Pietro Pagliardini
Frequento molto raramente il sito di Luigi Prestinenza Puglisi. Ancora più raramente riesco ad essere d’accordo con quello che c’è scritto.
Un argomento invece ho molto apprezzato ed è l’argomento Concorsi.
Ho letto lo scritto breve e il decalogo annesso e ne ho apprezzato la lucidità e il coraggio nel denunciarne le degenerazioni. Quello che un mio collega chiama brutalmente lo “scambio di figurine” Puglisi lo descrive con molta precisione indicando nel continuo passaggio dal ruolo di concorrente a quello di giurato il metodo che consente di farsi qualche piacere. Semmai direi che i nomi che prende ad esempio rappresentano una selezione molto limitata e un pò troppo mirata, perché esiste un altro aspetto, meno appariscente perché più diffuso nei concorsi di minore importanza, e tutto interno e funzionale al sistema accademico di cui finalmente si parla sempre più spesso grazie al Ministro Gelmini: quello delle relazioni incestuose tra docenti e assistenti o comunque tirapiedi, ricercatori, dottorandi, ecc.
Nel suo decalogo l’autore dimostra di avere le idee chiare, anche se non concordo su tutte. Ma non è tanto importante rimarcare le piccole differenze scendendo nel dettaglio procedurale, quanto apprezzare appunto l’analisi che Prestinenza Puglisi compie sul tema.
Soprattutto questo scritto mi fornisce l’occasione per ritornare su un punto per me fondamentale del sistema concorsuale in architettura, proprio adesso che è stato pubblicato il testo del disegno di legge quadro sull’architettura da parte del Ministero dei Beni Culturali, in cui il concorso, appunto, sembra diventare il metodo principe per l’assegnazione degli incarichi.
Partirei da una domanda che pongo prima di tutto a me stesso: perché il sistema concorso, inteso come presentazione di un concreto progetto, e non come selezione di persone per un determinato ruolo lavorativo, è consueto in architettura ma è pressoché sconosciuto o raro in altre professioni? Si è forse mai sentito dire di un concorso per avvocati con indicazione di una linea di difesa al fine di stabilire chi meglio sia in grado di rappresentare, ad esempio, una pubblica amministrazione in un giudizio? O per dottori commercialisti, da parte dell’amministrazione finanziaria, al fine di scegliere colui che presenti la miglior proposta per combattere l’evasione fiscale? La risposta è ovviamente no.
Perché, allora, ciò che vale per l’architettura non vale per la legge o per la medicina?
La mia impressione è che, generalmente, la forma concorso venga considerata necessaria dal punto di vista del rispetto di certi “valori” di carattere sociale quali la trasparenza, l’equità, la perequazione, la giustizia, le pari opportunità. E’ un concetto che si avvicina cioè ad una sorta di “ammortizzatore sociale” per sperare di compensare squilibri esistenti tra gli incarichi di pochi e lo scarso lavoro dei più. Infatti ogni legge o proposta di legge riserva “quote giovanili” ai concorrenti, sotto varie forme; un concetto simmetrico alle “quote rosa” in politica. Tutto è poi condito (e mascherato) con la ricerca della qualità (quale?) e di far emergere nuove idee, ma il fatto che l’attuale forma concorsuale nasca dopo tangentopoli, come riconosce anche Prestinenza Puglisi, la dice lunga sul significato reale di questa soluzione.
Queste sono solo motivazioni occasionali e contingenti della forma concorso, la quale invece, avendo una storia antica e una diffusione in ogni parte del mondo e tra culture diverse, affonda le sue ragioni nell’essere l’architettura un’arte civica e perciò soggetta al parere e all’approvazione di coloro che, willy-nilly, godranno o subiranno la presenza dell’edificio.
“..il giudizio sulla congruità [dei temi collettivi], sulla loro utilità e sul decoro costituisce per principio una competenza di tutti i cittadini della civitas in quanto tali, dove tutti sono legittimati ad avere un punto di vista sul se e sul come realizzarli a prescindere dalla nostra specifica cognizione dell’arte”.
Questo brano tratto da La città come opera d’arte di Marco Romano, spiega l’origine del concorso di architettura, la sua peculiarità, la sua necessità sotto certi aspetti, ma dice anche che le “procedure” sono solo un mezzo per ottenere un risultato che consiste nel raggiungimento della massima condivisione possibile del progetto.
Tutte le altre motivazioni che vengono ormai attribuite al concorso vengono dopo, sono accessori intercambiabili in base alla sensibilità e alle necessità del momento storico o politico, restando invece la sua essenza sempre la stessa.
Per ottenere questo risultato dunque la sola commissione di esperti, comunque composta, non solo non è sufficiente, ma è del tutto inadeguata e contraria proprio al principio che la città appartiene a tutti i cittadini e non c’è esperto che possa appropriarsene e sostituirsi alla comunità, perché “tutti sono legittimati ad avere un punto di vista… a prescindere dalla nostra(di noi esperti) specifica cognizione dell’arte”.
L’insistenza di ogni legge sulla figura dell’esperto come colui che possiede la conoscenza e quindi il potere di scegliere, con tutti gli illusori cavilli giuridici e artifici procedurali studiati per garantire equità, probità, competenza, è il sintomo di una società molto smemorata e con tendenze autoritarie perché toglie ai cittadini spazi di decisioni che loro competono per la storia e l’essenza stessa della città e di cui la legge dovrebbe semplicemente prendere atto.
Per garantire il miglior risultato all’esito dei concorsi c’è solo un metodo: il referendum popolare. Qualunque scelta venga fatta sarà la migliore perché la più condivisa. Questa proposta non nasconde alcuna utopia né ipotesi rivoluzionarie o populiste ma solo il risultato di una riflessione sulla città come bene collettivo.
“ ..le case si affiancano l’un l’altra a lunghi nastri continui e le strade diventano condotti comuni, luoghi di transito, di sosta e di scambio, ma anche di tensione sociale e quindi di vita; di conseguenza l’ambiente stradale si caratterizza per la somma di iniziative individuali, peraltro controllate da norme statutarie e guidate dai “magistri viarii” o anche da consultazioni collettive”.
Così Giovanni Astengo alla voce Urbanistica dell’Enciclopedia Universale dell’Arte, parlando della città medioevale. E la stessa voce così si conclude sulle prospettive future dell’urbanistica:
“Per questo suo compito corale [l’urbanistica] ambisce al riconoscimento di “arte collettiva” per eccellenza ed i suoi successi sono necessariamente legati alla misura con cui essa stessa riuscirà nei vari paesi a diventare abito non secondario di comportamento collettivo adulto”.
Astengo non risulta appartenere alla categoria degli utopisti né dei rivoluzionari.
Le cronache dei giornali locali straboccano di articoli e “polemiche” che riguardano le scelte per la città, a dimostrazione che il tema collettivo non è un romantico residuo del passato, come qualcuno pensa, ma solo che è cambiata la forma in cui si manifesta questo interesse dei cittadini.
Fino a che l’esito dei concorsi sarà affidato solo ed esclusivamente ad “esperti” e al loro necessario giudizio non potrà seguire quello popolare non potranno che prevalere logiche di potere interne alla casta di turno, non potrà esserci legge capace di garantire che i giurati siano “al di sopra di ogni sospetto”, come scritto al punto 6 del decalogo di Prestinenza Puglisi, soprattutto, a prescindere dalla correttezza o meno, dalle capacità o meno dei soggetti, non potrà esservi garanzia che la scelta sia quella migliore per la città.
Un'ultima domanda: perché c'è tanta ostilità verso il referendum popolare per i concorsi?
Possibili risposte:
1) Perché la gente non sa scegliere e sarebbe influenzata da politici e giornali.
2) Perché allunga i tempi, è costoso e populista.
3) Perché gli architetti, cioè gli esperti, sono gli unici che hanno le soluzioni dei problemi.
4) Perché molti hanno paura di perdere ruolo e perciò potere.
5) Perché le scelte popolari non andrebbero verso il modello di architettura dominante ma verso forme, appunto, più popolari.
Ognuno ha la sua risposta. Le mie sono la 4 e la 5, sa và san dir.
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FUKSAS COSTRUTTIVISTA SUL SERIO, DERRIDA DECOSTRUTTIVISTA PER CASO
Pietro Pagliardini
Massimiliano Fuksas trova il tempo di fare e dire molte cose. L’ultima, sul Corriere della Sera , è quella di aver riferito che Derrida sarebbe stato elevato, dalle Archistar, a vate del de-costruttivismo in architettura senza che lui ne sapesse niente. De-costruttivista involontario, insomma. Può darsi, se è vero quello che lo stesso Deridda avrebbe raccontato a Fuksas.
Se ne ricava, quindi, una specie di separazione da Deridda, uno svincolarlo dal “piccolo universo dell’architettura” per lasciarlo in quello più ampio dell’universo filosofico.
Rotti dunque i legami con la filosofia de-costruzionista, resta invece solido quello costruttivista di Fuksas; infatti , cercando frettolosamente in Internet quali siano i lavori a cui si stia attualmente dedicando ho trovato:
- Roma: la Nuvola
- Firenze: nuovo stadio con annessa Città Viola
- Torino: la Torre
- Cina: un aereoporto
- Campi Bisenzio (FI): 260 appartamenti low-cost (€ 3.500,00-3.900,00 a mq)
- Ostia: il litorale con annesse Torri
- Nigeria: Campus universitario
- Strasburgo: arena da 12.000 posti
- Pontedera: Museo Piaggio
- Pula: Golf resort
- Eindhoven (NL): Admirat
- Tbilisi (Georgia): Delisi Project
- Pescara: Polo direzionale De Cecco
- Foligno: Centro Parrocchiale San Giacomo
e mi sono fermato presto in questa ricerca muratoriana, pardòn, murativa.
Straordinaria la capacità di lavoro del personaggio che riesce anche ad essere presente in TV come opinionista politico e fustigatore degli altrui costumi ed ignoranza, a scrivere per i giornali, a rilasciare interviste sulla vitalità dell’Onda (che si è subito abbassata, in verità) e sul ’68 che fu, ecc.
D’altronde è normale che sia così ché, riferendosi alla famosa mostra con cui Philip Johnson ufficializzò l’esistenza del decostruttivismo architettonico, parla dei vari architetti invitati appellandoli come “creatori”, ritenendo il modello del “creativo” evidentemente inadeguato.
Ma a Fuksas non piace neanche il termine Archistar; perché? è bellissimo invece, è una sintesi perfetta di un metodo.
Chissà, forse pensa possa essere una “diminutio” ma non è così: un’Archistar non si giudica solo dalla qualità ma anche, e soprattutto, dalla quantità, dalla diffusione planetaria e dal brand.
E’ comunque aperto un concorso pubblico, senza premi, per trovare una definizione migliore di Archistar, capace di rappresentare appieno questa fase di transizione dalle sfere celesti a quelle terrestri.
Piccoli creativi, fatevi sotto.
Credits: La vignetta è tratta da Political Comics
17 novembre 2008
UNO SPETTRO SI AGGIRA PER L'EUROPA...
Pietro Pagliardini
Tre coincidenze sono una prova di colpevolezza. Figuriamoci quattro.
In ordine cronologico:
Aragonbiz su Bizblog (il suo nome vero è ovviamente un altro, ma lui preferisce così): "Due approcci del moderno-post";
Vilma Torselli, su Artonweb, con il suo articolo: “Architettura d’autore”;
Giorgio Muratore su Archiwatch con il suo post: "Skyscraper city-no grazie";
PierLuigi Panza sul Corriere della Sera: "L’architettura processa Derrida".
Nessuno dei quattro autori può essere accusato di essere “antichista”, nè seguace del Principe Carlo nè di Lèon Krier. Solo Aragonbiz apprezza certi aspetti del Krier urbanista, ma solo quelli.
Tutti, a vario titolo e con diverse sensibilità e sfumature, apprezzano e nutrono speranze nell’architettura moderna. Vi è chi la pratica, vi è chi la insegna e la pratica, vi è chi l’analizza, la commenta e la spiega, associandola all’arte contemporanea con una funzione divulgativa via Internet, vi è chi periodicamente se ne interessa in relazione al costume, come è d'uso per un grande quotidiano nazionale.
In ognuno di questi scritti usciti tutti nell’arco di pochi giorni è palpabile la stanchezza e la noia, talora il disgusto, verso il dilagare di un sistema di fare architettura che appare tanto vuoto nelle forme quanto consistente nella forza economica e di pressione mediatica di cui è espressione.
Non penso nemmeno lontanamente di accomunare gli autori di quegli articoli in qualcosa d’altro che non siano solo la comune passione per l’architettura, che per alcuni è anche professione, e questa fortuita coincidenza nella denuncia dello "star system" dell'architettura.
Ho detto fortuita solo nel senso che dietro non c’è sicuramente nessun disegno organizzato, tanto i personaggi sono distanti tra loro, sia geograficamente, sia caratterialmente che come interessi professionali; ma non c'è nessuna casualità e non è possibile non leggervi un vento di cambiamento.
Estraggo qualche brano da ciascun testo:
Aragonbiz su Bizblog parla di un grattacielo di MVRDV:
”Totale irrazionalità statica, abitativa, urbanistica, di dispersione energetica, unita però ad un concettualismo rigido, anche questo da "artista", non difficile da realizzare. Tentativo di combinare una standardizzazione ma in modo irregolare, per unità e non per insieme.
Santo cielo, non riesco più a scrivere, per quanto li odio, questi stronzi figli di Rem Koolhaas. Guardo le loro cose e mi sento male fisicamente”. “L'altro approccio (quello di MVRDV) è la peste bubbonica, è molto vicino al "male assoluto". Va combattuto ad ogni costo”.Si può essere più espliciti di così? E sì che quando vuole biz sa fare distinguo, analizzare sottigliezze, capire le ragioni di ogni progetto. L’estrapolazione di questo brano dal contesto e dal’insieme degli altri post è come l’intercettazione di una telefonata: falsa completamente le situazioni e il personaggio. Ma non falsa affatto il pensiero specifico e quello che c’è scritto è esattamente quello che voleva dire.
Vilma Torselli su Artonweb:
“Il fatto che oggi il mondo, per l’affermarsi di una aristocrazia anziché di una democrazia globale, sia politicamente ed economicamente organizzato (o globalizzato) in modo che relativamente pochi centri di potere, in relativamente poche città del mondo, possano determinarne il destino, ha parallelamente favorito il diffondersi di un’architettura dal significato totemico concretizzata in un linguaggio che per essere di valenza universale deve anche essere inevitabilmente generico”.
“La quale (l’architettura d’autore) trae dalla rappresentazione per immagini (fotografiche o da sofisticati processi di rendering) il massimo vantaggio perché è, prima di tutto, un’architettura da guardare, un’architettura narcisistica ed autorappresentativa che riflette sé stessa, un’architettura spesso vuotamente estetizzante che dirige il suo potenziale comunicativo inter e sovra-culturale a “cittadini del mondo”, anche di quello più geograficamente lontano, nei quali produce emozioni che non hanno nulla a che vedere con quelle degli abitanti locali, non condividendone il contesto e la storia”.
Omissis
“C’è una sostanziale differenza tra architettura ed immagine dell’architettura, un irrisolto conflitto, per parafrasare Jacques Herzog/Jeff Wall, tra immagini d’architettura e architettura d’immagini, tuttavia ciò che pare certo è che l’architettura rischia di diventare l’interfaccia tra vita reale e vita virtuale, anziché fungere da tramite tra mondo naturale e mondo antropico, ruolo che la storia le assegna da sempre.
Abitanti involontari di uno scintillante Truman Show, ci stiamo dimenticando che l’architettura ha memoria e vissuto, ma anche corpo, suono, colore, odore, durezza, trasparenza, fisicità: " ..... è solo quando ci troviamo fisicamente nel luogo che possiamo avere esperienza della verità del luogo……." , una verità sperimentata e toccata con mano, che l'immagine non saprà darci mai”.
Il lnguaggio colto e raffinato non attenua, anzi amplifica la condanna senza appello.
Giorgio Muratore su Archiwatch:
“Si assiste quindi, e non da oggi, al proliferare di grattacieli di tutte le taglie e di tutte le fogge, un po’ in tutto il mondo, dai distretti commerciali delle metropoli occidentali alle sempre più numerose città nuove che si affollano a decine dall’oriente estremo fino alle, un tempo, desolate e pastorali plaghe dell’asia centrale, dalle assolate, assetate e desertiche realtà del Golfo fino alle più remote e paradossali situazioni latino-americane, tutte località, a vario modo, assoggettate a questa nuova forma di colonialismo tipologico, ove il protagonismo di massa del grattacielo la fa ormai da padrone indiscusso. Migliaia di grattacieli, una volta confinati in rari esemplari nei distretti finanziari delle grandi metropoli statunitensi, dilagano ormai senza freno dai deserti alle praterie, dalle spiagge alle savane del mondo intero. Soprattutto nei luoghi dove è più debole la storicità e la memoria stessa dei siti al grattacielo sembra affidato il ruolo fondante di edificio-pioniere, quasi a segnalare una nuova presenza, a testimoniare con arroganza una presa di possesso, a testimoniare l’orgoglio volgare di un finalmente raggiunto dominio simbolico e materiale sui luoghi”.
E ancora:
“Purtroppo però in questi ultimi anni sull’onda di un laissez-faire di stampo anarco-liberista, molte barriere, anche etico-psicologiche sono crollate e sono quindi sempre più numerosi i casi in cui il nostro patrimonio ambientale e paesaggistico viene aggredito in forme concitate, avventate e agressive in nome di una sedicente modernizzazione che trova, proprio nel grattacielo, la sua formula più immediata, sbrigativa e redditizia, perciò, vincente”.
Questo estratto non rende giustizia alla qualità del testo completo, che fa una rapida ma preziosa sintesi della storia del grattacielo. Anche in questo caso il verdetto è chiaro.
Pier Luigi Panza sul Corriere, con l’articolo dal titolo: L’architettura processa Derrida:
“Per Derrida questa assiomatica, che coincide con l' intera storia del vitruvianesimo, ovvero quella che il critico inglese John Summerson ha definito Il linguaggio classico dell' architettura (1966) è da decostruire. A distanza di una ventina d' anni da queste proposte teoriche, l' uscita in italiano di questi testi è l' occasione per una prima verifica della stagione alla quale hanno fornito supporto teorico, prima che tutti gli studenti di architettura si mettano a laurearsi solo su edifici storti. Questa stagione è fatta di «oggetti» riusciti (Guggenheim di Bilbao di Gehry), parzialmente riusciti (Museo ebraico di Berlino di Libeskind), falliti (uffici al Mit di Gehry), in arrivo (grattacieli storti di Libeskind, Isozaki e Hadid a Milano), edifici riusciti e altri mostruosi nella provincia italiana. Decostruire il vitruvianesimo ha voluto dire superare la storia della trattatistica, dimenticare abdicare di fronte a metodi, tipologie, logiche urbanistiche per aprirsi a alla «chance», all' heideggeriano «far spazio». Una direzione scelta ancora da Aaron Betsky nell' ultima Biennale di architettura, nella quale si vuole «andare oltre l' edificio perché gli edifici ormai sono tombe», afferma Betsky, che vede in Derrida una carica di utile utopismo. Si tratta di una dimensione nella quale il relativismo nichilista si presenta come alternativa alla costruzione razionale. Il gioco, prende il posto della meccanica razionale e la dimensione nietzschiana della Gaia scienza e del dionisiaco il posto dell' illuministico «rigorismo» architettonico”.
Che altro aggiungere se non una sola, piacevole sorpresa: sul blog BOVISIANI, curato da studenti del Politecnico di Milano è apparso, e non è il primo del genere, un post di Giancarlo Consonni dal titolo: Il principe è nudo. Rem Koolhaas a Bovisa :
“Per quelli che hanno le redini del potere, le fantasmagoriche restituzioni virtuali sono l’incenso con cui si avvolgono: il sostituto di ogni discorso, di ogni giustificazione. Non solo la comunicazione, ma il mezzo a cui essa si affida è tutto (di nuovo McLuhan): dietro non c’è niente. Non un pensiero, un’argomentazione. Non un logos che possa essere oggetto di discussione nella polis. Così l’attacco si svolge su due piani: la città reale e la città ideale (nel senso non dell’utopia ma della civitas definita dalla convivenza civile e dalla condivisione delle ragioni su cui si fonda). Un punto su cui le restituzioni virtuali lavorano è l’immaginario. Che viene destrutturato e sganciato dalle ragioni civili. È anche così che si distrugge la città. Esemplare è il lavoro svolto da una pubblicistica storicamente e formalmente attribuita a un’area di centro-sinistra e che in passato ha svolto un ruolo importante sul piano della difesa/costruzione di un cultura civile. Si pensi al lavoro di Antonio Cederna. Sì: sto parlando dell’«Espresso» e anche di «Repubblica», dove accanto all’ottimo lavoro svolto da un Francesco Erbani, troviamo il dilagare di maître à penser che hanno dirette responsabilità nella distruzione della città. O dove alcune star internazionali dell’architettura hanno un lasciapassare assicurato, avvalorato da giornalisti che si sono eletti a loro alfieri/maggiordomi. Per non dire delle pagine locali di «Repubblica», dove, come anche sul «Corriere della Sera», alcuni servizi su complessi edilizi in programma si presentano in tutto e per tutto come pagine pubblicitarie a pagamento: una prosecuzione della pubblicità immobiliare”.Omissis
“Al centro dell’articolo è il progetto di Rem Koolhaas per l’area dei gasometri nel quartiere milanese della Bovisa. Il termine progetto è in questo caso un eufemismo. Si tratta più propriamente del divertissement di un individuo che evidentemente non ha giocato abbastanza da piccolo. Butta sull’area, a manciate, dei pezzi presi da una scatola di giochi d’infanzia e dopo averne cavato un assemblaggio che gli pare abbastanza stravagante da sorprendere gli allocchi, mette la sua firma sotto questo affastellamento, lo chiama masterplan e lo manda, con relativa parcella, al committente diretto”.
Se anche gli studenti, o almeno una parte di essi, sono così insensibili al fascino ammaliante delle Archistar e comprendono così lucidamente il trucco che c’è dietro questo sistema, esistono motivi di speranza.
Avere fatto questa "associazione d'idee" non vuol dire aver tentato di arruolare nessuno degli autori di cui sopra nelle truppe antichiste, tradizionaliste, classiciste, vernacolari, conservatrici e reazionarie e quant’altro. Non sarebbe stato proprio possibile.
Però si può legittimamente pensare che un pezzo di strada insieme, almeno per la pars destruens, la possiamo fare. Dopo, chissà!
15 novembre 2008
ETICA IN ECONOMIA-ETICA IN ARCHITETTURA
Pietro Pagliardini
La parola “etica” va usata con molta cautela. Un uso indiscriminato di essa può portare all’inflazione, e quindi al suo svuotamento, e può anche avere effetti collaterali e controindicazioni piuttosto pericolose.
In questi tempi di crisi mondiale dell’economia con il mondo spaventato e incerto su come affrontarla e sulla sua evoluzione ritornano concetti che sembravano dimenticati e obsoleti: l’etica del lavoro, la politica dirigista in economia, l'ipotesi di un governo mondiale della finanza e dell’economia stessa, l’intervento pesante dello Stato nel mercato. Siamo agli antipodi dalla sfrenata libertà di movimento di capitali e merci della globalizzazione, dove si dava per scontato che non potessero esserci limiti di alcun tipo.
E tutto nel breve lasso di tempo di qualche giorno. Abbiamo provato tutti, sulle nostre tasche, l’effetto farfalla che sbattendo le ali nella foresta tropicale può generare un ciclone a migliaia di chilometri di distanza.
Il lato tragi-comico di questa vicenda è che lo stesso effetto farfalla è avvenuto nella mente di analisti, opinionisti e giornalisti pronti a cambiare idea dimostrando di essere in balìa degli avvenimenti e di essere poco capaci di dominare le situazioni.
Per quel poco che vale, io penso che (quasi) tutto tornerà sostanzialmente come prima e i soliti esperti ricambieranno idea velocemente.
Però c’è qualcuno che non segue le mode e che, come riconosciuto da tutti, aveva previsto tutto mentre tutti gli davano del dirigista. Parlo, ovviamente, di Giulio Tremonti.
Perché lo cito e cosa c’entra con questo blog? Non per scelta “di parte” ma perché alcuni suoi ragionamenti, passati e presenti, mi hanno fornito argomento di riflessione anche per l’architettura.
Mi riferisco all’etica, appunto.
Tremonti, che proviene da cultura politica socialista ma non è certo un collettivista come molti vogliono far credere, ha sempre associato etica ad economia, non in senso banalmente moralistico ma rimettendo le cose apposto, cioè attribuendo importanza ai fondamentali, cioè al lavoro, quello che produce prodotti reali e non prodotti finanziari, quello dietro cui c’è gente che si alza presto, prende il treno o l’auto e va in fabbrica, operaio o dirigente, a dare corpo e sostanza a quei prodotti che poi verranno scambiati, piuttosto che a coloro che si alzano presto ugualmente, ma per andare a vendere artifici finanziari che molto spesso altro non sono che fogli di carta, o forse solo mail, dietro cui ci sono debiti, finché, gira, gira, qualcuno rimane con il cerino in mano e comincia l’effetto domino.
Tremonti è uno di quelli che si augura che sia possibile in futuro limitare, se non eliminare, queste situazioni e se lo augura, appunto, in nome dell’etica del lavoro.
Può darsi che egli sia un utopista. Può darsi che questa società così complessa, così a rete, così incontrollabile sfugga ad ogni possibile governabilità, salvo situazioni episodiche di emergenza. Ma può darsi di no e poi è difficile non riconoscere un certo fascino a questo approccio.
In questa situazione io trovo alcune analogie con il mondo dell’architettura.
Oggi si accetta come inevitabile l’esistenza di uno stato di assoluta libertà progettuale individuale senza vincoli di alcun genere, un disordine assoluto giustificato proprio dalla complessità della società di cui l’architettura sarebbe niente altro che lo specchio in un rapporto un po’ troppo deterministico di causa-effetto.
Tale visione sembra escludere in maniera assoluta la possibilità che le scelte dei singoli possano riuscire ad invertire la rotta e perfino di andare contro corrente ma, per colmo di contraddizione, sono proprio i singoli architetti di grido, le Archistar, ad essere esaltati e ad esaltarsi come coloro che sono capaci di interpretare le istanze della società e di prevedere i suoi nuovi bisogni; sono proprio loro per primi a parlare di libertà di sperimentazione e di ricerca; sono proprio loro a darsi l’immagine di superarchitetti che fanno del loro smisurato ego un oggetto di rispetto ai limiti del culto. Loro sarebbero i demiurghi in grado di scegliere e decidere per tutti. Quindi riconoscono che l'uomo è "libero" di cercare e di scegliere e di intervenire a modificare il corso degli eventi.
Delle due l’una: o l’individuo conta o non conta. Loro risolvono il problema così: l’individuo conta, eccome, ma solo per fare ciò che la società richiede o meglio, che loro pensano che la società richieda. Il nodo è qui: quando parlano di società, di quale società parlano, a chi o a cosa si riferiscono, a chi o a cosa si rivolgono?
La loro visione della società è estremamente parziale, anche se potente, limitata com’è ai grandi investitori e al mondo che li circonda, quello dei media, dell’immagine, della comunicazione.
Insomma, anche in architettura, al pari dell’economia, si trascurano i fondamentali, il mondo reale, la vita che si svolge nelle città, i cittadini che ci vivono e che lavorano nell’economia in genere e non solo quelli che operano nell’economia dell’informazione. Mi sembra che abbiano una visione di un mondo come racchiuso in una bolla che trascura tutto ciò che sta fuori, che costituisce, però, la gran parte del reale.
Significativo di questo atteggiamento è il motto: più etica e meno estetica.
Questo motto di Massimiliano Fuksas per una delle tante inutili Biennali, non riesco a dimenticarlo, sarà per l’assonanza che si fa ricordare, sarà perche è uno slogan pubblicitario tanto efficace quanto vuoto di contenuti, sarà per il fascino mefistofelico dell’inganno che c’è dietro!
Ma cosa significa questo slogan? Niente, non significa assolutamente niente, perché l’architettura riveste un valore civico, il cui significato è che chiunque sia il suo produttore, committente, costruttore o progettista, essa appartiene sempre e comunque alla città e ai suoi cittadini e perciò l’estetica di ogni edificio possiede intrinsecamente un valore etico.
Quanto più bella, cioè più rispettosa del contesto e della città, essa sarà, quanto più condivisa sarà la sua estetica, tanto più quell’opera potrà dirsi etica.
L'etica dell'architettura, cioè, non sta tanto nel soggetto (il produttore) ma nell'oggetto stesso (il prodotto).
Dichiarare la prevalenza dell’etica rispetto all’estetica, come suggerito da quel motto, significa non solo attribuire al ruolo di architetto un compito diverso da quello che gli è proprio, cioè quello del politico, del predicatore, del moralista, ma anche non aver capito il legame inscindibile e la gerarchia che tiene uniti i due termini tra loro e, soprattutto, ignorare il principio essenziale delle regole non scritte che stanno all’origine di una comunità che vive in una città.
Direi che è un principio base dell’educazione civica: il rispetto dei diritti altrui, in questo caso il rispetto del diritto a non dover subire edifici che vanno contro il senso comune dell’urbs e quindi della civitas.
Per questo, solo per questo e non per dirigismo o collettivismo o corporativismo, i progetti vengono giudicati da organismi espressione, a vario titolo, delle varie componenti della società. Per questo esistono le commissioni edilizie, le commissioni urbanistiche, i consigli comunali che deliberano o danno pareri su tutto ciò che riguarda la costruzione e la modificazione della città.
Se per gli architetti c’è una lezione da prendere da questa crisi economica è proprio questa: ripensare alla relazione che esiste tra bellezza e “convenienza” e recuperare il valore civico dell’architettura.
P.S. A post ormai finito sono stato andato ad una cena-incontro con Alberto Mingardi, giovane e brillantissimo Direttore dell’Istituto Bruno Leoni, liberista convinto e niente affatto pentito anche in questa situazione di crisi economica. Almeno lui non ha cambiato idea. Naturalmente l’argomento centrale del suo intervento è stata proprio l’attuale situazione dell’economia mondiale. Al termine avrei voluto porgli la seguente domanda: “Come si pone il liberismo rispetto al mondo dell’edilizia e come può esserci libero mercato se la scelta dei luoghi, le quantità in gioco e le destinazioni d’uso sono stabilite dall’ente pubblico?”. Non ho potuta formularla la domanda perché, in quanto ospite, avrei dovuto prevaricare le numerose domande dei soci del club di cui ero ospite. Mi ripropongo di formulargliela per scritto, in un modo più chiaro ed esteso. Se otterrò risposta la riproporrò.
11 novembre 2008
FORME “ANTICHE” DI UN PAESAGGIO RECENTE
di Francesco Gazzabin
Henry Deplanques, viaggiatore del '700, dopo una visita nel Chianti scriveva: “La campagna toscana è stata costruita come un’opera d’arte da un popolo raffinato, quello stesso che ordinava nel ‘400 ai suoi pittori dipinti ed affreschi: è questa la caratteristica, il tratto principale calato nel corso dei secoli nel disegno dei campi, nell’architettura delle case toscane. E’ incredibile come questa gente si sia costruita i suoi paesaggi rurali come se non avesse altra preoccupazione che la bellezza”.
Attualmente il territorio toscano offre al suo visitatore viste e scorci molto vicini a quelli assaporati dai viaggiatori che affrontavano il Gran Tour alla ricerca dei luoghi che conservano gran parte del patrimonio artistico mondiale, patrimonio non solo architettonico ma anche e soprattutto paesaggistico.
Non sempre però tutti quei segni, apparentemente lontani nel tempo, opera di chissà quale contadino e giardiniere al servizio delle ricche famiglie aristocratiche rinascimentali, sono in realtà tanto antichi.
Alle pendici del Monte Amiata, nella parte più meridionale della provincia senese, forme e visuali che oggi si confondono con quelle del resto della campagna toscana, in realtà sono segni recenti, ovvero appartenenti ad un passato assai prossimo.
Thomas Gray che nel 1740, dopo aver soggiornato a Siena, si dirige verso Roma, così descrive il paesaggio tra queste due città: “Per alcune miglia mi si svolge innanzi la scena ininterrotta di montagnole coltivate da capo a piedi a filari di ulivi, o di olmi, ognuno dei quali reca, assorta su di sé la vite che si confonde con i suoi rami, con il grano che cresce tra un filare e l’altro. Se a ciò aggiungi diverse case e piccoli conventi, avrai la più bella vista di questo mondo. Poi tutto a un tratto, il paesaggio si cangia in colline desolate e scure che si spingono sindone giunge l’occhio. Non sembrano essere mai state idonee a una qualche coltura e anzi sono orrende ed inutili. Tale appare per un certo tempora campagna prima di giungere al monte di Radicofani, una terribile nera collina…”
Più indietro nel tempo, Ambrogio Lorenzetti, in un affresco raffigurante “Il Buongoverno”, mostra una visione globale del paesaggio senese del ‘400, si passa gradualmente dalla campagna a maglia fitta nelle immediate vicinanze della città, alla campagna più rarefatta dove i colori perdono di intensità fino ad arrivare all’estremo sud della provincia senese, nel territorio delle Crete ai piedi del Monte Amiata con sullo sfondo la rocca di Radicofani.
Nell’opera del Lorenzetti si mette in evidenza l’esistenza di due toscane, di due paesaggi in netta contrapposizione: quello colorato e riccamente coltivato del Chianti e quello rado e spoglio del sud, le cosiddette Crete Senesi, le terre popolate da calanchi e biancane.
Terra argillosa, arida d'estate e fangosa d'inverno, terra spoglia di alberi, restia ad ospitare qualsivoglia tipologia di coltivazione, questo era l'aspetto della Val d'Orcia osservata e descritta soltanto agli inizi del secolo scorso dalla famosa scrittrice angloamerica Iris Origo nel suo “Immagini e Ombre”, libro autobiografico che racconta gli anni vissuti in Toscana, dagli inizi del secolo agli ultimi anni sessanta.
La prima sensazione che Iris e il marito, il marchese Antonio Origo provarono trovandosi di fronte alla Val d’Orcia fu di grande stupore, molto vicina a quelle del viaggiatore del ‘700: “…lunghe catene di basse e spoglie colline d’argilla – le crete senesi – scendevano verso valle, dividendo il paesaggio in una serie di piccoli spartiacque ripidi e asciutti. Quelle catene corrugate, prive di alberi e di cespugli, salvo qualche ciuffo di ginestra, costituivano un paesaggio lunare, sbiancato e disumano…”.
A questi due eclettici personaggi è legata un'esperienza singolare che ha cambiato le sorti di una comunità e soprattutto l'aspetto di una porzione di paesaggio italiano; in pochi anni furono recuperati migliaia di ettari di terreno abbandonati per secoli o scarsamente sfruttati da un popolo di mezzadri rassegnati ad una condizione che li vedeva fino a quel momento tra i più poveri contadini del Paese.
Si tratta di quella che potrebbe essere considerata una delle prime operazioni di progettazione paesaggistica, ma che in principio nasce con ben diversi propositi e finalità, come scriveva la stessa scrittrice: “Acquistammo La Foce con la speranza di crearvi non solo la nostra casa, ma il tipo di lavoro che entrambi volevamo. Antonio sentiva nel profondo di sé l’istintivo amore per la terra che è di molti italiani e voleva coltivarlo in una regione ancora non sviluppata dal punto di vista dell’agricoltura, dove ci fosse ancora molto lavoro da compiere. Io provavo un forte interesse, seppure non avessi una preparazione specifica, per l’indagine sociale. Entrambi volevamo sfuggire alla vita di città e condurre quella che a noi sembrava un’esistenza pastorale, virgiliana”.
I PERSONAGGI - Iris Bayard, scrittrice di origine anglo-americana, si forma culturalmente nella Toscana dell’inizio dello scorso secolo dove la madre acquista una delle più belle ville fiorentine, Villa Medici a Fiesole, e prende parte della vita di quella ricca comunità detta degli anglofiorentini che poteva vantare personaggi di gran cultura, uno per tutti Bernard Berenson.
Anche Antonio Origo trascorre la sua gioventù in un ambiente di grande cultura, il padre infatti esperto di arte, dedicò gran parte della sua vita a viaggi nei luoghi d’arte europei. Abitò tra Firenze e la Versilia, nella casa di Montrone, salotto frequentato da illustri musicisti, pittori e scrittori; lì D’Annunzio scrisse le migliori composizioni dell’Alcyone. In età scolare, il padre lo manda in Svizzera per trasformarlo in un uomo d’affari di successo. In seguito lavora per un anno in una banca di Bruxelles e poi presso l’azienda Mumm di Rheims, produttrice dello champagne omonimo.
Dal 1924 e fino agli anni '60 i Marchesi Origo portarono avanti un intenso lavoro di trasformazione delle loro terre, riuscendo ad annullare quel divario che si era creato con le zone più riccamente coltivate della Toscana,dando vita a scorci e frammenti di paesaggio che sono diventati un po' il simbolo della bellezza delle campagne toscane e italiane in genere e soprattutto, ancora oggi, dai più confusi come segni assai più antichi.
La loro fu un'operazione che intrapresa con il primario interesse di far progredire economicamente un territorio e i suoi abitanti, ci permette oggi di capire come sia possibile coniugare lo sviluppo economico di un luogo con la tutela e conservazione del suo paesaggio.
Nel 1940, all’alba della Seconda Guerra Mondiale, alla Fattoria della Foce era stato portato a quaranta ettari il terreno effettivamente coltivato in ogni podere, mettendo ogni contadino in grado di portare i propri prodotti al mercato e ogni bambino di andare a scuola; tutte le vecchie case contadine venivano restaurate o ricostruite in perfetto stile toscano e collegate tra loro da strade ciascuna ombreggiata da pioppi, pini e cipressi.
Si può sicuramente dire come La Foce rappresenti un caso particolare. Nonostante ci si trovi in un periodo nel quale le campagne cambiano drasticamente, perdendo le caratteristiche tipiche della cultura mezzadrile qui, nonostante la meccanizzazione e l’uso di nuove tecniche, il paesaggio storico riesce ancora a riprodurre se stesso, anzi a produrre le forme classiche della mezzadria, campi chiusi, colture specializzate, colture miste. Qui, per la prima volta, si arriva a distinguere un’operazione puramente agricola da una di progettazione del paesaggio. Si dà un disegno a quelle che fino a qualche anno prima erano solo lande desolate, si recuperano le culture specializzate, la vite maritata al sostegno vivo, la cultura promiscua oliveto-vigneto. Nella ricostruzione delle abitazioni si riprendono tutti i caratteri dell’architettura rurale e soprattutto si ricreano attorno ad esse gli spazi classici della cultura mezzadrile: la concimaia, l’aia, il fienile in un’operazione dal forte carattere vernacolare, le nuove strade interpoderali sono sempre bordate da filari di alberi. E poi tutti quei luoghi sparsi per le terre della fattoria, il cimitero di famiglia, l’ambulatorio, il magnifico giardino all’italiana custodito all’interno della villa e la serpentina di cipressi che ne fa da quinta prospettica, opera di un grande architetto del paesaggio Cecil Pinsent, personaggio che contribuì al successo del Revival del design rinascimentale nei giardini del XX secolo.
9 novembre 2008
LO STRANIERO
Giulio Rupi
Lo Straniero, per raggiungere la sua meta, aveva attraversato sterminate periferie urbane, costel-late da enormi casermoni anonimi e degradati, qua e là un tentativo di spazio pubblico, disastrato e abbandonato. Aveva incontrato folle di individui dallo sguardo spento, terrei in volto, che si muovevano tra quegli edifici come automi sopravvissuti tra le rovine di una guerra terribile.
Per giorni il grigiore, per giorni lo stesso desolato spettacolo, quando il suo sguardo si posò su un’insolita fenditura, che attraversava obliqua uno di quei casermoni, una fenditura buia che lo incuriosì e lo indusse ad avvicinarsi, a spingersi oltre la soglia fino ad abituare i suoi occhi a quel buio, sì da intravedere le pareti di quella cavità, fiocamente illuminate dalla luce esterna.
E vide, al lato opposto, in fondo a quella cavità, uno stretto corridoio dal quale provenivano suoni indistinti e inconsueti.
E sulla soglia di quella galleria stava, assorta e pallida in volto, con lo sguardo fisso nel vuoto, una fanciulla di grande bellezza, una bellezza di una nobiltà misteriosa e antica.
Come lo vide apprestarsi ad entrare la fanciulla lo apostrofò gentilmente: “Straniero, perché vuoi addentrarti da quella parte, tu non immagini l’orrore che ti attende là in fondo!”
“Ma quale orrore - rispose lo straniero - potrà mai superare l’orrore delle periferie che ho per lunghi giorni attraversato, per un cammino che mi ha condotto fin qui? Lasciami dunque andare, sento che non posso sottrarmi a questa nuova esperienza”.
Così disse lo Straniero e, sotto lo sguardo rattristato e rassegnato della fanciulla, proseguì in quella specie di corridoio fino a raggiungere una enorme spelonca, dalla quale provenivano quegli strani rumori che aveva confusamente percepito da lontano.
Grande fu il suo sconcerto davanti all’incredibile spettacolo che gli si presentò: al centro della caverna stava un edificio di puro stile neoclassico, bianco nei suoi marmi, scandito da armoniose colonne, da imponenti scalinate, da lesene, timpani e capitelli ben proporzionati, ornato sulle pareti da numerosi fregi e bassorilievi.
Ma lo Straniero si accorse immediatamente che in quell’edificio c’era qualcosa di insolito e di inquietante: intravide nelle sue forme come un’essenza di vita, nel suo frontale come il volto di un essere capace di sentire, un essere che stava soffrendo ed emanava come un lugubre cigolio di lamentazione.
Accanto a quell’edificio stava un vecchio signore dalla barba bianca e dall’aria professorale, che con toni suadenti ma severi si rivolgeva a quella “cosa” inanimata come a una creatura vivente, come a blandire ma al contempo ammonire, come ad educare ma al contempo rimproverare.
Intorno a questa coppia, l’uomo e l’edificio, si agitava, con attrezzi e macchinari, una squadra di eccitati operai, tutti vestiti e truccati da pagliacci del circo, saltellanti qua e là come folletti e pronti ad obbedire ad ogni ordine dell’austero professore.
“Mio caro, cosa vorresti mai rappresentare, tu, con la morta perfezione delle tue proporzioni - disse il vecchio rivolto al suo inanimato interlocutore - Tu sai che la società, oggi, è una società complessa, incessantemente spinta da manifestazioni disordinate, aleatorie e caotiche verso il cam-biamento, ormai lontana dall’ideale di fissità delle tue colonne...”
Così diceva il vecchio e, ad un suo cenno, ecco che uno dei pagliacci operai, montato a bordo di un grosso demolitore, si avventò sull’edificio e a colpi di maglio distrusse parte di quelle colonne, talché l’edificio, tra nuvoli di polvere, si inclinò visibilmente su se stesso emettendo un lugubre, struggente lamento, così almeno parve allo straniero, che a quel suono non umano fu percorso da un brivido di orrore.
“Eccoti più vicino al disordine costruttivo, a quel caos che accoglie l’imprevisto e lo elabora in forme nuove - proseguì il vecchio - Il desiderio di ordine è solo paura di fronte alle nuove dinamiche. Ciò che emerge nel periodo attuale è invece il bisogno di disordine, di squilibrio e non di una pacifica omologazione nel nome di un ordine rassicurante, prevedibile e condiviso”
Ancora un cenno agli operai, ed ecco questi avventarsi con picconi, martelli pneumatici e macchine demolitrici su timpani, lesene, capitelli: quello che prima era ordine e armonia si andava trasformando in un intrico di forme sbilenche, sbalzanti, squilibrate, rovinose... e sempre il lugubre lamento, suono d’oltretomba, sibilava all’orecchio dell’allibito Straniero.
“Cosa sono questi marmi di cui tu ti rivesti? - soggiunse il vecchio - Forse il simbolo di una eternità irraggiungibile, un’eternità oggi assurda, priva di senso in una società del cambiamento, in cui mutano ogni giorno i codici di lettura. Non è questa la pelle, il materiale con cui puoi presentarti a un mondo nuovo, privo di certezze; altri sono i materiali che esprimono quelle tensioni...”
E ad un nuovo cenno del nostro, ecco gli operai attorniarsi all’oggetto (che ormai “edificio” non poteva esser più definito) ed eccoli rivestirlo di lastre metalliche, di scaglie lucenti, di plastiche luminescenti, eccoli puntellarlo, ormai pendulo e sbilenco, con tralicci di lucido metallo, eccoli distruggere con scalpelli ogni decoro scolpito sulle pietre rimaste.
“E tu, Straniero, che osservi sbigottito la nostra operazione - disse il vecchio rivolgendosi adesso all’estraneo che guardava lo spettacolo con occhi sbarrati - non sai che i dipinti di Caravaggio destarono scandalo al loro apparire, non sai che gli Impressionisti all’inizio furono presi per matti, non sai che l’astrattismo e la musica atonale dovettero a lungo lottare per affermarsi e sono tuttora incompresi dalla massa degli ignoranti, non sai che ogni innovazione ha sempre lottato per affermare le sue ragioni? Noi abbiamo compiuto oggi una grande opera, abbiamo riportato questo edificio dall’ordine mortifero di un passato ormai trascorso alla vitalità caotica, all’instabilità creatrice di un futuro in costante divenire! Straniero, non puoi non condividere quest’opera, non puoi rifugiarti nel-la stanca ripetizione delle forme del passato, non puoi...”
Così cantilenava il vecchio e lo Straniero, ormai intontito e come ipnotizzato da quella litania, si avviò barcollando verso l’uscita, salutò sulla soglia la triste fanciulla e, di nuovo all’esterno, proseguì il cammino verso la sua meta.
Arrivò infine, non più straniero, a quella meta: il Centro Antico della sua città, il nucleo storico, assediato da ogni parte da quelle sconfinate periferie, nel quale era ubicata la sua casa.
Rinfrancato, traversò strade a lui familiari, su cui si affacciavano edifici costruiti da secoli, tra-versò piazze piene di gente animata e infine giunse alla sua casa avita, un maestoso palazzo bugnato, scandito da archi e da lesene, vicino alla Cattedrale della città e al Palazzo comunale.
Ma qui l’attendeva una sorpresa, perché a fianco della sua casa, in uno spiazzo che lui aveva lasciato adibito a giardino pubblico, costruito dalla Municipalità durante la sua lunga assenza, egli vide l’esatta, identica copia di quell’edificio sbilenco e rovinoso che aveva lasciato fuggendo atterrito da quella caverna.
(Liberamente ispirato dall’epilogo di “Che cos’è la Tradizione” di Elémire Zolla. Milano, 1971.
7 novembre 2008
LE RADICI DI UNA NAZIONE
AVVERTENZA: questo è un post che apparirà retorico, non tanto nella forma quanto nella sostanza. Perciò se chi ha iniziato a leggere non ama la retorica è bene che cambi subito post o blog.
Il post è frutto di una riflessione suscitata dall’ascolto della lettura e dell’analisi comparata dei due discorsi post-elettorali del Presidente eletto Barak Obama e dell’ex candidato John McCain, svolta ieri mattina dal Prof. Massimo Teodori durante la rassegna stampa di Radio 3.
Pur breve, è stata una vera e propria lezione di storia americana e di storia della libertà quella fatta da Massimo Teodori che, se non ho sbagliato, alla lettura di un passo del discorso di McCain, ha anche avuto un calo di voce e un lieve balbettio, come da parte di chi prova una forte emozione.
Questo post è “retorico” quanto lo sono i due discorsi, almeno secondo i parametri di giudizio su cui si basa la nostra cultura e la nostra politica, talora pompose nella forma ma ciniche e disincantate nella sostanza.
Cosa hanno detto entrambe i candidati alla presidenza: tutti e due hanno utilizzato le parole chiave che costituiscono l’elemento fondante della nazione americana, nata da una rivoluzione: l’unità del popolo americano frutto della somma delle individualità, cioè della diversità, nel supremo interesse della nazione stessa.
Hanno richiamato entrambi la lotta per l’affermazione dei diritti civili delle minoranze, hanno riconfermato l’importanza del sogno americano, appoggiato però su solide basi comuni e condivise capaci di unire l’intera nazione.
Hanno entrambi affondato le radici degli Stati Uniti d’America di oggi sulla comune storia, che è una storia di lotta per la libertà di tutto il popolo e l’affermazione individuale.
La storia comune, le radici comuni della nazione americana, scritte nella dichiarazione d’Indipendenza, sono dunque il richiamo costante e condiviso da parte di un popolo che nella cultura, nell’economia, nella politica si esprime invece in maniera fortemente innovativa e, piaccia o non piaccia, domina il mondo con i suoi modelli di vita, le sue mode e anche con le sue manifestazioni di grande domocrazia.
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Se è sembrata troppo "retorica" questa parte del post allora chissà cosa penserete della seconda parte!
Queste considerazioni del Prof. Teodori, da me liberamente interpretate e certamente banalizzate, mi hanno fatto riflettere su quale sia la storia condivisa della nazione italiana, quali siano i valori fondanti capaci di tenerci uniti e farci sentire una cosa sola (“e pluribus unum” è il motto della Casa Bianca) nella grande diversità che ci caratterizza da nord a sud, da qualche anno esaltata dal fenomeno dell’immigrazione.
La retorica nazionale, questa sì tanto vuota quanto magniloquente, ci indica come data fondante e comune il 25 aprile, che però ancora divide e che comunque poco dice alle giovani generazioni; oppure il 4 novembre, che divide meno ma che unisce poco, oppure il Risorgimento, che però non è stato figlio del popolo, se non in alcuni fulgidi episodi di cui siamo specialisti.
C’è dunque qualcosa d’altro che ci unisce veramente? Io credo che l’unica cosa che ci fa appartenere alla nazione italiana sia la percezione, più che la consapevolezza, della nostra immensa tradizione artistica, architettonica e storica, diffusa a piene mani su tutto il territorio nazionale, della bellezza del nostro paesaggio, sia di quello naturale, il mare, le coste, le montagne, che di quello frutto del lavoro umano, le pianure, le colline, le coltivazioni.
Quale italiano non è orgoglioso delle bellezze della propria città, del proprio borgo, della propria vallata e, se ha studiato anche un po’, non si rende conto che quella bellezza è la stessa che si ritrova, in forme diverse e adattate ai luoghi, su tutto il territorio nazionale ed è il frutto del sovrapporsi di culture differenti ma che, tutte insieme, con alti e bassi, hanno prodotto questo concentrato di patrimonio d’arte che è la nostra penisola? Questo luogo, al centro del Mediterraneo, ha visto il passaggio dei popoli più disparati e ognuno ha lasciato il meglio di sé, è stato, con la Magna Grecia, Roma e il Rinascimento, il faro della civiltà d’occidente. Firenze ha imposto la propria cultura all’Europa non con la potenza militare ma con i suoi banchieri, i suoi commercianti e i suoi artisti. Venezia è stata il punto di contatto con l’oriente e da questo ha attinto lusso e raffinatezza. Ma ogni città ha una sua peculiare caratteristica che la distingue da ogni altra e la rende unica fra tante; 9000 comuni, ancor più paesi e borghi, e non ne esiste uno da cui si possa tornare senza avervi riconosciuto qualcosa di bello da mandare a mente.
Se in questa mia convinzione c’è del vero, anche per una piccola parte, attentare a questo patrimonio in nome dell’imperativo architettonico modernista e perseverare nel costruire periferie senza anima e luoghi del degrado, oppure intervenire in maniera brutale nei nostri centri storici e nelle città d’arte, vuol dire non solo distruggere la nostra immagine nel mondo, e quindi una parte consistente della nostra economia, ma anche minare le basi della nostra appartenenza alla nazione, cioè sciogliere il legame che tiene uniti popoli e comunità molto diverse tra loro.
Senza questo legame, davvero non ci resta che la nazionale di calcio.
N.B.La bandiera degli USA è pera di Jasper Johns
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1 novembre 2008
LE SCELTE DI PIANO
Pietro Pagliardini
L’architetto prende la sua matita. Appoggia i gomiti sopra la tavola cartografica principale coperta da un foglio di spolvero fissato ai quattro angoli con strisce di adesivo.
E’ ormai in possesso di tutti o quasi gli elementi necessari: le numerose indagini conoscitive, gli indirizzi programmatici della Giunta, le proteste e le richieste dell’opposizione, le aspettative delle circoscrizioni, la mappa dei vincoli; ha camminato in lungo e in largo per la città e le frazioni, ha incontrato le varie associazioni e gli ordini professionali; ha mandato a memoria i nomi di strade e quartieri, ha valutato e analizzato i punti critici della viabilità e del traffico; ha interiorizzato la geografia dei luoghi; pur provenendo da un'altra città, o forse proprio per questo, ha colto aspetti di questa di cui i residenti stessi non si erano mai resi conto, vivendoli in maniera non consapevole; ha incontrato migliaia di cittadini nelle rituali e numerose riunioni notturne, ognuno con le sue esigenze grandi o piccole, spontanee o calcolate in vista di un possibile ritorno economico; ha imparato a diffidare della disponibilità alla collaborazione offerta da architetti, geometri , ingegneri, imprenditori, commercianti, tutti pronti a dare un disinteressato contributo culturale nel supremo interesse della città e del territorio, ma pronti anche a diventare i suoi peggiori avversari; sa di poter contare sull’appoggio dell’assessore, del sindaco e di una buona parte della giunta, ma sa anche che è un appoggio instabile e che, alla prima, seria difficoltà, potrebbe vacillare fortemente. Soprattutto ha cercato di capire la città, il suo territorio e le relazioni che intercorrono tra l’una e l’altro, ha letto la trama viaria principale e ha ben presente i segni delle infrastrutture principali presenti, ha classificato le varie parti della città secondo categorie di tipo temporale, tipologico, sociale, funzionale e di qualità del tessuto.
Adesso è il momento della verità: esistono, è vero, una seri di appunti, di schizzi buttati giù al ritorno da qualche sopralluogo, nel corso di una discussione con i suoi collaboratori oppure un sabato sera a casa dopo una cena con amici, ma ora bisogna cominciare sul serio. Dopo l’analisi e la lettura è venuto il momento della sintesi e della scrittura. All’inizio saranno pochi segni essenziali ma utili a tracciare le linee guida principali che via via andranno precisandosi, in base alle prime reazioni e alle verifiche di feed-back che egli stesso farà.
Questo è il momento della scelta, è il momento che appartiene solo a lui, al progettista del piano, all’architetto, e nella quale si dovrà depositare non solo la sua esperienza, la sua capacità di lettura e di ricomposizione di questa in un quadro coerente ma, soprattutto, il suo bagaglio culturale, la sua formazione di architetto acquisita durante il periodo più importante, quello degli studi, che informerà di sè di tutto il percorso professionale, e quello acquisito nel tempo, dal confronto con la realtà, dallo scambio con gli altri e dai nuovi studi.
Questo è il momento che darà il carattere a tutto il piano che, nel lungo tempo a seguire prima della conclusione, potrà migliorare o peggiorare ma sempre nella falsariga di questa scelta, che adesso dipende esclusivamente da lui.
Tante possono essere le scelte possibili, moltissime le varianti, ma tutte sono riconducibili, almeno nella situazione odierna, a due sole, come si conviene nelle scelte fondamentali:
1) Quella perseguita fino ad oggi nella maggior parte di casi e che prevede una città fatta di frammenti, organizzata per parti diverse, ognuna con una determinata destinazione prevalente o unica, quindi con un criterio di omogeneità al loro interno, la cui rappresentazione grafica può essere riassunta in campiture di segno diverso collegate tra loro da elementi lineari; in questo modello geometrico gli elementi di polarità sono dati dalle funzioni e non sono la risultante diretta del disegno ma da scelte di tipo funzionale. E’ il piano dei retini che simbolicamente può essere riassunto con due tavole di questo tipo: una planimetria astratta come questa: e una legenda come questa:
2) Quella che ha come tratto caratteristico la continuità del tessuto data dalla rete viaria gerarchizzata che crea polarità in determinati punti di incontro tra le strade principali, che ripete questo tema anche per le strade di minor importanza e in cui le funzioni pubbliche o di interesse pubblico si collocano in determinati luoghi come conseguenza diretta del disegno; la rappresentazione grafica di questo modello è una rete (le strade) nei cui vuoti si collocano, in funzione del disegno stesso, il costruito (gli isolati) o gli spazi aperti (piazze, verde). E’ il piano delle connessioni che può essere rappresentato simbolicamente con due tavole di questo tipo: una planimetria figurata come questa e norme di attuazione come queste:
Ho fatto questo tentativo di astrazione di due diversi modelli urbani semplificandolo in forma geometrica per cercare, una volta tanto, di non essere troppo fazioso, per non farmi portare dalle mie stesse parole ad un giudizio preventivo, che c’è, ovviamente, ma che può restare per un attimo sospeso nella valutazione quanto più possibile oggettiva dei fatti.
E’ chiaro che è una sintesi e una semplificazione, perché entrambe i piani dovranno avere, per la complessità e il numero delle verifiche richieste dalle varie leggi, tavole tematiche del tutto analoghe.
Le domande da porsi sono le seguenti: la scelta dell’uno o dell’altro sistema, che ha grandissime conseguenze sulla forma della città, dipende forse da altri soggetti oltre al suo progettista? Quale può essere l’influenza esercitata dalla “società” nel suo complesso nel decidere tra l’uno o l’altro? Quali i soggetti interessati a gradire l’uno piuttosto che l’altro? C’è qualche soggetto capace di condizionare e direi costringere il progettista seduto su quel tavolo a optare per l’una o per l’altra?
Provo a dare qualche risposta.
La prima, la più importante credo sia il tipo di “cultura” che il progettista ha assimilato nel corso della sua vita studentesca e professionale. Questa, a mio avviso, è quella determinante perché se è vero che la cultura è scelta individuale, è anche vero che l’uomo non può totalmente astrarsi dalla società e dalle interazioni che essa comporta. Quindi molte sono le circostanze che influenzano ognuno di noi e il nostro modo di pensare: dal clima culturale che respiriamo in famiglia, a quello a scuola, dalle nostre letture alla TV, dai nostri docenti universitari agli amici che frequentiamo, dalla nostra fede religiosa o dal nostro agnosticismo. Nessuno può affermare, ragionevolmente, di non subire ascendenti e di essere perciò totalmente autonomo nella formazione del proprio bagaglio culturale.
Ma tutto ciò dimostra, non smentisce, che la scelta individuale del progettista è fondamentale: e infatti difficilmente un architetto culturalmente orientato alla scelta numero 1 potrebbe accettare, né sarebbe capace, di impostare il piano secondo la scelta n° 2, e viceversa.
Vediamo allora quali possono essere le aspettative della città e delle sue componenti rispetto alla scelta del modello.
Prima di tutto sono fermamente convinto che la componente economica di un piano sia determinante e dunque i più influenti, direttamente o indirettamente, sono gli imprenditori, gli operatori del settore, i privati interessati alla valorizzazione delle loro aree; insomma le varie lobbies. A questi poco interessa, in linea generale, il disegno urbano, quanto “l’indice fondiario”, cioè il metro cubo per metro quadrato di terreno. Soddisfatto quello il problema è risolto. Entrambe i modelli possono soddisfare la richiesta.
C’è poi la componente politica cui, volendo essere benevoli, sta a cuore l’interesse generale e il consenso e che, generalmente, trova risposte più in termini quantitativi che qualitativi, a prescindere dal tipo di disegno del piano.
Parliamo di noi architetti e degli altri “tecnici” interessati. Vigono per questi, prima di tutto, le stesse condizioni del progettista, per cui ognuno ha le proprie convinzioni, e la vera discriminante avviene al momento della redazione delle norme tecniche nelle quali il nesso tra l’aspetto culturale e quello economico è più diretto e immediato. Se le norme consistono di numeri associate ad elaborazioni pseudo-giuridiche che poi lasciano spazio alle più svariate interpretazioni e quindi alla “libertà d’espressione” del progettista (e a ricavare più metri cubi per metro quadro) non c’è problema per i più. Se invece le norme sono del genere tipologico e morfologico, cioè se fissano “regole” progettuali e costruttive piuttosto precise, in funzione di un certo risultato da ottenere, allora nasce il problema. L’influenza di questa categoria professionale può essere consistente per la capacità di influenza che ha nei confronti delle altre, precedenti categorie.
Siamo dunque al punto iniziale: sono gli architetti i soggetti che più di altri influenzano la forma della città, almeno nella fase iniziale del piano (dopo, nella gestione, vi sono altre complesse dinamiche che sarebbe troppo lungo affrontare in questo post).
Quando si parla di scelte urbanistiche,
e mi rispondo di sì perché questo è stato realizzato quasi completamente: Master Plan di Novoli di Lèon Krier, progetti architettonici di vari architetti di fama.
Il nostro architetto è ancora con i gomiti sul tavolo e la matita in mano.
Deve superare l’horror vacui del foglio bianco e cominciare.
Non ha scampo, sia che propenda per un modello o per l’altro sa che dovrà affrontare proteste, richieste, pressioni, blandizie.
Tanto varrebbe fare la scelta migliore ma.... lui preferisce la prima.
Nota: Le norme e le legende rappresentate in foto non hanno alcuna relazione con i piani presentati, essendo solo un esempio di metodo e non la descrizione di piani specifici. Il disegno che rappresenta il tipo di piano n° 2 è di Lèon Krier.
Il piano nella foto iniziale è Onontaga County, USA di Duany, Plater-Zyberk & Company