“Forse, nell’oscillare tra la bellezza e l’efficienza, il trionfo contemporaneo della tecnica, il disastro dei quartieri costruiti negli ultimi cinquant’anni, sarà allora solo provvisorio, questo dilagare dell’indifferenza sarà soltanto una infatuazione momentanea cui seguirà il ritorno verso il centro della U, le case di questi cinquant’anni lentamente scompariranno – neppure il cemento armato è eterno – e i loro quartieri verranno ricostruiti più belli e sarà così salvo un principio fondamentale della nostra identità di europei, la bellezza delle città.
O forse no, forse questa infatuazione per una frustrante pretesa della tecnica di condizionare le nostre vite nell’urbs della nostra Europa finirà per dissolverla in un uniforme e desolante paesaggio planetario”.
E’ questa la conclusione di uno dei capitoli del libro di Marco Romano, Ascesa e declino della città europea, Raffaello Cortina.
Questi due opposti scenari, che comunque contengono un unico giudizio sulla città moderna, cioè la mancanza di bellezza e di identità, o almeno la mancanza di una bellezza riconoscibile e condivisa, si adattano ad un mio vecchio post, Il senso del limite, o meglio, mi ricordano il fatto che Emanuele Severino ha già scritto di questo argomento, cioè del trionfo ineluttabile della tecnica, dato che di mio in quel post c’era ben poco.
Aggiungerò alcuni altri pensieri di Severino, il quale ha il grande pregio di una logica rigorosa e stringente e mette l’uomo contemporaneo di fronte a scenari che lui ritiene inevitabili, che forse non lo sono, ma che è bene conoscere:
“La grandezza della tecnica è per ora deformata dall’interpretazione tecnicistica della tecnica; è avvolta nel grigiore dei suoi interpreti ufficiali, che a sua volta alimenta la rozzezza, ovunque percepibile, con cui le forze sociali dominanti intendono voltare le spalle alle “ideologie” e alla “politica” in nome della tecnica, dell’efficienza, della competenza. In nome della razionalità tecnologica ingenuamente intesa, stiamo correndo il rischio di perdere non solo il patrimonio grandioso del nostro passato, ma il significato stesso del nostro esserci dovuti separare da esso.
Vi sono motivi per pensare che la tendenza fondamentale del nostro tempo spingerà ad uscire dalla bassura presente, e che in questo processo restino rafforzate quelle forme di cultura che, come le filosofie dell’esistenza, tengono vivo il ricordo del nostro passato. La condizione fondamentale per allontanarsi dal passato è di conoscerne a fondo il significato. Altrimenti l’allontanamento è un semplice caso, che può venir meno da un momento all’altro. Oggi la nostra civiltà è un navigatore che allontanandosi da terra –dalla terra del passato – non si ricordi più dove sia la terra: può sbattervi contro, nella nebbia della dimenticanza, da un momento all’altro – e ritornare al passato più primitivo e più incolto”.
Il brano è tratto da Pensieri sul Cristianesimo, E.Severino, BUR. Ovviamente l’autore non sta parlando di architettura o civiltà urbana in senso stretto, ma quel ragionamento è perfettamente sovrapponibile all’una e all’altra, anche perché sono gli stessi concetti espressi nel suo Tecnica e Architettura, E.Severino, Raffaello Cortina.
Severino giudica ineluttabile il trionfo della tecnica, anche perché “ogni azione vuole rendere sempre più reale il proprio scopo, al di là di ogni limite e vincolo”.
Se questo fosse vero, la condizione ineluttabile della città sarebbe l’avveramento della seconda ipotesi di Marco Romano e non quello del ritorno alla bellezza della città. Ho già detto che alla logica di Severino è difficile, almeno per me, opporre argomenti che la smentiscano e ancora più difficile è farlo con il ricorso agli stessi suoi strumenti logici; posso solo dire, anche se ne colgo tutta la debolezza teorica e l’abisso qualitativo tra la forza delle due argomentazioni, che Severino mi sembra trascuri l’azione nella storia della volontà dell’uomo il quale, possedendo il dono della libertà di scegliere, può indirizzare gli accadimenti in un senso o nell’altro.
Severino è difficilmente confutabile (sempre da me, ben inteso) rimanendo all'interno delle grandi visioni filosofiche, ma lo è un po’ più facilmente nel momento in cui si riflette sul fatto che queste sono il frutto della mente, e quindi dell’azione, dell’uomo. Sarà un pensiero banale ma, se si esclude l'atto di fede, e Severino la escluderebbe senz'altro, ogni visione filosofica è prodotta dall'intelligenza umana e perciò stesso non può essere ineluttabile. Se così non fosse sarebbe necessario accettare l’ineluttabilità di ogni evento che sarebbe preordinato e determinato a prescindere dall’intervento umano. Ma è Severino stesso a riconoscere il fatto, ad esempio, che “solidarietà ed efficienza non sono più ciò che esse sono quando, separate, costituiscono lo scopo supremo delle azioni sociali che, rispettivamente, le perseguono. Unite, si limitano, si modificano a vicenda: il capitalismo non è più capitalismo e l’azione sociale del cattolicesimo non è più cattolicesimo”.
Dunque, oltre al fatto che semmai, per omogeneità dei termini, la conseguenza sarebbe che "l’azione sociale del cattolicesimo non è più azione sociale del cattolicesimo" - ma resta il cattolicesimo, decadendo con ciò solo un effetto del cattolicesimo- si ammette l’esistenza di una azione sociale diversa che non è più capitalismo e non è nemmeno azione sociale del cattolicesimo, ma qualcosa d’altro, e questo grazie all’azione e alla volontà umana. Se questo è vero, tornando al tema, sembra essere possibile evitare l’ineluttabile, per il fatto che ineluttabile non sarebbe, e poter tornare anche alla bellezza delle città.
Forse ad una bellezza che tenga conto dell’efficienza imposta dalla tecnica, ma la bellezza non cambia la sua essenza. D’altra parte l’alternativa che ci si presenta davanti da 50 anni a questa parte non è portatrice di bellezza e tanto meno di efficienza, che anzi molti critici della città contemporanea puntano l’indice proprio sull’inefficienza del risultato, sotto ogni profilo, oggi soprattutto sull’inefficienza energetica dei modelli urbani più diffusi, ma anche su quella sociale, ecologica, ambientale.
L’alternativa che Marco Romano segnala, in verità non sembra esistere, almeno logicamente, date le premesse, perché il modello della tecnica non esiste, non è stato trovato, che anzi siamo all’antitesi della razionalità della scienza, sia in campo urbano che architettonico, e non può essere per definizione che una città basata sulla tecno-scienza sia così profondamente inefficiente proprio sotto il profilo tecnico.
Che tecnica è se in 50-60 anni ha solo aumentato i problemi, dato che gli unici risolti sembrano quelli tecnologici di base relativi al solo abitare, ma le cui basi erano già state poste tra l’800 e il ‘900?
Riprendiamoci almeno la bellezza delle nostre città europee per scoprire che ripristineremo una buona parte dell’efficienza della vita comunitaria e del rapporto abitare-lavorare come alcuni studi (1) sembrano dimostrare.
(1) Minimizing car travel by changing how we think about development
Seguire il link Journal of the American Planning Association all’interno dell’articolo
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