Nel suo bel romanzo Canale Mussolini, Mondadori, 2010, Antonio Pennacchi scrive a proposito della bonifica dell’Agro Pontino:
“Nel corso della storia umana i villaggi e le città si sono formati normalmente quasi tutti sulle vie di traffico. A forza di passarci – o ai punti di guado o agli incroci con altri sentieri – ogni tanto qualcuno si ferma, costruisce una baracchetta e lì cominciano a fermarsi e magari a commerciare anche altri viandanti. Allora si sparge la voce e sempre più gente va lì e tira su una nuova baracchetta, un’altra ancora e nasce la città.
Pure Roma è nata così: come emporio, come posto di scambio e di mercato tra Etruschi, Sabini e Latini. Sono quindi le strade e i traffici che normalmente fanno nascere le città.
In Agro Pontino è stato il contrario e sono state le città – quei villaggi – a far nascere le strade. E difatti sono “città di fondazione” perché non sono nati una casa qui e un’altra là spontaneamente, ma ci è venuto prima un geometra, quando ancora non c’era niente, e ha detto: “Qui ci verrà una casa, lì la chiesa, un’osteria, i carabinieri, la piazza e tutto il resto, e ogni casa che verrà dopo dovrà mantenere questa e quest’altra distanza dalla strada e da tutto il resto”. E hanno cominciato a lavorare e a tirare su i muri”.
Pennacchi fino a 10 anni fa faceva l’operaio, non l’architetto e neppure il geometra. Però ha studiato le città di fondazione della bonifica dell’Agro Pontino, ma non solo: ha capito da autodidatta quello che molti architetti non hanno capito con anni di studio, cioè l’essenza dell’origine e della vitalità della città, vale a dire la strada. Non sempre per colpa loro, non è che gli architetti siano più stupidi degli altri esseri umani, ma perché non è stato loro insegnato, e non è stato insegnato perché neppure i docenti lo sapevano o se lo sapevano ne avevano rimosso il ricordo allo scopo di perseguire un’idea di città così semplice da diventare misera, funzionalista ma non funzionante, illuminista ma priva di ogni barlume di razionalità.
E con l’andare del tempo se ne è persa davvero la memoria, almeno nella cultura ufficiale dominante, quella che detta la linea a cui la maggioranza si adegua, per ovvi motivi di convenienza e quieto vivere - le dinamiche accademiche sono più o meno note a tutti – e con la cultura ufficiale l’ha persa la cultura diffusa, quella operante quotidianamente, quella dei 140.000 architetti italiani. Ovvio che non tutti l’hanno persa, che anzi ve ne sono non pochi e agguerriti che perseguono questa idea nella loro professione, negli studi, nell’insegnamento, e la diffondono e la fanno conoscere a quelli che, come me ad esempio, si rendono conto che la città come è adesso non è più una città e confrontandola con un centro storico, depurato delle grandi qualità artistiche, si accorgono che la differenza vera la fa proprio la strada.
Pennacchi in queste poche righe dimostra però di avere colto anche la differenza tra la crescita della città spontanea, con regole insediative che sono una somma di condizioni geografiche, economiche, sociali e antropologiche, e quella della città progettata, con regole edilizie imposte e non necessariamente condivise, frutto di scelte culturali e/o ideologiche, cioè di un sistema di idee.
Visto il personaggio, non è più rinviabile la lettura di Viaggio per le città del Duce, Laterza, 2008, dello stesso Pennacchi.
Pietro Pagliardini
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