Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


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25 aprile 2013

COCCODRILLI, "PECORE" E AGNELLI SACRIFICALI

Questo il ricordo personale, sincero come sempre e commosso che Ettore Maria Mazzola ha dedicato all'On. Teodoro Buontempo, deceduto il 24 aprile 2013.

Coccodrilli, “Pecore” e agnelli sacrificali
di
Ettore Maria Mazzola


Nel gergo giornalistico, il coccodrillo è un necrologio scritto in anticipo, per averlo pronto al momento del bisogno; probabilmente molti dei commenti che si leggono oggi ovunque nel web a seguito della dipartita dell’on. Teodoro Buontempo fanno parte di questa categoria.

Non è quello il “coccodrillo” a cui penso: mi riferisco ai tanti necrologi caratterizzati da “lacrime di coccodrillo”, scritti da personaggi vicini a lui che ben poco hanno a che fare con il reale affetto e stima nei suoi confronti.
Personalmente, lo sanno tutti, sono lontano anni luce dal partito in cui militava l’onorevole Buontempo, e proprio per questa ragione mi sento in dovere di esprimere il mio disinteressato e profondo dolore per la morte di un personaggio che, nel bene e nel male, faceva politica perché credeva realmente in ciò che portava avanti – anche quando si trattava di scelte impopolari come la vicenda dei fondi per la regolarizzazione del 4° piano di Corviale – perché credeva fino in fondo nell’obbligo di rispettare le promesse elettorali e, soprattutto, credeva nella necessità di lavorare per il bene comune e per le classi disagiate, tutte, senza distinzioni!

La ragione per la quale parlo di lacrime di coccodrillo da parte dei politici a lui vicini è dovuta ad una mia brevissima esperienza diretta col personaggio.

Qualche anno fa, al termine di una lunga ricerca sull’edilizia popolare riportata nel mio libro “La Città Sostenibile è Possibile” (Gangemi 2010), volli elaborare un progetto di Rigenerazione Urbana del quartiere Corviale di Roma, un progetto nel quale mettevo in pratica i miei studi, suggerendo la riscoperta di una serie di norme e strumenti in vigore nell’Italia degli anni ’10 del secolo scorso, norme e strumenti che avevano consentito all’ICP di costruire in proprio e per conto terzi l’edilizia pubblica facendolo divenire l’azienda più florida dell’epoca a Roma. Quelle norme, soprattutto strumenti, furono riposti in cantina con le leggi fasciste che istituirono i Governatorati, “degradarono” l’ente ed eliminarono l’Unione Edilizia Nazionale.

Di quel progetto, che venne pubblicato su alcuni giornali e nel web, se ne innamorò l’onorevole Buontempo, Assessore alle Politiche della Casa della Regione Lazio, sicché mi volle conoscere per cercare di organizzare insieme un convegno a tema. Egli aveva molto a cuore la situazione delle periferie e degli alloggi popolari ed avrebbe voluto porre fine alle ingiustizie sociali ed urbanistiche che caratterizzano le periferie italiane. In particolare aveva a cuore l’indegna situazione del Corviale di Roma. L’idea partiva dal fatto che, oltre al mio progetto, ce ne fossero degli altri, come per esempio quello di Gabriele Tagliaventi e Alessandro Bucci, tutti votati a sostituire l’attuale ecomostro in un quartiere autonomo a dimensione umana, caratterizzato da edilizia tradizionale, piazze e giardini.

Ci chiarimmo subito sul fatto che non avrei mai accettato strumentalizzazioni politiche su di un tema che per me viaggiava ad un livello culturale, sociale ed economico molto più alto dei patetici battibecchi politici dai quali rifuggo.

Lui si mostrò d’accordo: l’impegno sociale era più importante di tutto, e anche persone come me, allergiche a certi partiti, avevano diritto a dare una mano per migliorare le cose, indipendentemente dalla tessera del partito!
Ricordo come commentai l’incontro ad amici e colleghi che scherzavano sull’incontro col “Pecora”, come veniva chiamato l’onorevole. A questi amici e colleghi dissi che, indipendentemente dalle cose che si dicevano su di lui, a me era sembrata una persona corretta, eventualmente di un altro pianeta rispetto ai politici italiani: non riuscivo a quasi a credere alla sua apertura al dialogo, così mi documentai sulla sua biografia, scoprendo che, in effetti, sembrava più stimato dall’opposizione che dal suo partito!

Nel tempo, con sorpresa, mi resi conto, che l’onorevole mi seguiva, leggeva i miei scritti, sedeva tra il pubblico delle mie conferenze (Ferrara, Latina, Roma), alcune volte mi ha perfino telefonato per chiedere consigli su ciò che sarebbe andato a dire a degli incontri e conferenze sull’ambiente e sulla sostenibilità dove si accingeva a partecipare … ricordo ancora una lunga telefonata durante la quale parlammo di energie alternative e della mia idea di far riconoscere il diritto agli sgravi fiscali del 55% non solo a chi usi prodotti industriali coibentanti, pannelli fotovoltaici, ecc, ma anche a chi utilizzi materiali e murature tradizionali a chilometri zero che non richiedono sforzi energetici per riscaldamento e raffrescamento.

Ricordo come una volta cercai di fargli cambiare modo di esprimersi circa l’edilizia del Corviale per evitare di cadere nel tranello dell’inquadramento politico di quel genere di architettura che lui definiva “Sovietica”, così gli dimostrai come fosse figlia delle folli teorie di Le Corbusier che nulla aveva a che fare col comunismo, sebbene quelle tipologie abbiano fatto presa presso le giunte e i Paesi sinistrorsi.

Di lì a poco intraprendemmo un lungo e faticoso lavoro per organizzare il convegno. L’onorevole mise a disposizione il suo team interno alla Regione, collaborando con noi (me, Gabriele Tagliaventi, Alessandro Bucci, Stefano Serafini, il Gruppo Salìngaros) alla pianificazione di un convegno che avrebbe potuto lasciare il segno sul futuro delle periferie romane e italiane.
Il convegno era pronto e si sarebbe dovuto svolgere alla fine di giugno 2011, poi si preferì evitare la concomitanza con la festività sei SS. Pietro e Paolo e si riprogrammò, nei minimi particolari, il convegno che avrebbe dovuto aver luogo il 23 e 24 settembre 2011 presso l’Auditorium dell’Ara Pacis: 20000 mega-posters a colori stampati, 2000 brochures da 16 pagine a colori stampate, 3000 inviti a colori stampati e spediti, un video ed un’intervista radiofonica registrate dall’onorevole per pubblicizzare l’evento, alberghi e aerei prenotati per ospitare Philippe Pemezec, sindaco di Plessis Robinson, Bernard Durand Rival, Direttore dell’Uff. Urbanistico di Val d’Europe, il prof. Nikos Salìngaros, e il dr. Stefano Chiavalon, direttore generale della General Smontaggi esperto di demolizioni.

… Tutto procedeva a meraviglia fino a meno di una settimana dal convegno, quando la Governatrice del Lazio impedì che il convegno avesse luogo motivando il fatto con presunti motivi di bilancio … tuttavia, nonostante quei presunti motivi, al posto del nostro convegno se ne svolsero altri due per la promozione del Piano Casa … il nostro convegno e le idee dell’assessore, effettivamente, risultavano troppo in contrasto con le strategie urbanistiche della Regione Lazio!
Inutile raccontare quanto l’onorevole abbia sofferto di questo schiaffo morale, inutile dire come “er Pecora” possa essersi sentito un “agnello sacrificale”, ricordo il suo imbarazzo nei nostri confronti, ricordo lo sfogo dettato dall’incredulità.

Tre mesi dopo ci incontrammo nuovamente, voleva comunque provare a ritornare alla carica sul tema della sua vita, poi più nulla, anch’egli dovette arrendersi alla condanna del silenzio!

Oggi sarebbe dunque utile evitare la retorica e l’ipocrisia, rispettando la memoria di chi non c’è più!

Addio onorevole, nonostante la divergenza politica, ho stimato moltissimo la sua incrollabile coerenza.

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14 settembre 2012

JOSE' CORNELIO DA SILVA

Pubblico uno scambio di mail tra Ettore Maria Mazzola e l’architetto Josè Cornelio da Silva, che considero una sorta di conclusione del piccolo ciclo su Gubbio.
Occorre tenere presente che Josè ha scritto direttamente in italiano e quindi la costruzione dei periodi e alcuni vocaboli sono molto semplificati. Io mi sono permesso di fare alcune marginali correzioni senza interpretare troppo, anche per non alterare la naturale gentilezza del carattere di Josè.
Qualche breve riferimento alla sua biografia:
José Cornelio da Silva è portoghese, ha studiato nel suo paese e successivamente a Parigi e ha seguito il corso di specializzazione in restauro presso l'ICCROM, studiando anche le tecniche costruttive romane con Roberto Marta.
Nel 2001 ha fondato la Facoltà di Architettura dell'Università Cattolica Portoghese, che ha diretto per due anni.
Ha insegnato presso la University of Notre Dame School of Architecture.
Ha collaborato con molte altre università straniere e con il Principe di Galles.
Ha realizzato edifici e giardini in Portogallo, alcuni con il suo ex socio José Franqueira Baganha e molti da solo.
Ultimamente ha realizzato delle spettacolari aziende vinicole ed un giardino per il più importante imprenditore vinicolo portoghese, nonché la sede dell'ambasciata del Quatar in Portogallo.
Insieme a Nikos Salìngaros ha progettato a Doha in Qatar un complesso per HRH The Prince of Qatar.
Josè mi ha autorizzato a pubblicare il suo Portfolio che non credo sia in rete:


Questa la corrispondenza tra E.M. Mazzola e Josè Cornelio da Silva:

Caro Ettore
"La carrotte et le baton" vuol dire in francese che si usa la pazienza e la determinazione e io credo che in una societá pigra sia necessaria la bontá francescana e qualche volta il pugno sul tavolo!
Ti prego di comunicare il mio commento al caro Pietro Pagliardini. Ammiro veramente la vostra Bontá e Nobiltá, e sono sicuro che riuscirete pazientemente a risvegliare i pigri sensi, almeno dei più onesti. Ma il trattamento, per sfortuna, non potrà essere lo stesso per tutti e a volte una parola piú forte o un’idea più provocatoria, può essere efficace.
Mi rendo conto ogni giorno di piú che una formazione culturale più ampia ha l'effetto di una bussola nei confronti del paesaggio desertico di oggi. Questo non vale soltanto per l'architettura ma per tutta l'attivitá umana. Siamo ridotti a guidare le nostre vite ad una velocità e ad un ritmo disegnati per non lasciare pensare, facendo in modo che le scelte siano sempre incompiute e deboli. Il futuro diventa strutturalmente insostenibile perche non riflette un pensiero compiuto e finito, ma una occasionale esclamazione!

Nel progetto di Gubbio, tutto viene pensato e curato con il progetto dei più piccoli dettagli, rispettando la tradizione edilizia, conciliando mirabilmente la materia con il simbolo.
La "Casa della Musica" di Porto è invece un disastro insostenibile sotto ogni aspetto, un inconfessabile, mostruoso errore della mediocritá, che non riesce a giustificare gli spaventosi costi con i debolissimi risultati. Ma l'onestá di pensiero e anche una linea guida, non credo che siano gli elementi forti di questi tempi di pigra vanità, assecondata sempre con i soldi dei poveri contribuenti degli stati, ormai falliti per il capriccio degli illuminati!!!!
Mi auguro che il messaggio meriti l'attenzione dei media, perché c'e altro nell’uomo al di là di quello che mangia....quando si dimentica chi siamo e quale sarebbe la nostra strada, pur tradendo la nostra genetica, si finisce molto male con la faccia distrutta e forse senza i denti....
Speriamo che agli "anni della follia" non seguano gli “anni della distruzione bellica”, dato che abbiamo costruito un mondo che ormai sembra voler distruggere a ogni costo
 Un forte abbraccio
Josè


Caro Josè,
grazie per queste tue ulteriori splendide considerazioni.
Visto che mi autorizzi, le giro volentieri (insieme alle altre) al caro Pietro Pagliardini che ci legge in copia.
Ettore


Ringrazio Josè per la sua bella lettera che mostra, oltre che gentilezza nei miei confronti, una visione del mondo non limitata all’architettura ma che si allarga agli accadimenti che travagliano l’Europa e i nostri rispettivi paesi in particolare.
Mi auguro di incontralo un giorno avendo lasciato questi problemi alle nostre spalle.
Pietro

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18 giugno 2012

KOOLHAAS L'IMMOBILISTA

Le città cambiano ed è impossibile arrestare il processo in quanto la città è un organismo e come tale nel tempo, inevitabilmente, cambia”. Farei mia questa frase, la sposerei come si dice, se non fosse uscita dalla bocca e dalla mente di Rem Koolhaas , e allora è necessario ricorrere al pregiudizio in base al quale le parole non hanno sempre un significato oggettivo ma assumono significati diversi in base a chi le pronuncia. E’ un fenomeno abbastanza noto in politica che puntualmente si ripete.

Analizziamo la città-organismo, nella versione di Koolhaas. Questi si appella alla città come organismo per giustificare il suo progetto al Fondego dei Tedeschi a Venezia, accusando implicitamente gli oppositori di quel progetto di essere immobilisti e conservatori. Artificio retorico molto abile ed efficace perché utilizza un argomento proprio della tradizione per far passare l’idea di un progetto che invece la nega.
Mossa doppiamente abile, in quanto la sua metafora fa ricorso ad un attributo che effettivamente un organismo vivente possiede - e la città con i suoi edifici è un organismo vivente - vale a dire quello della “crescita”, facendo però ben attenzione a tacere l’altro fondamentale attributo, cioè quello del “modo” in cui ogni organismo cresce.

La natura ha previsto determinate regole per ogni specie, animale o vegetale, in base alle quali, ad esempio, un uomo nasce in un determinato modo e poi cresce formalmente uguale a se stesso ma con proporzioni e dettagli del tutto diversi. Poi ci sono specie che hanno un’altra storia, quali la metamorfosi, ma tutte hanno comunque un cambiamento prestabilito. Esistono poi variazioni e modificazioni significative così come esistono le malattie, anch’esse da considerare naturali ma tuttavia da debellare in quanto considerate “patologia” e non “fisiologia”.

Il progetto architettonico, e quindi il suo prodotto, l’edificio, appartiene in qualche misura alla natura in quanto opera dell’uomo, non come espressione di una legge, con tutte le sue eccezioni, non come prodotto di combinazioni genetiche in cui sta scritta, in buona misura, la storia futura di un organismo, bensì della sua volontà, del suo pensiero, dei suoi bisogni, della sua libertà di scelta come singolo individuo o come collettività. L’edificio quindi cresce, e deve crescere, anche nel senso di trasformarsi, al pari un organismo, per dare risposta a stimoli, necessità e scelte dell’uomo e della collettività.

Detto questo si potrebbe dunque dedurne che se la volontà dell’uomo, le condizioni esterne della società, la libertà di scelta, detto in una sola parola: la sua cultura è l’elemento caratterizzante la crescita di un edificio, è l’uomo stesso e non la natura direttamente a decidere, e questa scelta potrebbe essere dunque indifferentemente una crescita armonica e senza soluzione di continuità oppure una crescita dissonante e di rottura con ciò che esiste, questo in base a diverse scelte, culturali appunto, variabilida soggetto a soggetto. Ed effettivamente è così che avviene ed in maniera intensiva e diffusa da almeno un secolo, e Rem Koolhaas fa appello proprio a questo metodo di crescita dell’edificio di Venezia, che trova la sua ragion d’essere nella libera scelta del progettista, nella sua “sensibilità” e creatività, nel suo capriccio in fondo.

Prima della rottura del novecento non era questo il metodo di crescita degli edifici e della città. La città e gli edifici che la compongono crescevano con forme e metodi costruttivi determinati in massima parte dalla “coscienza spontanea”. Scrive Gianfranco Caniggia in Lettura dell’edilizia di base, Alinea Editrice:

Al confronto con altri comportamenti non antropici, nel campo della biologia o della struttura della materia, possono notarsi sorprendenti analogie. Riteniamo che ciò non debba stupire poiché l’uomo non è “altra cosa” dal mondo della natura, non ne sta al di fuori: il suo modo di organizzare l’ambiente è sostanzialmente fondato sui medesimi presupposti e sulle medesime leggi che governano i processi biologici unitamente ai processi di progressiva formazione e mutazione della materia. In sostanza , quando l’uomo agisce, si assume il carico di partecipare al sistema di globale del divenire di tutta la struttura del reale, quindi è intrinsecamente “naturale” anche quando attua le sue strutturazioni dotate di un alto grado di “artificialità”: lavora sulla materia che esiste, e non può che aderire, anche se non lo sa e non lo vuole, alle leggi formative della natura”.

Ecco, il punto è questo: Koolhaas non aderisce “alle leggi formative della natura”. O meglio, vi aderisce (nessuno può sfuggire a questa regola, anche se lo volesse), ma alle leggi del genere “malattie” o “virus” come li chiama Nikos Salìngaros, di qualcosa di estraneo o anomalo alla legge della crescita di un organismo.
Lo spiega bene proprio Nikos Salìngaros in Anti architettura e Demolizione, LEF, 2008:

Gli scienziati non sono ancora giunti ad un accordo definitivo sulla reale essenza della vita, tuttavia vi è un crescente consenso sulla natura dei processi che ne costituiscono il fondamento. Alcune delle caratteristiche salienti sono:
1) La vita è imperniata su connessioni e trame.
2) La vita è una “complessità organizzata”, una potente miscela di regole e contingenza, ordine e spontaneità.
3) La vita non può essere definita mediante equazioni matematiche tradizionali ceh pretendono di dare “una risposta”; ma è qualcosa di più che una rivelazione, paragonabile all’azione espletata dal programma di un computer.
4) La vita è un algoritmo genetico che crea e sviluppa complessità organizzata durante l’apprendimento.
5) E la vita non è soltanto complessa, ma – in modo ancora più misterioso, forse – è ordinata, mostrando una gamma di simmetrie davvero ampie
”.

Oggi è l’architetto, cioè un solo soggetto, che decide come la città deve crescere, ma prima era la comunità, come somma di singoli individui, a decidere. A questo proposito riporto, proprio su Venezia, un passo dalla relazione al concorso “Ridisegnare Venezia”, di G. Caniggia, messo gentilmente a disposizione in rete da Giancarlo Galassi:

La chiave della vitale complessità, e della duttilità del costruito veneziano sta nel suo processo formativo: nell’edilizia autenticamente di base e non in quella progettata. Non è lecito confondere: il “progetto” che “dietro i palazzi”, e, aggiungiamo, prima dei palazzi ha conformato Venezia è un grande evento collettivo, una illimitata schiera di “vite edilizie” che nello spazio di più di un millennio si è esercitata nella costruzione della città: progetto che è lontano dal piccolo numero di unità unitariamente progettate, quanto il progetto che ha fatto Roma è lontano dall’Esquilino o dal Testaccio, che ne sono una mera proiezione inficiata da intenzionalità devianti.
Di qui il nostro modo di intendere il “progetto come processo”, che vogliamo esercitare rivolgendoci alla rilettura critica della processualità di formazione-mutazione del costruito veneziano. Accettando il paradosso evidente, consistente nell’interpretare l’atto simultaneo del “progetto” per la Giudecca come prodotto di una successione storica di un costruito mutante, servendosi della “simulazione del processo” sia nell’assetto del tessuto che nel progressivo raggiungimento del costruito. E’ ciò che intendiamo col motto “progetto come processo”: attraverso la simulazione del processo cerchiamo una garanzia di connessione con un tessuto urbano derivato da un lungo processo di mutazioni che (nella misura in cui saremo riusciti a capire criticamente la successione di fasi e i caratteri determinanti e quindi nei limiti delle nostre capacità di approfondimento della lettura di ciò che è realmente avvenuto) chiamiamo a guidare il nostro progetto
”.

Koolhaas potrà dunque progettare come vuole, potrà fare tutti i gesti che desidera, la sua libertà di scelta glielo permette, ma di certo non solo non stabilirà alcuna “connessione” con ciò che esiste (e questo non lo desidera nemmeno) ma avrà determinato una crescita anomala e malata dell’organismo originario, avrà cioè prodotto una patologia.

Quindi non c’è immobilismo nella tradizione e nel rispetto dei caratteri originari dell’edificio. Non so se il Fondego sia adatto ad una attività commerciale, ma suppongo di sì - e forse è anche utile un riuso prima che l’edificio decada per abbandono – perché, citando ancora Caniggia:

Occorre infatti ricordare sempre che l’edilizia può avere una durata indefinita, e la sua corrispondenza ad esigenze attuali non deve impedire il progressivo adattamento al mutare delle condizioni civili”.

Non sarà immobilista invece l'atteggiamento di Koolhaas e di tutti quelli come lui che hanno una sorta di coazione a ripetere gli stessi schemi, gli stessi atteggiamenti ovunque e comunque, senza un minimo di lettura ed interpretazione del corpo vivente in cui operano?

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28 maggio 2012

L'ARCHITETTURA COME SALUTE PSICO-BIOLOGICA QUOTIDIANA

Linko questa intervista rilasciata dall'amico Stefano Serafini, introduttiva ad una programma Master di II livello PISM, Università di Roma Tre, Facoltà di Architettura.
Stefano Serafini è Direttore del settore ricerca di Biourbanistica, sito italiano della Società Internazionale di Biourbanistica e fa parte del Gruppo Salìngaros.
L'intervista è sotto forma di slides accompagnate dalla voce.


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18 marzo 2012

IL GREGOTTI SCATENATO

Sull’ultimo numero di Sette, magazine del Corriere della Sera, ci sono quattro pagine di un’intervista di Vittorio Zincone a Vittorio Gregotti. Il professore è letteralmente scatenato ed anche molto incisivo: la forma dell’intervista evidentemente gli si confà perchè lo costringe alla massima sintesi.
Inizia con una sparata contro l’abuso dei rendering: “Il nostro dovrebbe essere un lavoro di approssimazioni successive. Se, invece, basta un clic per realizzare un progetto…… si perde il rapporto tra la mente e la mano. Che è fondamentale”. A parte l’ingenuità del clic, difficile dargli torto sul fatto che l’uso esasperato dei software attuali per la progettazione tende a cambiare la sostanza del processo progettuale e del progetto stesso, per cui la tecnica va ben oltre l’aspetto meramente rappresentativo, trasformandosi da strumento per il progetto a essenza del progetto stesso, fino ad assumere, in architettura, il significato che nella comunicazione ha la famosa frase di Mc Luhan: “ Il medium è il messaggio”, vale a dire “Il software è il progetto”.

Venezia: Cannaregio di V.Gregotti - Foto di Steve Cadman

Inoltre, quel richiamo alla relazione tra “mente e mano” è il segno di una cultura antica in gran parte persa, a onor del vero già da prima dell’uso massivo del computer, dove il bel disegno, la bella rappresentazione grafica, certamente fondamentale, sembrava potesse prescindere dal contenuto.

Alla domanda su CityLife e sui tre grattacieli di Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind, è lapidario: “Abominevoli”.

Poi continua osservando come i nomi siano solo il pretesto per gli affari dei costruttori. Non è la scoperta dell’America per questo blog, tanto meno per l’amico Nikos Salìngaros che ci ha scritto un libro, No alle Archistar, LEF, Firenze, e ha imperversato, rara avis, su quotidiani e riviste italiane e straniere, però è pur sempre un’affermazione importante.

Gregotti dice poi di apprezzare Renzo Piano ma alla richiesta di un suo giudizio sull’Auditorium di Roma, la definisce “un’opera sfortunata….. che con Roma non c’entra nulla. Tra gli architetti contemporanei c’è un’ideologia diffusa per cui ci si deve ribellare alla storia e al contesto”.
Zincone domanda se un sindaco, un presidente di Regione o un premier non abbiano il diritto di voler lasciare il proprio segno in una città e Gregotti risponde: “Anche i Papi volevano lasciare un segno. Ma almeno si rivolgevano alla persone giuste. E poi non si può ragionare in termini di competizione: a chi lo fa più alto. Anche perché se no si finisce come Shangai, con 2.000 grattacieli tutti diversi e paradossalmente non più distinguibili. Quando manca una regola, l’eccezione non esiste”.

In questa settore dell’intervista, pur trasparendo una sorta di rimpianto per i tempi che furono, quelli cioè in cui Gregotti era il dominus della cultura urbanistica italiana, una sorte di santone chiamato ovunque, e quando aveva anche forti relazioni politiche, certamente determinate anche da una sua passione civile figlia del momento storico, tuttavia fa un richiamo alla responsabilità della politica che ha, anche secondo il mio parere, il diritto e il dovere che le deriva dal voto popolare, di fare scelte per la città di cui possano e debbano rispondere. Scelte che, con la paura della corruzione e del clientelismo, che peraltro continuano imperturbabili ad ogni legge (l’onestà non si ottiene per legge), sono affidate ormai al caso e comunque escono dall’ambito di responsabilità e di decisione dell’amministratore. Che sia concorso o che sia gara, resta tutto nell’ambito degli uffici e, a posteriori, l’amministratore deve necessariamente subire ma farsi vanto dell’opera realizzata. Potrebbe fare altrimenti? Una situazione a dir poco grottesca.

Notevoli le considerazioni sul rifiuto della storia da parte degli architetti contemporanei e sulla mancanza di regole (non di leggi, che straripano, ma di regole urbane) che determina la mancanza di qualità.

L’intervista è molto più lunga e non posso riassumerla tutta né trascriverla per ovvi motivi, ma non mancano giudizi su Ghery, su Meier, sul MAXXI - di cui dice: “Pura calligrafia. Senza senso. E con errori elementari. C’è più superficie di percorso che superficie espositiva” - sulla eco-sostenibilità - “è un mezzo, non un fine….. Il verde verticale non mi pare molto diverso dal balcone pieno di piante di mia zia” - e, verso la fine, investe necessariamente il suo progetto dello Zen, che Gregotti continua a difendere con le stesse argomentazioni di sempre. Sorvolo. Degna di nota invece la proposta urbanistica che segue la fatidica domanda sul quartiere Zen: “Ne hanno fatto un quartiere abbandonato, monoclasse e monofunzionale. Nelle città, invece, ogni quartiere dovrebbe avere una sua articolazione: un centro, i servizi, il verde pubblico, ecc….. Alle grandi città bisogna restituire la qualità diffusa”. Un esempio di qualità diffusa è “….San Gimignano o una qualsiasi città europea medievale. La qualità diffusa [è uscita dai progetti urbanistici] dagli anni Settanta. L’idea del “disegno urbano” ha lasciato il posto alla prevalenza dimostrativa dei singoli oggetti architettonici”.

Trascurando lo Zen e senza considerare un certo distacco tra teoria e prassi professionale, tra pensiero e opere, Gregotti con gli anni è migliorato parecchio: in genere è vero il contrario.

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9 novembre 2011

COMMISSIONE GRATTACIELI - ROMA


CONFERENZA STAMPA

La recente istituzione della Commissione "Grattacieli" voluta dal Sindaco Alemanno ha lasciato nello sconforto i romani, gli italiani e tutto coloro i quali, nel mondo, amano la Città Eterna. Il Gruppo Salìngaros, la Società Internazionale di Biourbanistica, la Commissione Urbanistica della Sezione Romana di Italia Nostra hanno dunque deciso di convocare questa conferenza stampa al fine di far riflettere il Primo Cittadino sulla inopportunità e pericolosità di questa scelta.

Quando:
Martedì 15 novembre, ore 11.00 - 12.30

Dove:
Sede Nazionale Italia Nostra
Viale Liegi, 33 tel. 068537271
Roma


Interventi:
Carlo Ripa di Meana
Ettore Maria Mazzola
Gabriele Tagliaventi
Nikos Salìngaros
Pietro Samperi


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1 novembre 2011

BIENNALE DI PADOVA: RIGENERAZIONE URBANA SOSTENIBILE?

Un post di Ettore Maria Mazzola cui segue un mio commento

Biennale di Padova – Rigenerazione Urbana Sostenibile … ma quale???
di Ettore Maria Mazzola

Negli ultimi anni, come “Gruppo Salìngaros” e “Società Internazionale di Biourbanistica”, abbiamo portato avanti progetti, pubblicazioni e conferenze incentrate sul tema della “Rigenerazione Urbana Sostenibile”. Nel tempo abbiamo registrato un enorme interesse da parte del grande pubblico e della classe politica, indipendentemente dagli schieramenti di destra o di sinistra. In particolare, grazie alla profondità ed attualità dei temi trattati, il sito web dell’International Society of Biourbanism ha registrato un altissimo numero di contatti e di richieste di iscrizione da tutte le parti d’Italia e dall’estero, ed abbiamo ricevuto moltissime richieste di pubblicazione di papers sul Journal of Biourbanism. Come è nella natura delle cose, purtroppo, ben presto abbiamo dovuto renderci conto che alcune persone e/o gruppi volessero affiliarsi al gruppo e adoperare il marchio dell’ISB per promuovere cose che tutto possono essere tranne che rappresentare progetti biofilici e sostenibili.

Oggi ci troviamo a registrare l’esistenza di una mostra/convegno che utilizza i temi da noi trattati, addirittura ricalcando il titolo di una delle nostre conferenze, dove però nessuno del gruppo è stato minimamente interpellato, né come relatore, né come espositore, né come membro del comitato scientifico.
Per aiutare a comprendere di cosa stiamo parlando, mi affido alle parole del sito che pubblicizza l’evento:

"Dal 27 Ottobre 2011 al 13 Febbraio 2012 presso il Palazzo della Ragione di Padova ci sarà l'esposizione della 5° mostra, non più incentrata sui progetti e opere di un architetto di fama internazionale, ma sul tema della rigenerazione urbana sostenibile, al fine di promuovere strategie di interventi su scala urbana e metropolitana, mirate a riqualificare quartieri degradati per gli aspetti edilizi, urbanistici, sociali e ambientali.
Gli architetti Michele De Lucchi -AMDL-, Andrea Boschetti e Alberto Francini -METROGRAMMA-, allestiranno l’esposizione di esperienze nazionali e internazionali di riqualificazione e rinnovo urbano, incentrate principalmente su tre livelli:
- le sfide della contemporaneità e dei suoi stili dell’abitare, del lavorare, del vivere, della multietnicità;
- la sostenibilità mediante l’uso di nuove tecnologie, compatibili con l’ambiente e che assicurino il risparmio delle risorse;
- l’integrazione e la continuità con il tessuto urbano esistente, la storia dei luoghi e i fatti identitari locali.
La Mostra sarà accompagnata da conferenze e tavole rotonde con architetti, urbanisti, economisti giuristi, esperti in sociologia urbana, amministratori di importanti città nazionali e internazionali oggetto di virtuosi interventi innovativi per approfondire, in modo interdisciplinare, i criteri di applicabilità di un approccio integrato alla riabilitazione urbana.
La Mostra a Palazzo della Ragione (allestimento di Michele De Lucchi, A. Boschetti e Alberto Francini) si incentra sul tema della rigenerazione urbana sostenibile prendendo lo spunto dalla comunicazione della Commissione Europea “Europa 2020”, una strategia per la città del futuro: sostenibile, intelligente e inclusiva ed inoltre dal Documento del Comitato economico e sociale europeo (CE.SE.) “Necessità di applicare un approccio integrato alla riabilitazione urbana
”.

Fin qui, tutto potrebbe sembrare giusto e legittimo, se nonché ecco la sorpresa … che sorpresa non è affatto. Le immagini ad inizio post rappresentano le opere in mostra organizzate per categorie come da programma.
Anche se è fuori dall’elenco ecco un’immagine di un altro progetto per Parigi sviluppato dagli stessi autori, progetto che lascia intendere come secondo questi personaggi potrebbe crescere il verde!

In pratica, piuttosto che confrontarsi con chi da anni pratica e studia scientificamente questo argomento, gli organizzatori hanno preferito limitarsi ad utilizzare lo slogan di un nostro convegno (nel quale vennero mostrati interventi sostenibili di rigenerazione urbana), per poter presentare ridicoli interventi le cui autoproclamate sostenibilità e intelligenza si limitano alla presenza di verde nei rendering (che non necessariamente verrà seguita dalla realtà dei fatti per ovvie ragioni di impossibilità di crescita), dimenticando del tutto che la sostenibilità non può tralasciare il miglioramento delle condizioni ambientali, economiche e sociali. Dimenticando gli studi scientifici che dimostrano come la geometria dello spazio possa avere degli effetti deleteri sull’organismo umano. Tralasciando del tutto la necessità di costruire a chilometri zero e con materiali naturali piuttosto che abbondare con cemento, metalli, vetri e altri prodotti industriali. L’architettura industriale, inclusa quella che viene spacciata per “bio”, piuttosto che risultare sostenibile, risulta una vera e propria macchina da guerra contro l’ambiente … ma gli sponsor delle riviste patinate e di eventi come questo non potranno mai ammettere che certe cose si sappiano! Appare quindi offensivo dell’intelligenza umana sostenere l'insostenibile e spendere del denaro per organizzare degli eventi tesi a prendere per i fondelli chi è a digiuno di architettura, urbanistica, ambiente, neurofisiologia, sociologia ed economia. Questi eventi infatti, hanno un unico obiettivo: far credere che questo genere di progetti debba essere quello da portare avanti!!ù

C’è stato chi, leggendo il mio commento all’evento pubblicato su FaceBook ha detto:

La ‘rigenerazione urbana sostenibile’ non è un’esclusiva di Salìngaros se ne parla almeno da un trentennio. Soprattutto l’architettura (urbana) non è un marchio (per fortuna). Rigenerazione e sostenibilità sono spesso temi pericolosi con derive ‘speculative’ (anche in chiave piccolo piccolo borghese antichista).

L’unica replica che certi commenti meritano è questa:
Una cosa è adoperare degli slogan e dei termini con lo scopo di attirare l'interesse delle persone, e un'altra è parlare con cognizione di causa di determinati argomenti.

Indipendentemente dalla visione dell’architettura e dell’urbanistica che ognuno di noi può avere, sarebbe ora che tutti ci indignassimo per certe prese per i fondelli ... a meno che non si voglia ritenere che i progetti elencati per le sezioni "Città Sostenibili" e "Città Intelligenti" siano davvero da ritenersi tali!

Le posizioni personali andrebbero messe da parte, sarebbe ora di combattere queste menzogne che tendono a promuovere sempre le stesse persone, persone il cui mito, (come per esempio nel caso di Perrault riportato in elenco) è stato creato a tavolino e non per meriti reali, ma solo per comodo dell’allora Ministro della Cultura francese. Se davvero pretendiamo che la gente ritorni ad amare l'architettura, dobbiamo fare in modo che si smetta di prenderla per i fondelli!!!

Commento al commento su Facebook
Rivendicare l'esclusiva sarebbe un errore ma sostenere che la maggior parte di quegli interventi mostrati nelle foto sono semplicemente nuovi interventi che con la rigenerazione urbana sostenibile niente hanno a che vedere è legittimo e corretto. Le parole sono pietre e hanno un significato ben preciso:
- Rigenerazione significa "ricostituzione di tessuto o organo leso"
- Urbana è aggettivo che significa "relativo alla città"
- Sostenibile significa purtroppo molte cose, troppe anzi, ma possiamo convenire tutti che è aggettivo da attribuire ad interventi di trasformazione del territorio che non gravino eccessivamente, e idealmente tendano a non gravare affatto, sulle risorse energetiche non rinnovabili, che non occupino nuovo territorio e che siano realizzati con l'uso di materiali ecologici.
Se messe tutte insieme queste parole formano un'espressione molto più rigorosa delle singole parti e non è difficile osservare che alcuni di quegli interventi sono semplici architetture isolate che certamente non "ricostituiscono un tessuto o un organo leso", cioè una parte di tessuto urbano degradato. Sono solo oggetti, neppure sostenibili che quindi non rigenerano un bel niente. Ma anche un parco, da solo, difficilmente rigenera un tessuto urbano, pur essendo urbano (ma non necessariamente sostenibile in quanto la presenza massiccia di opere costruite può esserne elemento discriminante in questo senso).
Purtroppo l'uso di slogan come richiamo pubblicitario legato alla moda del momento è divenuta un'abitudine che ha il grave difetto, tipico della comunicazione di questa epoca, di essere generica e imprecisa, di accondiscendere il gusto del momento, a prescindere dai reali contenuti, di offrire insomma in pasto al pubblico quello che si ritiene il pubblico gradisca di più con ciò ingenerando idee totalmente sbagliate.
Quanto all'espressione "in chiave piccolo piccolo borghese antichista" è veramente .....demodè e perfino buffa perché volendo apparire come molto "moderna" finisce invece per essere vecchia e direi meglio proprio ammuffita. Piccolo borghese si riferisce ad una divisione in classi sociali che non esistono più, nemmeno come atteggiamento mentale, e che non trovano riscontro o paragone possibile nella società contemporanea. Direi che è un'espressione "piccolo borghese" in senso metaforico perché probabilmente indotta da letture approssimative mal digerite o in qualche sezione di partito piena di ragnatele.
Un esempio: potrebbe forse essere classificato come atteggiamento piccolo borghese quello di coloro per i quali "il possesso (di un oggetto non essenziale come l'IPhone) è il segno di un’identità sociale e una sorta di compensazione (per quanto magra) in tempi che, in molti, non lasciano troppe speranze per il futuro"? [Fonte: la rivista Il Mulino]
Anche se l'atteggiamento ha qualche somiglianza di facciata, certamente tale classificazione sarebbe totalmente superficiale, fuorviante e sbagliata.

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9 settembre 2011

QUALE DENSIFICAZIONE?

Densificazione: parola brutta e anche vagamente sinistra: utilizziamola per comodità di linguaggio e di comuncazione. Vorrei rispondere più compiutamente ai commenti lasciati da robert al post precedente e premetto che: non sarò breve e se robert volesse replicare può non limitarsi ad un commento ma inviarmi un post da pubblicare.
robert afferma, e io non ne dubito, che l’idea di densificazione urbana è presente da almeno una decina d’anni in alcune università, e nel suo ultimo commento porta una serie di dati che lo confermano.
Con questa premessa giunge alla conclusione che noi che facciamo riferimento a Nikos Salìngaros non abbiamo inventato niente e che quanto affermato da Gabriele Tagliaventi nel suo articolo ha il merito, al massimo, di essere entrato nella notizia al momento giusto e che tutto sommato lui e noi del gruppo avremmo colto il vento e ci saremmo aggregati. Insomma, avremmo avuto fiuto.
Se anche si trattasse di fiuto lo riterrei già un merito: perché altri non l’hanno avuto, a maggior ragione se di questi argomenti vi è chi ne parla da almeno dieci anni e oltre e che adesso i tempi sembrano maturi?
Potremmo dire che chi ha introdotto questo principio nella legge urbanistica toscana ha avuto fiuto? Io direi più correttamente che è stato intelligente e lungimirante perché ha dato gambe ad una idea.
Ma robert sbaglia sul fiuto, perché si ferma solo alla superficie della densificazione urbana.

Cosa si intende per densificazione urbana?


Letteralmente è semplice: aumento della densità edilizia delle aree urbane, ottenuta andando a riempire vuoti di aree marginali ma urbanizzate, oppure demolendo e ricostruendo, oppure ristrutturando, con incentivi volumetrici per ottenere il doppio obiettivo di non “consumare “ nuovo suolo agricolo e di razionalizzare la vita all’interno della città in termini di servizi pubblici, di ogni genere, a partire dai trasporti.

Cercando nei vari documenti reperibili in rete, ho trovato molteplici varianti di significato, dalle più fantasiose, a quelle che trovano il sistema di infilarci i pannelli fotovoltaici o l'agricoltura urbana, a quelle che ritengono che sia l’altezza, cioè i grattacieli, l’elemento risolutore. Non v’è dubbio che il modello Manhattan sia molto denso. Il modello italiano invece si declina con grattacieli in mezzo al verde. Una novità già scoperta da un signore svizzero molto ordinato. L’ordine, comunque, diventa un merito rispetto alle proposte attuali che, prevalentemente, mettono insieme qualche birillo e, a posteriori, per giustificarne la presunta utilità ci appiccicano, tra le altre, l’idea di densificazione.

Ho trovato poi questo studio targato INU. Si osservi il risultato progettuale finale: qui non è cambiato niente rispetto a prima, il modello urbano è lo stesso, stecche perpendicolari alla strada, strada solo per le auto, mancanza di ogni caratteristica urbana, semplice ripetizione di modelli periferici, solo molto più densi. La chiamano densificazione insediativa. Già il termine insediativo, più ampio e generico di urbano, più burocratico, a mio avviso connota una certa indifferenza alla forma della città privilegiando l’azione dell’occupazione dello spazio e l’aspetto quantitativo. La proposta progettuale ne è una riprova.

Il punto è proprio questo: densificazione come mero dato numerico e funzionale è “vecchia” di qualche anno, come afferma robert, ma cosa c’è di nuovo, di utile, di positivo se la città resta qualitativamente come prima, e anzi replica e moltiplica i suoi difetti ma con molti metri cubi in più? Una densificazione urbanisticamente sbagliata diventa un’aggravante non un vantaggio.
Anche la speculazione edilizia più bieca è “densificazione”, e in questo caso si può affermare che per ritrovare l’origine dell’idea si può andare molto indietro nel tempo, direi alle insulae romane, che nonostante i divieti imperiali crescevano in altezza. Il condono consisteva nella tolleranza. Anche in questa densificazione, dunque, nihil sub sole novi.

In questo blog, invece, con il contributo dei vari amici, è stata sostenuta un’idea di densificazione urbana ben precisa, la cui necessità è giustificata al contempo dai due fattori fondamentali:
- quello economico-ecologico, cui fa riferimento robert, nel senso che più la città è compatta, minore è la necessità dell’utilizzo dell’auto, maggiore è la possibilità della pedonalizzazione e quindi il risparmio di risorse energetiche, migliore è l’organizzazione del trasporto pubblico;
- quello della forma della città, da perseguire mediante il disegno urbano, sul modello della città tradizionale europea: strade, isolati, cortine edilizie, piazze, pluralità di funzioni, zonizzazione verticale e quant’altro adesso non è il caso di ripetere.

Non è dato un lato della medaglia senza l’altro e direi che l’elemento prevalente è il secondo, la forma urbana, quella che consente, aldilà della situazione contingente di crisi economica, scelte economicamente virtuose, come scrive Tagliaventi nel suo articolo. La situazione di crisi è uno stimolo, direi un’occasione e una necessità in più per spingere in quella direzione, ma la forma compatta della città tradizionale ha un valore indipendente da quella e non ad essa subordinata.

Per restare a Tagliaventi, che sostiene quest’idea da sempre, portando spesso ad esempio il caso dello sprawl americano ed il retrofitting dei centri commerciali a veri quartieri urbani, mai ha egli tenuto separati i due aspetti del problema.
Ma vogliamo ampliare il discorso? Lèon e Rob Krier non hanno fatto altro che progettare e scrivere di città tradizionali, cioè dense, compatte, in cui il margine con la campagna è nettamente definito. Siamo agli antipodi dello sprawl. Altro che dieci anni, e altro che calcoli numerici!

City Pizza, di Léon Krier - La pizza completa (città tradizionale), la pizza per ingredienti (città dello zoning)
Il fatto è che, ragionando per assurdo, se non vi fosse stato quel taglio netto nella storia, quel grado zero dell’urbanistica teorizzato dall’avanguardia, se non fosse stata inventata, diffusa e propagandata fino a far credere che fosse impossibile immaginare una città moderna senza la zonizzazione, se non fosse stato abbandonato il disegno della città a vantaggio dei retini che indicano le varie funzioni parcellizzate, se l’unica forma di disegno, a scala di piani attuativi, non fosse stato quello della astratta geometria di tipo pittorico senza alcuna relazione con l’abitare dell’uomo nello spazio urbano, se non fosse stata vituperata e abbandonata la strada come elemento generatore della città, per sostituirla con edifici staccati e separati (ma dicevano tenuti assieme) da un improbabile verde comune, se non fosse stata abbandonata la città europea, ma solo adeguata ai nuovi standard di vita degli individui e della società, oggi non ci sarebbe stato bisogno di coniare questo brutto termine di densificazione, più adatto ad una confettura di marmellata industriale che ad un insediamento umano.

E’ un discorso per assurdo, l’ho già detto, perché con i se non si fa la storia, ma serve a far comprendere a robert la diversità esistente tra i 10 anni di studi sulla densificazione e quanto da noi sostenuto. E serve per sottolineare che c’è un uso buono ed un uso sbagliato di questo termine.
E noi ne abbiamo fatto un uso buono e lo abbiamo sostenuto con un’azione efficace, tenace e sfidando spesso anche il ludibrio di molti. Niente di eroico, per carità, specialmente per chi come me svolge la libera professione in ambito privato, ma chi è vissuto o ha provato a vivere nell’ambiente accademico credo ne abbia dovuto ingollare di rospi.

Quindi il fatto che vi sia chi l’ha studiato da dieci anni, e magari dal punto di vista sbagliato, e l’abbia tenuto in un cassetto da aprire per qualche convegno da mettere nel cv e presto dimenticato e non l’abbia diffuso presso gli studenti, non abbia insomma fatto scuola, loro che avrebbero potuto farla, per me ha valore "zero".
Lo studio della città non è lo studio delle particelle elementari della fisica, riservato al mondo accademico e della ricerca. Lo studio della città è destinato agli architetti, agli urbanisti e agli amministratori che devono diffonderlo e comunicarlo ai cittadini per renderlo operativo, a vantaggio di tutti.

La città è bene comune, cioè appartiene a tutti, la città è il luogo della politica (e tutti gli architetti lo sanno bene perché tutti i giorni si confrontano o si scontrano con la politica, cioè con l’arte di amministrare la polis, volenti o nolenti) e l’architettura è arte civica e le se le idee non si diffondono e si sostengono, specie in momenti in cui le città sono così in difficoltà, è come non averle prodotte.
Teoria e prassi in urbanistica camminano a braccetto e non possiamo immaginare l’una senza altra proprio per la specificità e direi unicità dell’urbanistica e dell’architettura rispetto ad altre discipline.
Una riprova elementare: qualsiasi quotidiano o foglio locale, oltre che di calcio, tratta sempre di urbanistica, lavori pubblici, traffico. Perché?

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9 maggio 2011

L'ORA DELLO ZEN

Dopo il successo dell'iniziativa palermitana sullo Zen, ripropongo un articolo dell'architetto Ciro Lomonte, organizzatore della conferenza tenuta da E.M. Mazzola, pubblicato sul numero 640 de Il Covile, naturalmente con la raffinata veste grafica che gli è propria.

L'ORA DELLO ZEN
Visitando nel 1983 lo ZEN 2 di Palermo, René Furer, docente di Gestaltungstheorie dell’ETH di Zurigo, si chiedeva se Vittorio Gregotti non fosse il migliore architetto italiano del momento. Più prudentemente, Ignacio Vicens y Hualde, professore di Proyectos Arquitectónicos della Universidad Politécnica di Madrid, nel corso di un’analoga visita del 1986 faceva notare che il linguaggio e i materiali adoperati erano più adatti a gente ricca, in quanto avrebbero comportato continue e costose opere di manutenzione.
Nella trasmissione Le Iene del 20 febbraio 2007 il progettista novarese, dopo avere dichiarato di considerare lo ZEN 2 il migliore esempio di edilizia popolare del mondo, declinava l’invito ad andarci ad abitare: «Io non faccio il proletario, faccio l’architetto». In effetti, se non si trattasse di una guerra tra poveri, le continue occupazioni — che hanno richiesto anche in questi giorni l’intervento delle forze dell’ordine — farebbero pensare che tutti ambiscano vivere allo ZEN 2.

Nel 1989 Edoardo Bennato pubblicò la canzone “ZEN” nell’album “Abbi dubbi”. Il ritornello ripeteva: «Zona Espansione Nord— abbreviazione: ZEN, / non c’è ragione no — non c’è ragione. / Quartiere di Palermo — città d’Italia, / non c’è ragione no — non c’è ragione». Bennato, che aveva studiato architettura, alludeva al razionalismo di Gregotti.
Ci troviamo di fronte ad un caso emblematico. Il sonno “nella” ragione genera mostri. Non è il sonno “della” ragione che produce degrado sociale, bensì il sonno nel carcere del razionalismo (abitare lì, dormire lì). La riprova è sotto gli occhi di tutti. Il vicino ZEN 1 è stato realizzato prima, con tipologie di edifici condominiali non belle ma neppure ingenuamente sperimentali. Ebbene, i proletari a cui vennero assegnate queste case (i loro figli, i loro nipoti) sono oggi persone civili, che non a caso evitano accuratamente di farsi identificare con gli abitanti del limitrofo campo di concentramento.
Ciò che desta ulteriore stupore è l’indifferenza del gruppo di progettazione dello ZEN 2 alle esperienze positive che si erano fatte a Palermo nei decenni precedenti. Nel 1956 Giuseppe Samonà aveva realizzato Borgo Ulivia, un esteso quartiere di edilizia popolare che si è mantenuto in buone condizioni senza bisogno di interventi successivi. Volendo cercare il pelo nell’uovo, Samonà non avrebbe dovuto usare rivestimenti in laterizio, estranei alla tradizione costruttiva siciliana, data l’abbondanza in loco di ottima pietra da taglio. Per gli abitanti però il vero limite di queste case è l’assenza di balconi, che essi hanno aggiunto abusivamente con una grande libertà compositiva, degna di un Piet Mondrian.

Andando a ritroso nel tempo, è molto istruttivo verificare la durata degli alloggi popolari realizzati fra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, confortevoli e gradevoli, anche dal punto di vista dell’integrazione urbanistica con gli edifici circostanti destinati ai ceti medi e alti. Non sono ghetti, come lo ZEN.
Di questi esempi forse il migliore è il Quartiere Matteotti, che oggi si presenta come un borgo residenziale di prim’ordine. In questo caso infatti sono stati curati dettagli costruttivi tradizionali, qualità degli interni e bellezza dei volumi, inseriti in piacevoli giardinetti.
Il nuovo assessore alla Casa della Regione Lazio si è riproposto di abbattere il Corviale, un famoso ecomostro di Roma, lungo un chilometro. Fiore all’occhiello dell’intellighenzia visionaria che ha prodotto edilizia popolare negli anni Settanta, il cosiddetto Serpentone è tristemente famoso, come gli altri esempi del genere, per l’imbarbarimento sociale e i fenomeni di violenza favoriti dagli stessi criteri progettuali utopistici. Il Gruppo italiano di Nikos A. Salìngaros ha presentato due soluzioni dettagliate per sostituire lo sterminato lager compatto con un quartiere a misura umana.

A questo punto c’è da chiedersi se anche a Palermo non sia giunta l’ora di demolire lo ZEN 2 e disegnare un borgo autosufficiente più ancorato nella storia della città e ben contestualizzato in quella zona naturalisticamente unica di Piana dei Colli. Il sindaco Cammarata aveva fatto molte promesse sulla riqualificazione di Palermo: per es. la pedonalizzazione del centro storico e notevoli miglioramenti delle periferie. Ma, aldilà di qualche parcheggio e del cantiere della metropolitana, non si è visto molto di più.
Qualcuno potrà obiettare che le casse del Comune sono vuote, eppure questo è un falso problema. Lo ZEN 2 è ancora lungi dall’essere completato ed è, come tutti i quartieri popolari del suo genere, un buco nero di fondi pubblici. La Regione ha assegnato di recente almeno 20 milioni di euro per lavori da effettuarsi su questo complesso di edilizia popolare. Sarebbe un errore utilizzare questi fondi per costruire altre insulae, seguendo il fallimentare progetto originario. Il Gruppo Salìngaros è pronto a fare delle proposte concrete anche per lo ZEN 2. Bisognerà studiare approfonditamente natura dei luoghi e storia urbanistica della Sicilia e delle sue tradizioni edilizie (conci di calcarenite, pietra di Billiemi, intonaco Livigny, coccio pesto, coppi siciliani, ecc.). Sarà un incentivo ulteriore alla rinascita dell’artigianato locale, composto da maestranze molto capaci che rischiano di sparire.
CIRO LOMONTE

La foto è di Guido Santoro

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6 maggio 2011

NOI PER LO ZEN

Il 5 maggio si è tenuta a Palermo la conferenza di Ettore Maria Mazzola sullo Zen, organizzata da Ciro Lomonte.
La conferenza ha ottenuto un successo straordinario, commentata e apprezzata da quotidiani e blog. Molti partecipanti e aderenti si sono autotassati per contribuire alle spese del progetto.
Chi volesse ulteriori notizie può cercare su facebook il Gruppo aperto "Noi per lo Zen", oppure seguire questo link:
http://www.facebook.com/home.php?sk=group_184784378235271&ap=1
Di seguito il testo dell'intervento di Ciro Lomonte:

Il colonialismo politico e finanziario è un cavallo di battaglia di Antonio Piraino.
A me preme sottolineare un’altra questione: la colonizzazione architettonica. Risulta paradossale che la Sicilia abbia prodotto un’arte con forti connotati locali, di grande originalità, mentre era governata da dominazioni straniere. Edoardo Caracciolo definiva “contaminazioni” alcune di queste peculiarità siciliane, ma in generale sono qualcosa di più: sono una serie di linguaggi nuovi e spesso unici.
Dopo essere stata “liberata” (si fa per dire) da Garibaldi e dai Savoia, all’Isola sono stati imposti modelli estranei alla sua tradizione e alla sua natura. Dal Piano Regolatore del 1877 in poi possiamo fare tanti esempi di colonialismo architettonico. Non dimentichiamo che il PRG del 1962 è stato il primo dell’Italia post bellica, sulla base della LUN del 1942. Lo zoning, i retini grafici che definivano le aree da costruire nella città, ritagliando indiscriminatamente, per es., i firriati delle ville di Piana dei Colli, sono un modello accademico che i professori della nostra Facoltà di Architettura hanno preso da fuori. Vito Ciancimino non ha fatto altro che sfruttarlo al meglio per i propri interessi.

Noi dobbiamo e possiamo reagire ad una colonizzazione di tal fatta, nell’urbanistica e nell’architettura. Anche per questo è consolante la crescita delle adesioni a questo nostro progetto: è – in embrione – la rivendicazione di una identità. Del resto il Gruppo Salingaros, di cui fa parte il prof. Mazzola (e di cui mi fregio di far parte anch’io), attribuisce un valore notevole al coinvolgimento dei non specialisti di architettura nella progettazione dei luoghi in cui andranno a vivere e sui quali pertanto hanno pieno diritto di esprimere un parere. Abbiamo persino ipotizzato che negli stessi concorsi di architettura la giuria sia composta dai cittadini che, a vario titolo, hanno un legame con quell’edificio o quel brano di città.
Palermo è una metropoli strana rispetto alle altre quattro italiane: è nata da un’immigrazione interna, proveniente dalle aree agricole della stessa Isola e indotta dalla creazione nel dopoguerra dell’apparato amministrativo della Regione Siciliana, a fronte di una consistente emigrazione delle migliori menti della città verso il nord Italia o verso l’estero. Le altre metropoli italiane non sono così: hanno potuto difendere la propria identità e trasmetterla ai nuovi arrivati perché hanno mantenuto un consistente nucleo di cittadini originari del luogo (penso in particolare a Milano e Torino, oltre che a Roma).
Palermo ha riscoperto il proprio centro storico negli anni Ottanta. Il recupero di quella parte della nostra città (di cui però non condivido la filosofia estetizzante, che ne ha favorito indirettamente la trasformazione in un mosaico di ristoranti e di pub) ha tuttavia generato un nuovo spirito di appartenenza.
Comprendere lo scempio delle periferie, visitarle (molti non le conoscono neppure), rivisitarle da un punto di vista strategico, è un ulteriore passo avanti in questo sviluppo di una coscienza dell’essere palermitani. È un segnale forte, è un fattore di speranza.
Un amico mi faceva notare che i palermitani hanno un cuore grande, si entusiasmano solo quando si lanciano in imprese audaci. Imprese che abbiano un carattere di esperienza universale. Altrimenti si immalinconiscono, come avviene tutte le volte che si chiudono nella gestione – per caste chiuse – di affari che denotano un deprecabile provincialismo. Di fatto in questa città si respira da tempo un disincanto, una sfiducia, una tristezza che è causa di intensa sofferenza. Questa è la ragione per cui rimango colpito dalla vostra partecipazione di oggi, dal contributo anche economico di molti, che mi fa dire:
"Sono orgoglioso di essere siciliano!"

Ciro Lomonte
(intervento al convegno del 5 maggio 2011)

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11 aprile 2011

DIVERSI PARERI SULLE VELE DI SCAMPIA

Di seguito alcune opinioni prese dal web sull'abbattimento delle Vele di Scampia. In rosso i miei appunti.


… Di fronte ai continui riferimenti al così detto “stravolgimento” del progetto, divenuto ormai una sorta di leggenda metropolitana ripetuta spesse per sentito dire, ritengo necessario ribadire, ancora una volta, che le modifiche apportate al progetto non c’entrano assolutamente nulla col processo di degrado che ha trasformato le Vele in un inferno abitativo.
Le cause sono ben altre e sono quelle che abbiamo esposte sulla stampa cittadina e, in particolare, nei miei libri "Dalle case collettive alle Unità urbane", Esi, 1996, e "Il Testimone", DenaroLibri, 2001……
Con il grande Riccardo Morandi chiamato a progettare le strutture antisismiche che dimostrarono tutta la loro solidità in occasione del terremoto del 23 novembre 1980…..(1)
Gerardo Mazziotti- Le Vele/2 – Un errore abbatterle, Repubblica 17 agosto 2006
1) E’ rassicurante cominciare con un sano benaltrismo, vero collante dell’unità nazionale, atteggiamento mentale utilissimo a svicolare su problemi e responsabilità. E’ anche interessante sapere che per dimostrare la bontà dell’esecuzione si porta a prova il successo il non essere crollate durante il terremoto. Come se tutte le case di Napoli fossero crollate e le Vele no!




Eppure, quello che per Saviano è un "simbolo marcio del delirio architettonico", per i docenti di storia dell'architettura, di restauro architettonico e per diversi sovrintendenti italiani è un "segno" da salvare, come lo sono stati anche altri segni del "male", come alcune architetture fasciste, e come lo sono il Corviale, lo Zen e molti altri quartieri ad alto tasso di degrado. E intendono opporsi a un nuovo abbattimento delle vele.(2)
Pierluigi Panza - Blog Fatto ad arte, 31 marzo2011
2) Ove si evidenzia che esistono due mondi incomunicabili: quello dei docenti e di diversi soprintendenti, cioè della cultura architettura ufficiale, e quello della gente. Ingiustificabile, dato che l’architettura è per la gente

Le Vele di Scampia non sono che un esempio fra molti di questa architettura inumana, totalitaria, tipica degli anni ’60 e ’70. Quando si scoprì che la thalidomidina induceva deformazioni nei feti umani, venne bandita dal mercato farmaceutico. Gli ecomostri invece continuano a ricevere l’appoggio fervente di un’intera classe di architetti alla moda, nonché di istituzioni che si vorrebbero responsabili della formazione di giovani professionisti. C’è più di un parallelo con quelle scuole di farmacologia dove s’insegnava che il Thalidomide era un buon medicamento contro la nausea provocata dalla gravidanza; ma quel crimine, con le conoscenze raggiunte, non lo si permette più. Perché allora tanto timore reverenziale, ancora, verso gli architetti famosi che promuovano gli ecomostri, e fanno finta che Corviale, Zen2, Vele e Tor Bella Monaca sono «bellissimi»? (3)
Nikos Salìngaros, Blog Fatto ad arte, 31 marzo 2011
3) Qui si narra dell’atteggiamento antiscientifico del mondo dell’architettura che rifiuta la verifica dell’errore. Prima hanno fatto gli esperimenti, non hanno funzionato, continuano a difendere l’errore. Condanna con le aggravanti specifiche.

Il portico, l'atrio, la scala, sono divenuti luoghi di pericolo, nuove carceri piranesiane, dove, nella penombra di ogni angolo, la microcriminalità può agire indisturbata.
È una cronaca amara e questo senza arrivare a scomodare i ceffi mascherati di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick.
Così molta gente prova rimpianto per i tempi passati nei quartieri del centro antico dove la vita, pure svolta in un basso o in un buio monolocale, certamente però avveniva in un tessuto sociale più omogeneo e compatto, ove le relazioni interpersonali si svolgevano in uno spazio prossemico noto e controllato.
Questa diffusa condizione di malessere e di ripulsa per il proprio ambiente di vita, generata da uno spazio che ha la capacità di modificare e determinare i comportamenti degli individui che ospita, genera a sua volta delinquenza.
Il fallimento dell'Unità di Abitazione di Marsiglia di Le Corbusier, rimasta prototipo, così come il fallimento delle Vele di Scampia rappresentano la disgregazione dell'ideologia e della politica dello zooning, della città considerata come insieme di funzioni separate anche se poste in luoghi vicini.
La città antica, invece, garantiva l'integrazione sociale ed economica, aggregando negli stessi luoghi realtà di estrazioni diverse, anche culturali, oltre che sociali ed economiche. (4)
Enrico Sicignano, "Costruire in Laterizio" n° 65-1998, ripreso da www.progettoscampia.net
4) Togliere le persone dai vicoli , dalla città, per cacciarli dentro una utopica città nella città è stata una deportazione di massa. Le Corbusier non l’ho citato io. Descrizione e commento molto pertinente.

«Io distinguerei due livelli - continua Gizzi - l'aspetto architettonico-progettuale, cioè l'interesse architettonico, e il degrado sociale. Anche il fatto che abbiano fatto da sfondo a pellicole cinematografiche vuol dire che segnano una presenza, alla stessa stregua dei palazzoni della ex Berlino Est che hanno fatto da fondale a molte scene dei film di Wim Wenders» (5).
Stefano Gizzi, Soprintendete Napoli - da La Stampa
5) Distinguere i livelli significa negare la relazione tra l’architettura e la sua utilitas. E significa anche indifferenza verso chi ci abita. Per il resto, no comment, perché già fatto nel precedente post.

Daniele Sanzone abita a cinquanta metri dalle Vele ed è il cantante degli A67, formazione di crossover rock che nei suoi testi parla di degrado, camorra e, appunto, di Vele.
«Quelle - spiega - sono la metafora del male. Chiedete a chi ci abita, a chi ha perso un figlio o un amico che cosa bisogna fare. Abbattere le Vele significherebbe dare un segnale a tutti, ma non basterebbe. Bisogna fare tanto per questo quartiere, dalle case al lavoro. Qui tra amianto e topi crescono bambini e non è più tollerabile».(6)
Daniele Sanzone, da La Stampa
6) L’opposto del benaltrismo: si riconosce il problema, si trova la soluzione primaria e si allarga poi il discorso alla complessità degli altri numerosi problemi correlati.

E non è assolutamente vero che, per l'esigenza di ridurne i costi, la realizzazione delle Vele è cosa ben diversa dal progetto Di Salvo. E’ vero invece che, mentre erano ancora in costruzione, senza acqua, luce e fogne, la giunta Valenzi (nella quale probabilmente c'era già Siola in qualità di assessore) assegnò gran parte degli alloggi delle Vele ai terremotati del novembre '80 e ai senzatetto storici. Ed è vero, perché da me documentato, che la trasformazione del complesso in un inferno abitativo (direi di più: in una corte dei miracoli) è da contestare, non già a carenze progettuali o esecutive, ma alle varie amministrazioni comunali che l'hanno abbandonato a ogni forma di manomissioni (verande, edicole votive, box, eccetera), di trasformazioni (devastante la chiusura dei piani porticati con alloggi abusivi) e di vandalismi (le trombe degli ascensori sono state per anni utilizzate come depositi di rifiuti).(7)
Gerardo Mazziotti, Il denaro,it
7) Qui sia afferma che progetto ed esecuzione dello stesso non sono il problema. Il problema è l’abbandono da parte delle amministrazioni comunali che avrebbero dovuto accompagnare gli edifici come un genitore fa come i propri figli piccoli. Avrebbe dovuto, in sostanza, insegnare ad abitare.

“Ananke” è parola greca che vuol dire destino; quello delle Vele è stato fermato dal soprintendente Stefano Gizzi con la proposta di salvaguardia mediante dichiarazione di interesse culturale. Non un vincolo che mantenga in eterno la condizione attuale, bensì una leva per indurre un corretto restauro e il riutilizzo, nel rispetto di quello che aveva progettato l’architetto Franz Di Salvo, considerato uno dei migliori interpreti della lezione di Le Corbusier e di Kenzo Tange (le grandi “unità di abitazione” piccole città autosufficienti in tema di servizi), ossia qualcosa di ben diverso da ciò che fu realizzato fra il 1962 e il 1975, al punto da indurlo a ritirare la sua firma dall’opera. Le sue sette Vele prevedevano in tutto 6.500 vani, ma l’intero villaggio doveva essere dotato di scuole, teatri, cinema, centri sociali, spazi per il gioco e lo sport: nulla di tutto ciò fu realizzato né in contemporanea né dopo, e vi si rinunciò del tutto quando il terremoto del 23 novembre 1980 scatenò l’ennesima ondata di occupazioni abusive. Già l’insulso sistema di punteggi per l’assegnazione delle Case Popolari comportava il concentramento di quanto di più socialmente degradato; l’aggiunta dell’abusivismo, l’assenza di servizi elementari, provocarono da subito una miscela infernale, condita anche dal rapido degradarsi dei pessimi materiali: condense diffuse di umidità nonostante l’esposizione quasi totale al sole delle abitazioni, impermeabilizzazione carente, ascensori costantemente guasti nonostante altezze di 14 piani.(8)
l’Altro quotidiano.it – Iniziativa “Salviamo le Vele”
8) Qui si afferma esattamente l’opposto del punto 7. Evidentemente tutte le ragioni sono buone pur di assolvere il progetto

“Pessime da abitare ma di notevole qualità…stupenda opera di architettura” dichiara l’ex soprintendente Mario de Cunzo. (9)
Eleonora Putillo, L'altro quotidiano.it
9) Mario de Cunzo: precedente Soprintendente di Napoli. Vedi punto 5. Bisogna riconoscere una notevole coerenza ai Soprintendenti!!

E’ stato il progettista de “Le Vele” di Secondigliano coadiuvato da un pool di valenti tecnici - uno per tutti il noto Riccardo Morandi che ha studiato le strutture portanti - realizzando quell’interessante complesso demolito di recente senza scrupoli con l’assurda motivazione che l’Architetto era addirittura responsabile del degrado sociale e culturale in cui verte tutta la zona di Secondigliano. (10)
Alessandro Castagnaro, PresS/Tiletter
10) Filone: la colpa è sempre degli altri e io mi tappo gli occhi per non vedere

Quasi d' obbligo a questo punto la scelta di Garrone e Saviano e così le Vele per tre mesi sono diventate la Cinecittà della finzione camorristica. Da antologia, le scene della piscina sul terrazzo di una Vela e del ragazzo che corre nello spettrale corridoio al piano terra. Franz di Salvo e l' architettura napoletana avrebbero volentieri rinunziato a questo supplemento di notorietà. Sperano solo in un paradosso: che il prevedibile successo mondiale del film induca a conservare e restaurare almeno una Vela, se non come testimonianza di un progetto interessante e coraggioso, almeno come location d' elezione di un film di successo. (11)
Pasquale Belfiore, repubblica 22 maggio 2008
11) Io direi che gli abitanti avrebbero fatto volentieri a meno della pubblicità. Ma evidentemente sono un problema secondario.

In un primo momento il Comune intende localizzare in una delle Vele la sede della Protezione Civile e dei Vigili del Fuoco. Ma successivamente si decide così come chiesto dai comitati di abbattere tutte le vele. Comincia la lotta per la riqualificazione.(12)
Da una slide del filmato "Comitato di Lotta Vele Scampia"- http://www.youtube.com/watch?v=BNLAi1odkPE
12) C’è poco da osservare: gli abitanti ne vogliono l’abbattimento. Ci deve pur essere qualche ragione!

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2 dicembre 2010

ROMA WORKSHOP: PRIME IMPRESSIONI

Di ritorno dal workshop sulle periferie romane “Ritorno alla città”, organizzato dal Comune di Roma, una prima impressione, rimandando considerazioni più articolate a dopo la conclusione dell’incontro del 2 dicembre.
Oggi, sotto la guida del responsabile del Dipartimento del Dipartimento per la riqualificazione delle periferie di Roma, prof. arch. Francesco Coccia, sono intervenuti, Lèon Krier, Paolo Portoghesi, Marco Romano, Franco Purini, Galina Tachieva, Cristiano Rosponi e Nikos Salìngaros, chi presentando lo studio di una o più aree, chi, come Galina Tachieva, dello studo DPZ (Duany, Plater-Zyberk) illustrando il suo libro, Sprawl Repair Manual, una sorta di “libretto d’istruzioni” su come intervenire per riparare ai guasti dello sprawl negli USA, con una casistica ampia e varia di situazioni e soluzioni.

Le parole chiave, i tags, si direbbe nel gergo di Internet, dettate dagli organizzatori erano: densificazione, microchirurgia urbanistica, pedonalità, centralità alle periferie, e sono state espresse in maniera molto diversa da ciascuno degli intervenuti, sia come livello di approfondimento, sia come qualità delle presentazioni, sia come scelta della scala di intervento; da Lèon Krier che ha affrontato tutta la gamma possibile, da quella territoriale della rete infrastrutturale fino allo studio abbastanza dettagliato degli isolati e delle tipologie edilizie, a quello quasi esclusivamente architettonico di Portoghesi e Purini; ma in tutti, ad eccezione di Purini, almeno così a me è sembrato, c’è stata la consapevolezza che una pagina sembra essersi finalmente chiusa, quella del gesto architettonico totalmente estraneo al contesto e al tessuto esistente, della zonizzazione selvaggia, della segregazione della periferia, e un’altra se ne sta aprendo, quella in cui la città deve essere interpretata come un unico organismo e, in quanto tale, non possono esservi parti sane e parti malate.
I tags che escono invece dalle varie soluzioni sono: la strada, come protagonista assoluta del processo di risanamento, intesa come vera e propria arteria vitale che consenta il massimo di permeabilità, di relazioni e di comunicazione tra le varie parti; e poi l’isolato, studiato in modi diversi e con diversi rapporti tra pubblico e privato; le piazze come luoghi speciali e nodali risultanti dalle connessioni stradali e non come spazi astratti collocati casualmente secondo la volontà del progettista piuttosto che seguendo la “vena” della rete stradale.
Esprimendo un giudizio sintetico e necessariamente affrettato, oggi ho colto molto realismo e un atteggiamento di grande attenzione alla lettura di tutte le aree già fortemente urbanizzate oggetto di studio.
Una volta tanto l’abusato termine riqualificazione ha trovato un riscontro nei progetti e, guarda caso, proprio l’unica volta che non compare mai nei manifesti dell’incontro.
Una volta tanto non c’è stata la rappresentazione logora del pensiero unico, ma posizioni diverse si sono potute confrontare.
E oggi sarà la volta di Peter Calthorpe, Lucien Kroll, Francesco Cellini e altri.
A margine una nota sul luogo dell’incontro, l’Ara Pacis. Mi domando chi abbia avuto la geniale idea di realizzare quella barriera bianca che separa completamente chiese e Mausoleo di Augusto dal fiume per quattro stanzette in più.
Possibile che a Roma non ci fosse un altro posto dove fare una sala conferenze e uno spazio mostra?


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31 ottobre 2010

RIGENERARE LE PERIFERIE URBANE

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22 ottobre 2010

DALLA PERIFERIA SUBURBANA ALLA ECO-CITTÀ GIARDINO



AVOE
A VISION OF EUROPE
Università degli Studi di Ferrara
Facoltà di Ingegneria Via Saragat 1.

Seminario sulla Trasformazione delle Periferie in Eco-Città Giardino Casi di Studio Europei e Statunitensi
DALLA PERIFERIA SUBURBANA ALLA ECO-CITTÀ GIARDINO.

RICOSTRUIRE CORVIALE: 500 MILIONI DI EURO DI GUADAGNO PER L’ENTE PUBBLICO, 300 MILIONI PER IL PRIVATO E HOUSING SOCIALE PER 6500 PERSONE. RILANCIO DELL’ECONOMIA ITALIANA IN 4 ANNI

Due progetti di abbattimento dell’ecomostro e ricostruzione del Nuovo Corviale di Roma, pronti e completi di piano di fattibilità, presentati oggi all’Università di Ferrara, facoltà di Ingegneria. Nel corso dell’evento DALLA PERIFERIA SUBURBANA ALLA ECO CITTÀ GIARDINO (organizzato da AVOE, Università di Ferrara e Gruppo Salìngaros), i progetti degli architetti Ettore M. Mazzola e Gabriele Tagliaventi offrono una prospettiva innovativa all’economia nazionale e accendono il dibattito politico, alla presenza di vari amministratori pubblici.

I progetti (una piccola ecocittà giardino da 20000 abitanti nel progetto di Tagliaventi e un borgo tradizionale ispirato a S. Saba da 8500 abitanti quello di Mazzola), sono stati presentati con un solido corredo di dati numerici accuratamente documentati che dimostrano non solo la fattibilità economica ma la redditività altissima per le casse dell’ente pubblico e dei privati coinvolti nell’operazione, oltre alla possibilità di assegnare gratuitamente dei nuovi alloggi ai legittimi assegnatari dell’edilizia popolare.

Questo può essere l’inizio di una nuova politica urbanistica italiana, con allacci al mutuo sociale, e alla funzione di azienda dell’ATER” ha dichiarato l’on. Teodoro Buontempo, assessore alla casa della Regione Lazio. Gli fa eco Stefano Serafini, direttore della Società Internazionale di Biourbanistica: “Realizzare questo progetto pilota avvierebbe la soluzione del problema delle periferie italiane, restituirebbe attrattiva, vivibilità e dignità politica al nostro Paese”. “Su questa linea si sta muovendo anche il Comune di San Lazzaro di Savena”, dice l’assessore all’urbanistica di Bologna Leonardo Schippa.

In sintesi questi i dati secondo le due ipotesi di fattibilità economica proposte, da realizzarsi in 4 anni:
- Spesa abbattimento Corviale, 9 milioni di euro;
- Realizzazione di alloggi per nuovi residenti (tra 2000 e 13000), con ricavo tra 50 e 300 milioni di euro;
- Realizzazione di spazi commerciali con ricavo 180 milioni di euro;
- Profitto complessivo del pubblico da 250 a 520 milioni;
- Profitto complessivo dei privati coinvolti da 100 a 300 milioni di euro;
- Realizzazione autofinanziata di housing sociale per 6500 abitanti autofinanziata;
- Realizzazione autofinanziata di un parco, servizi pubblici e attività socializzanti;
- Sviluppo dell’occupazione e dell’artigianato edile della piccola e media imprenditoria locale, con ricadute positive nel settore del restauro del patrimonio architettonico.

A Vision of Europe
Gruppo Salingaros
International Society of Biourbanism
Laboratorio Civicarch Università di Ferrara

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26 settembre 2010

STRADE - 6°: KEVIN LYNCH

E' la volta di Kevin Lynch e il suo L'immagine della città, Marsilio, 1960.
Il capitolo di seguito riportato è il risultato di una serie interviste fatte in diverse città americane, in cui a cittadini comuni venivano poste domande per comprendere i meccanismi che producono la percezione della città. Pragmatismo e impronta scientifica pervadono tutto il testo, e la parte che segue non fa eccezione, ed è straordinario osservare quanti punti di vicinanza vi siano con autori molto diversi tra loro: Gianfranco Caniggia e Nikos Salìngaros prima di tutti, di cui seguiranno i post.
Altrettanto significativo è rileggere il post di Ettore Maria Mazzola per verificarne affinità e differenze.
Del libro in inglese, che è ormai un classico, esiste la pubblicazione di ampi stralci su Google libri.



KEVIN LYNCH (1918-1984)


Marsilio, 1960


Il disegno dei percorsi
Elevare la figurabilità dell’ambiente urbano significa facilitare la sua identificazione visiva e la sua strutturazione. Gli elementi precedentemente isolati – percorsi, margini, riferimenti, nodi e regioni – sono i blocchi di costruzione nel processo di edificare strutture ferme e differenziate alla scala urbana. Quali suggerimenti possiamo trarre dal materiale precedente sulle caratteristiche che tali elementi potrebbero avere in un ambiente veramente figurabile?

Il percorsi, la trama di linee di movimento abituale o potenziale attraverso il complesso urbano, sono lo strumento più potente per ordinare l’insieme. Le linee chiave dovrebbero possedere qualche attributo singolare, che le individua rispetto ai canali circostanti: una concentrazione di qualche uso o attività special sui loro lati, una qualità spaziale caratteristica, una particolare grana di pavimentazione o di facciata, uno specifico schema di illuminazione, un complesso unico di colori e rumori, un dettaglio tipico o un sistema di alberature. Washington Street può essere conosciuta per l’intensità dei suoi commerci e per il suo spazio e feritoia, Commonwealth Avenue, per la sua fila centrale di alberi allineati.
Questi attributi dovrebbero venir impiegati in modo da conferire continuità al percorso. Se uno o più di essi è coerentemente adoperato in tutta la lunghezza, allora il percorso può essere figurato come un elemento continuo, unificato. Può trattarsi di una alberatura a viale, di un colore o di una grana singolare nella pavimentazione, o della classica continuità delle facciate marginali. La regolarità può essere ritmica, una ripetizione di spazi aperti, monumenti o negozi d’angolo. La stessa concentrazione di traffico abituale lungo un percorso, come avviene con una linea di trasporti pubblici, rinforzerà questa immagine familiare e continua.
Questo conduce a quella che potremmo chiamare una gerarchia visiva delle strade e delle vie, analoga alla consueta raccomandazione di una gerarchia funzionale: un’individuazione sensibile dei canali chiave, e la loro unificazione come elementi percettivi continui. Questo è il telaio per l’immagine urbana.
La linea di movimento dovrebbe possedere chiarezza nella direzione. Il meccanismo guida del cervello umano è sconcertato da una lunga successione di svolte o da curve graduali che alla fine producono cambiamenti direzionali di maggiore entità. Le svolte continue delle calli veneziane o delle strade di uno dei romantici piani dell’Olmsted, o la curvatura graduale di Atlantic Avenue a Boston, confondono subito osservatori che non siano già smaliziati. Un percorso diritto ha naturalmente una chiara direzione , ma lo stesso può dirsi di uno che ha svolte ben definite, prossime ai 90°, o di un’altra che abbia molti lievi ondeggiamenti, ma che non perda mai la sua direzione fondamentale.
Gli osservatori sembrano conferire ai percorsi un senso di collimazione o di irreversibilità direzionale e sembrano identificare una strada attraverso la destinazione cui essa è orientata. In effetti una strada è percepita come una cosa che va verso qualcosa. Il percorso dovrebbe sostenere percettivamente questa sensazione attraverso dei punti terminali forti, e attraverso un gradiente o una differenziazione direzionale, in modo da ottenere un senso di progressione e da diversificare le opposte direzioni. Un gradiente comune è quello della pendenza del terreno, che di solito è riflesso nelle indicazione date al passante di andar “su” o “giù” per la strada. Ma ve ne sono molti altri. Un progressivo infittirsi di insegne, negozi o pedoni può contrassegnare l’avvicinamento di un nodo commerciale; può anche esistere un gradiente nel colore o nella densità dell’alberatura; un accorciarsi della lunghezza degli isolati o una strozzatura dello spazio possono segnalare la prossimità del centro cittadino. Pure le asimmetrie possono venire impiegate. Può darsi che uno possa procedere “tenendo il parco sulla sinistra”, o “muovendo verso la cupola dorata”. Si possono usare frecce segnaletiche, o tutte le superfici disposte in una determinata direzione potrebbero avere colori convenzionali. Tutti questi artifizi fanno del percorso un elemento orientato, al quale altri possono venir riferiti. Non vi è alcun pericolo di commettere un errore di direzione.
Se le posizioni lungo il percorso possono venir differenziate in qualche modo misurabile, la linea sarà allora non soltanto orientata, ma anche modulata. La normale numerazione anagrafica è una tecnica siffatta. Un sistema meno astratto è quello di contrassegnare un punto identificabile lungo la linea cosicché altri luoghi possono venir pensati come “prima” e “dopo”. Parecchi punti di controllo migliorano la definizione. Oppure un attributo, (come l’ampiezza del corridoio) può avere una modulazione di gradiente a saggio variabile, cosicché la stessa variazione assume una forma misurabile. In tal modo uno potrebbe dire che un certo osto è “giusto prima che la strada si restringa assai rapidamente” o “sul fianco della collina prima della salita finale”. Chi si muove può sentire non soltanto “sto procedendo nella direzione giusta”, ma anche “vi sono quasi arrivato”. Quando il tragitto contiene una simile serie di eventi distinti, il raggiungimento ed il sorpasso di un obiettivo intermedio dopo l’altro, l’itinerario stesso acquista significato e diviene in se stesso un’esperienza.
Gli osservatori sono colpiti persino nella memoria, da una evidente qualità “cinestetica” di un percorso, dal senso di movimento nel suo sviluppo: svolte, salite, discese. Ciò è particolarmente vero quando il percorso è compiuto a velocità elevata. Una grande curva in discesa, che avvicina il centro di una città, può produrre una immagine indimenticabile. Sensazioni tattili ed inerziali partecipano in questa percezione d movimento, ma la visone sembra essere predominante. Lungo il percorso possono esser disposti oggetti per acuire la parallassi o prospettiva del movimento, o può essere reso visibile in precedenza il futuro andamento del percorso. La conformazione dinamica della linea di movimento potrà conferire ad essa identità e produrre nel tempo una esperienza continuativa.
Ogni esposizione visiva del percorso o del suo obiettivo, ne rafforza l’immagine. Ciò può essere fatto da un grande ponte, un grande viale assiale, un profilo concavo o la silhouette lontana della destinazione finale. La presenza del percorso può essere resa evidente da grandi riferimenti situati lungo di esso o da altri indizi. La vitale linea di circolazione diviene palpabile ai nostri occhi, e può divenire il simbolo di una fondamentale attività urbana. Di converso, se il percorso rivela al viaggiatore la presenza di altri elementi della città, l’esperienza può venire acuita: se esso li penetra o li tocca tangenzialmente, se offre indizi e simboli di ciò che viene sorpassato. Una linea sotterranea, ad esempio, anziché essere seppellita viva, potrebbe improvvisamente attraversare la stessa zona dei negozi, o la sua stazione potrebbe improvvisamente richiamare nella forma la natura della città che sta sopra. Il percorso potrebbe essere conformato in modo da rendere evidente ai sensi il tragitto medesimo: corsie divise, rampe e spirali consentirebbero al traffico di indulgere nelal contemplazione di se stesso. Queste sono tutte tecniche per arricchire l’ambito visivo del viaggiatore.
Di regola una città è strutturata secondo un organizzato sistema di percorsi. In questo sistema il punto strategico è l’incrocio, il luogo di connessione e di decisione per chi è in movimento. Se questo può essere chiaramente visualizzato, se l’incrocio produce di per se stesso una immagine vivida, e se la giacitura di due percorsi l’uno rispetto all’altro è chiaramente espressa, in tal caso l’osservatore può costruire una struttura soddisfacente ……
Una congiunzione di più di due percorsi è normalmente difficile da concepire. Una struttura di percorsi deve avere una certa semplicità di forma per produrre un’immagine chiara. La semplicità è richiesta in senso topologico piuttosto che geometrico, sicché un incrocio regolare, ma ad angoli approssimativamente retti, è preferibile ad un trivio rigorosamente disegnato. Esempi di simili semplici strutture sono sistemi paralleli o a fuso; croci ad una, a due e a tre sbarre; rettangoli; o pochi assi riuniti insieme.
I percorsi possono venire anche figurati, non come lo schema specifico di certi elementi singoli, ma piuttosto come una rete, che, senza identificarne specialmente alcuno, spiega le relazioni tipiche tra tutti i percorsi del sistema. Questa condizione presuppone una trama che abbia qualche coerenza, sia essa di direzione, di interrelazione topologica, o di interspazi. Una scacchiera pura, combina le tre, ma invarianza direzionale o topologica possono di per se stesse risultare piuttosto efficaci. L’immagine si precisa se tutti i percorsi che corrono in un unico senso topologico, o secondo una stessa direttrice geografica, sono visibilmente differenziati dagli altri. A ciò si deve l’efficace distinzione tra le streets e le avenues di Manhattan. Colori, alberatura, o particolari possono servire egualmente bene. Nomenclatura, gradienti di ampiezza, di topografia, o di dettagli, differenziazione in seno alla trama possono tutti dare alla griglia un senso progressivo e persino un senso modulare.
Vi è un ultimo modo di organizzare un percorso o un sistema di percorsi, che acquisterà importanza crescente in un mondo di grandi distanze e velocità. Con analogia musicale, esso potrebbe essere dichiarato “melodico”. Gli eventi e le caratteristiche lungo un percorso – riferimenti, variazioni di spazio, sensazioni dinamiche – potrebbero essere organizzati come una linea melodica, percepita e figurata come una forma di cui si fa l’esperienza in un congruo intervallo di tempo. Poiché l’immagine sarebbe quella di una melodia completa, anziché di una serie di punti separati, quell’immagine potrebbe presumibilmente essere più estesa, e tuttavia meno esigente. La forma potrebbe essere la classica sequenza introduzione-sviluppo-culmine-conclusione, o potrebbe assumere aspetti più raffinati, come quelle che evitano la conclusione finale. L’arrivo a San Francisco attraverso la baia suggerisce questo tipo di organizzazione melodica. La tecnica offre un ricco campo di applicazione e sperimentazione del disegno.


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