconoscibile è il cesso, unico richiamo alla nostra misera umanità. Meno male, anche se si poteva valorizzare di più anche qualche altra funzione umana.
No, la vita non è un party. E la metropoli, la vita metropolitana, non rappresenta gli insediamenti umani e la vita che vi svolge in Italia e nel mondo intero. E invece il messaggio che passa è questo, il modello di abitare che viene veicolato come giusto e auspicabile è proprio questo. L'architettura che sembra contare e che fa scuola è questa. Potenza della pubblicità cui il così detto mondo della cultura si è piegato e si piega passivamente.
Ma le borgate abusive romane sono migliori, molto migliori e i grattacieli non sono stati apprezzati. Se ci fosse stato complotto, direi che sarebbe fallito.
2 dicembre 2010
ROMA WORKSHOP: PRIME IMPRESSIONI
Di ritorno dal workshop sulle periferie romane “Ritorno alla città”, organizzato dal Comune di Roma, una prima impressione, rimandando considerazioni più articolate a dopo la conclusione dell’incontro del 2 dicembre.
Oggi, sotto la guida del responsabile del Dipartimento del Dipartimento per la riqualificazione delle periferie di Roma, prof. arch. Francesco Coccia, sono intervenuti, Lèon Krier, Paolo Portoghesi, Marco Romano, Franco Purini, Galina Tachieva, Cristiano Rosponi e Nikos Salìngaros, chi presentando lo studio di una o più aree, chi, come Galina Tachieva, dello studo DPZ (Duany, Plater-Zyberk) illustrando il suo libro, Sprawl Repair Manual, una sorta di “libretto d’istruzioni” su come intervenire per riparare ai guasti dello sprawl negli USA, con una casistica ampia e varia di situazioni e soluzioni.
Le parole chiave, i tags, si direbbe nel gergo di Internet, dettate dagli organizzatori erano: densificazione, microchirurgia urbanistica, pedonalità, centralità alle periferie, e sono state espresse in maniera molto diversa da ciascuno degli intervenuti, sia come livello di approfondimento, sia come qualità delle presentazioni, sia come scelta della scala di intervento; da Lèon Krier che ha affrontato tutta la gamma possibile, da quella territoriale della rete infrastrutturale fino allo studio abbastanza dettagliato degli isolati e delle tipologie edilizie, a quello quasi esclusivamente architettonico di Portoghesi e Purini; ma in tutti, ad eccezione di Purini, almeno così a me è sembrato, c’è stata la consapevolezza che una pagina sembra essersi finalmente chiusa, quella del gesto architettonico totalmente estraneo al contesto e al tessuto esistente, della zonizzazione selvaggia, della segregazione della periferia, e un’altra se ne sta aprendo, quella in cui la città deve essere interpretata come un unico organismo e, in quanto tale, non possono esservi parti sane e parti malate.
I tags che escono invece dalle varie soluzioni sono: la strada, come protagonista assoluta del processo di risanamento, intesa come vera e propria arteria vitale che consenta il massimo di permeabilità, di relazioni e di comunicazione tra le varie parti; e poi l’isolato, studiato in modi diversi e con diversi rapporti tra pubblico e privato; le piazze come luoghi speciali e nodali risultanti dalle connessioni stradali e non come spazi astratti collocati casualmente secondo la volontà del progettista piuttosto che seguendo la “vena” della rete stradale.
Esprimendo un giudizio sintetico e necessariamente affrettato, oggi ho colto molto realismo e un atteggiamento di grande attenzione alla lettura di tutte le aree già fortemente urbanizzate oggetto di studio.
Una volta tanto l’abusato termine riqualificazione ha trovato un riscontro nei progetti e, guarda caso, proprio l’unica volta che non compare mai nei manifesti dell’incontro.
Una volta tanto non c’è stata la rappresentazione logora del pensiero unico, ma posizioni diverse si sono potute confrontare.
E oggi sarà la volta di Peter Calthorpe, Lucien Kroll, Francesco Cellini e altri.
A margine una nota sul luogo dell’incontro, l’Ara Pacis. Mi domando chi abbia avuto la geniale idea di realizzare quella barriera bianca che separa completamente chiese e Mausoleo di Augusto dal fiume per quattro stanzette in più.
Possibile che a Roma non ci fosse un altro posto dove fare una sala conferenze e uno spazio mostra?