Demolire il Corviale non è solo giusto, ma è anche possibile.
Presento qui tre progetti del nuovo Borgo Corviale, uno dei quali è, in questo momento, il più approfondito, essendosi spinto abbastanza avanti non solo alla scala urbanistica, ma anche nello studio della sua fattibilità economica.
I tre progetti sono rispettivamente del Prof. Ettore Maria Mazzola, del Prof. Gabriele Tagliaventi e dell'Arch. Cristiano Rosponi, quest'ultimo per conto della Fondazione CESAR.
Il progetto di Ettore Maria Mazzola è stato pubblicato per intero nel sito Il Covile, di Stefano Borselli e questo è il link.
Il progetto di Gabriele Tagliaventi è pubblicato nel sito A Vision of Europe, e questo è il link.
Il progetto di Cristiano Rosponi non è ancora pubblicato per intero. Il Tempo di Roma gli ha dedicato questo articolo.
Tutti tre i progetti saranno pubblicati su Il Covile.
Una sintesi dei progetti sono pubblicati anche in Planetizen e ecquo.
Di seguito le immagini:
Tre progetti molto diversi tra loro ma tutti finalizzati all'obiettivo di sostituire la città all'anti-città, la tradizione urbana italiana all'ideologia della machine a habiter, la ricchezza della relazioni sociali all'esclusione e all'emarginazione.
Per approfondire rimando al primo speciale de Il Covile, in cui è illustrato il progetto Mazzola. Seguiranno gli altri e quando avverrà ne darò notizia.
RASSEGNA STAMPA:
Repubblica- Su Corviale è subito lite- Buontempo: Va abbattuto
Il Tempo : Corviale si divide
Il Tempo- Corviale stile Garbatella
Il Tempo- Da Corviale la sfida alle nuove periferie
Il Tempo- Abbiamo un sogno: abbattere Corviale
Il Tempo- Demolire Corviale: adesso o mai più
Punto a capo – Roma, CESAR: su Corviale Buontempo ripropone un nostro progetto
De Architectura- Abbattere il Corviale è giusto
blog architettiimperia, Diario degli Architetti P.P.C. della provincia di Imperia
25 maggio 2010
GIU' IL CORVIALE, SU IL BORGO CORVIALE
21 maggio 2010
RITORNO ALLA CITTA': DISPONIBILE DOWNLOAD ATTI DEL CONVEGNO
Dal blog RITORNO ALLA CITTA', curato da un attivissimo e competente gruppo di architetti di Firenze appartenenti a studi diversi, i quali non dedicano la loro vita esclusivamente alla cura del proprio orto ma ogni tanto alzano gli occhi e danno uno sguardo a ciò che li circonda, è possibile scaricare gli atti del convegno RITORNO ALLA CITTA', guarda il caso, da loro organizzato nel settembre 2009.
Del bel convegno scrissi un sintetico resoconto in due post, Ritorno alla città, sintesi di un convegno e Ritorno alla città - Parte seconda, oramai largamente superato da questi atti, che riportano gli interventi ufficiali dei relatori, con relative immagini delle slides allora mostrate:
Marco Romano
Franco Purini
Gabriele Tagliaventi
Sergio Los.
Il Convegno e gli Atti sono stati curati da:
Piero Correnti, Caterina Grisaffi, Angelo Gueli, Carlos Plaza, Elisabetta Vannni, Giovanni Voto.
Consiglio davvero a chi leggesse questo comunicato di scaricare gli atti. Il download è free ed è offerto in due versioni, bassa risoluzione e un'altra non definita ma suppongo a definizione maggiore, dato che ho dovuto rinunciarvi per il tempo che ci voleva.
La prima, per quello che mi riguarda, mi sembra già di buona qualità.
16 maggio 2010
DEMOCRAZIA E BELLEZZA NEL NUOVO LIBRO DI MARCO ROMANO
Quello che segue è un piccolo estratto dal Prologo del nuovo libro di Marco Romano, “Ascesa e declino della città europea”, Raffaello Cortina, 2010 (Il libro è scaricabile anche in formato PDF nel sito Estetica della Città).
Quattro capoversi che sono una sintesi dell’origine della crisi della città e dell’architettura moderna, e la spiegazione del paradosso per cui, ad una società tesa ad allargare sempre più gli spazi di democrazia, ha corrisposto invece una città “scritta” con un linguaggio che esclude i cittadini che non capiscono ma devono subire.
“L’urbanistica contemporanea, figlia di un mondo dominato dal mito trionfale della tecnica, insiste sull’efficienza che sarebbe conseguibile con un buon piano regolatore, su come sarebbe più facile vivere in una città con le sue cose disposte secondo i principi razionali stabiliti dalla disciplina e raccordate da strade veloci che leghino le tre funzioni fondamentali, la casa, il lavoro, la ricreazione: e in questo, nel far coincidere l’efficienza con la bellezza, la conclamata bellezza di un silos, consiste tutta la dottrina estetica moderna sulla città.
La bellezza di una rigorosa efficienza era poi congruente con il rigore delle avanguardie artistiche contemporanee, e come le avanguardie andavano maturando una visione estetica nuova che tendeva a ridurre la pittura a una composizione di punti, linee e superfici (è il titolo di un noto libro di Kandinsky), quasi a prescindere dal suo significato, dalla consistenza figurativa del suo soggetto, così nella città doveva venire messa in campo una visione altrettanto astratta, e come dai quadri e dalle statue andava cancellata la riconoscibilità delle figure così dalle città dovevano scomparire tutte quelle cose che avevano costituito gli elementi essenziali della loro bellezza, le passeggiate e i boulevard, le strade principali e quelle monumentali, le lunghe prospettive trionfali e le piazz , in effetti cancellate dalle futuristiche prospettive della Ville Radieuse di Le Corbusier o della Groszstadt di Ludwig Hillberseimer.
Tuttavia, mentre una qualsiasi nuova forma di espressione artistica è legittima, dalla “maniera moderna” del Pontormo e di Rosso Fiorentino ai quadri luminosi di Claude Monet o ai tagli di Lucio Fontana, anche se coltivata e condivisa soltanto da pochi estimatori, la città deve venire invece apprezzata da tutti i cittadini, e dunque la sua bellezza non può venire fondata su un linguaggio estetico così nuovo da essere comprensibile soltanto da una élite ma deve per sua natura essere accessibile, proprio come il linguaggio verbale, all’intera cittadinanza, perché le scelte che la concernono debbono poter venire discusse da chiunque e non diventare il campo privilegiato di pochi esperti.
Quanto alla coincidenza tra la razionalità dell’organizzazione cittadina e la sua bellezza i conti non tornano, perché la sfera della tecnica è per sua natura soggetta all’intrinseca legge del progresso, dove ogni novità cancella la precedente, mentre l’aspirazione alla bellezza è quella di durare in eterno, sicché ciò che è nato nella sfera dell’efficienza tecnica non potrà mai aspirare all’eternità della bellezza…”.
Sono per me di grande interesse gli esiti degli ultimi due periodi, e cioè:
1. l’origine elitaria dell’urbanistica moderna, mutuata dalle teorie artistiche delle avanguardie, sovrapposte automaticamente alla città, con l’aggiunta di dati tecnici legati all’igiene e alla mobilità, già presenti dal XIX secolo, che sovrappone la visione urbana di pochi, peraltro dimostratasi da tempo del tutto sbagliata, alla visione estetica e ai bisogni reali dei più;
2. il riconoscimento del bisogno di “eternità della bellezza”, che implica il riconoscimento dell’esistenza del bello condiviso e assoluto, basato sulla osservazione della natura e della figura umana in particolare, che non può risiedere nella tecnica, destinata per sua natura intrinseca alla evoluzione e alla transitorietà.
Le teorie urbanistiche basate sul funzionalismo e sulla scomposizione del tempo di vita dell’uomo in “fasi” diverse, corrispondenti a diversi momenti del trascorrere della giornata di tutti e di ciascuno, estrapolate dal taylorismo industriale ed applicate anche alla città, con la divisione in zone a diversa destinazione programmata, hanno trovato la loro espressione grafica e compositiva nelle teorie artistiche “astratte”, che trattano la città come una tavolozza bianca da riempire con disegni che nulla hanno a che vedere con la complessità e ricchezza di relazioni proprie di un insediamento umano. La diffusione di questa teoria, ad ogni livello, fa dire a Marco Romano che, dopo vent’anni di insegnamento di urbanistica, egli non avrebbe saputo dare una risposta adeguata ad un Sindaco che gli avesse chiesto di progettare una città “bella”. E’ ormai abbastanza diffusa nella generazione cui appartiene Romano, non molto lontana da quella a cui appartengo io, la convinzione che l’uomo moderno non sappia più progettare città, tanto meno belle città. Ed è anche maturata la certezza delle cause del disastro, cioè il fallimento completo della disciplina che ha creato generazioni di architetti allevati al gusto “estetico e artistico” dell’astrattezza, con una divaricazione sempre maggiore tra città e abitanti, tra urbs e civitas.
Il disegno urbano moderno non prevede e non considera il fatto che, una volta realizzata, la città contenga persone, che hanno necessità ed emozioni che non trovano soddisfazione in quegli spazi frammentati, pur se progettati unitariamente, privi come sono di una narrazione continua, di un flusso sequenziale di informazioni, di cui gli individui hanno bisogno per muoversi, orientarsi e sentirsi a loro agio nello spazio.
La “bellezza” dell’architetto moderno è invece assolutamente autoreferenziale, prodotto ad uso interno di una categoria di persone capaci solo di immaginare oggetti separati in uno spazio sincopato, discontinuo e inanimato, in cui l'uomo assume lo stesso valore del materiale d’arredo. Scelta consapevole questa, dato che agli abitanti delle case e della città moderne si dovrà “insegnare ad abitare", secondo l'espressione di LC, come se l’abitare non fosse un istinto naturale e primordiale che esclude la possibilità di maestri.
Ma per l’uomo normale, non per l’architetto, la bellezza è eterna, è oggettiva, non necessita di, e non è inquinata da, teorie estetiche imposte dall’alto.
A questo proposito c’è una certa sintonia con Romano in un articolo scritto su Il Covile di Stefano Borselli da Luciano Funari, che è un grido di libertà e di rifiuto dai condizionamenti di una cultura conformista e acritica. Purtroppo non posso linkarlo perché per adesso è stato inviato in newsletter e non è ancora in rete, ma tra poco ci sarà (qui e poi sul N° 586):
“Prima di resuscitare la “Bellezza”, occorre mettere in terapia intensiva l’uomo stesso e applicare un defribillatore alla cultura umanistica, forza generatrice di autocoscienza e libertà! “Anomia, eteronomia, autonomia” scriveva alla lavagna mia madre-professore di liceo- il primo giorno del corso di filosofia: la cultura forma la capacità critica, la libertà ed autonomia di giudizio. Ma non basta! Ci vuole anche il coraggio. L coraggio di proclamare le proprie idee, senza timore alcuno dei mille epiteti e sberleffi che il “mondo” è pronto a lanciare: il mondo dei “conformisti dell’anti-conformismo”, del gregge ossequioso delle conventicole pseudo-intellettuali e delle consorterie politico-affaristiche.
Dunque, per salvare la Bellezza, lanciamo i kamikaze della Verità!....
La Verità, la realtà, lo spirito critico, l’autonomia di giudizio e il coraggio delle proprie idee...
Per salvare l’arte e le nostre città dal Brutto non c’è bisogno di un pubblico di eruditi, esperti in critica sensista: basterebbe tornare alla realtà, alla verità, alla natura delle cose, recuperando almeno la dimensione “organolettica” della fruizione artistica. Se una scultura, una pittura, un’architettura è brutta, lo è e batsa! Chi se ne importa di chi l’ha fatta e dei fiumi di chiacchiere, verstai dai ciarlatani prezzolati per convincerci del contrario, opportunamente mimetizzati dalla cortina fumogena del loro gergo da iniziati: “sfumature sintattiche, semiologia del’infrastruttura e semantica della struttura”, “morfemi di spazio negativo” e “polifemi del dopo immagine architettonico”… “Il significato sintattico non concerne il significato che compete agli elementi o ai rapporti effettivi fra gli elementi ma, piuttosto, concerne il rapporto fra diversi rapporti” (Eisenmann)….
In casuale quanto singolare coincidenza con quanto sopra, è uscito su Il Foglio un articolo di Fabrizio Giorgio, La mirabile visione, su Roggero Musumeci Ferrari Bravo, artista e scrittore dei primi del ‘900, che “rivelò” il canone della Divina Proporzione, cioè la “formula” del bello assoluto.
Dicevo casuale coincidenza, nel senso che certamente non c’è alcuna concertazione, ma non credo sia affatto casuale il fatto che da figure così distanti e diverse l’una dall’altra si affronti lo scivoloso e scandaloso tema della Bellezza. Posso almeno dire che di fronte a tanta bruttezza era finalmente l’ora?
5 maggio 2010
CARLO RIPA DI MEANA, UN ALEMANNO AMLETICO E LE ARCHISTAR
Carlo Ripa di Meana, Presidente di Italia Nostra, rilascia un'intervista sulle incertezze di Alemanno, su Roma e le archistar.
4 maggio 2010
AVANGUARDIA
Pietro Pagliardini
Inaki Abalos, spagnolo, architetto e teorico dell’architettura: come architetto pare sia famoso. Dico pare perché per me è un nome del tutto nuovo. I suoi progetti non appartengono certo al genere che interessano questo blog: grattacielo a forma di cactus, o di Montagne Rocciose, abitazioni nel pieno rispetto della moda con le finestrine verticali irregolari, forme di design. Bisogna leggere le solite riviste per conoscerlo, e io non lo faccio da tempo. Se posso trovargli un merito è quello di fare progetti molto diversi tra loro, non possiede marchio o brand, ed è già un merito.
Come saggista però è straordinario. Ho letto un suo libro del 2000 pubblicato in Italia alla fine del 2009: Il buon abitare. Pensare le case della modernità, Marinotti. Non conosco lo spagnolo ma ci vuole poco a capire che la traduzione è piuttosto libera. Titolo originale: La buena vida. Visita guiada a las casas de la modernidad. Ed in effetti il libro non ha intenti didattici, non è un manuale di progettazione per abitazioni contemporanee, come sembrerebbe dal titolo italiano, ma è proprio una visita guidata a sette abitazioni, di cui una è una scenografia cinematografica, che mostra “come il modo più diffuso tra gli architetti di pensare e progettare lo spazio domestico altro non sia che la materializzazione di certe idee archetipiche sulla casa e sui modi di viverla che hanno origine nella corrente positivista, nonostante da più parti si insista nel segnarla come l’unica ormai esaurita”.
Tra queste visite, la più singolare, divertente e illuminante sulla formazione dell’architetto moderno è quella nella casa che è al centro del film Mon Oncle, di Jacques Tati, attore e regista, e del suo celebre personaggio, Monsieur Hulot. La casa è una villa moderna progettata da un architetto moderno, con tutti i vizi, i tic e gli archetipi della villa moderna, dove vive la famiglia Arpel. La signora Arpel è cugina di Hulot, che, viceversa, vive in una approssimativa casa del centro storico.
In fondo al post una serie di link al film su YouTube, che consiglio di guardare, come consiglio di leggere il libro.
Riporto pochi brani da questa visita guidata:
“Il confronto tra gli Arpel e di monsieur Hulot non scaturisce dai dialoghi o dalle opinioni espresse dai protagonisti…..ma dalle azioni e dagli ambienti che le vedono svolgersi; architettura e urbanistica, al pari dei suoni, sia naturali che artificiali, inducono a certi comportamenti, dei quali possono essere causa e/o conseguenza…..
Di fatto, come vedremo più avanti, la trama riproduce con grande efficacia la lotta tra due atteggiamenti filosofici, la cui influenza durante il XX secolo è stata decisiva. Da un lato il permanere e anzi l’estendersi alla sfera della vita privata del paradigma positivista, della fede nel progresso e nell’ordine come strumenti salvifici, a disposizione dell’uomo per lo sviluppo tecnico e scientifico;… Dall’altro la critica al positivismo condotta da Husserl e Bergson prima, Heidegger e Merleau-Ponty poi, con l’intento di ristabilire un nuovo soggettivismo, o vitalismo, che limitasse l’influenza della scienza e smascherasse il carattere ideologico del positivismo e dei suoi sviluppi sociali e tecnocratici….
In questo aspetto, ma non solo, riscontriamo una similitudine tra la dottrina positivista e l’architetto moderno, nonché l’evidenza della profonda influenza che la prima ebbe sul secondo: l’architetto moderno è incapace di dotare di contenuti concreti i propri appelli, siano all’industrializzazione o alla macchina; è incapace perfino di considerare se stesso uno scienziato. Preferisce comportarsi come un pontefice nell’atto di annunciare l’imminente avvenimento di una mutazione che gli è appena stata rivelata…
Lo spazio della modernità sarà caratterizzato da un’analoga proiezione verso il futuro e dalla rimozione quasi completa del passato e si costruirà, come propugnato dal catechismo positivista, su una serie di leggi e norme universali che delegano al futuro prossimo la propria completa realizzazione. La pianta, la pianificazione e la sua oggettivazione come tecnica di controllo della crescita, l’urbanistica, saranno emblematiche manifestazioni di questa concezione del tempo, un tempo teleologico, perfetto o, per così dire, radioso. Il lavoro sulla pianta si riproduce con un automorfismo scalare dalla casa alla città, rendendo esplicita la tecnica dell’architetto, “tanto necessaria ed immodificabile come una legge fisica”. Lo spazio della casa, la sua atmosfera e la sua memoria, quasi non esistono più; sono stati eliminati per far posto alla quantificazione normativa, all’oggettivazione biologica della famiglia tipo attraverso la pianta, o meglio, l’organizzazione in pianta. La nuova categoria dominate è il “metro quadrato”, il principio ottimizzatore che l’architetto positivista mutua dalle tecniche di produzione industriale espresse da Frank W. Taylor in L’organizzazione scientifica del lavoro (1911) e trasla nella sfera privata”.
E’ difficile non apprezzare la lucidità e la chiarezza espositiva di queste frasi. Mirabile è inoltre la visita alla casa ideale di Mies, in cui traccia un profilo psicologico dell'architetto e la sua corrispondenza con il Superuomo di Nietzsche.
Impossibile non domandarsi perché tra i progetti di Abalos e le sue analisi di questo saggio vi sia una simile frattura. O meglio, perché le conclusioni che ne trae siano così diverse dai contenuti espressi nel libro.
L’atteggiamento per me difficilmente comprensibile è quanta inerzia vi sia nel riuscire a prendere piena consapevolezza del fatto che, se una strada la si riconosce come sbagliata, non c'è altra soluzione che tornare indietro e riprendere quella giusta. Esiste infatti una sorta di schizofrenia tra l’osservazione lucida di ciò che è stato, e di ciò che continua ad essere, degli incommensurabili errori fatti per la casa e per la città che tuttora allungano la loro ombra e di cui ancora si osservano gli effetti nella quotidianità del costruire e dell’amministrare la città, e lo sperare ancora, dopo un secolo di tentativi sbagliati, di trovare una soluzione, invitando a “esercitare la fantasia, stimolare l’interesse che spinga a superare le inerzie acquisite e ad esplorare i limiti della conoscenza della nostra disciplina”, come scrive l’autore nell’epilogo, denunciando l'inerzia altrui ma senza la consapevolezza della propria.
E dice anche altro: “Dobbiamo rallegrarci di avere avuto di aver avuto padri e nonni tanto fortunati ed eccentrici, e godere di esse (le case visitate): si tratta di un vero lusso. Se vogliamo considerarci buoni architetti dovremmo però anche saper essere all’altezza delle circostanze, imparare ad amministrare questo patrimonio e provare, soprattutto, ad accrescerlo e ad attualizzarlo”.
Ecco, probabilmente, la soluzione al problema del dualismo di Abalos il quale, nonostante la sua grande capacità di analisi, la sua raffinata, colta e intelligente interpretazione dei progetti alla luce del pensiero filosofico, è rimasto ancorato inevitabilmente all’idea di avanguardia, alla concezione dell’architetto-pontefice “incapace di dotare di contenuti concreti i propri appelli… incapace perfino di considerare se stesso uno scienziato”.
Uno scienziato, infatti, di fronte a un secolo di errori, avrebbe cambiato strada e avrebbe ricominciato da dove si è manifestato il primo sbaglio nell’esperimento, accorgendosi magari che c’era molto poco da sperimentare.
Come spiegare diversamente il solito, trito appello alla fantasia e alla ricerca, se non come l'impossibilità di sfuggire al condizionamento culturale dell'avanguardia che lui coglie perfettamente nella sua essenza negativa ma che non riesce a scrollarsi di dosso?
Link al film Mon Oncle:
Mon Oncle 1
Mon Oncle 2
Mon Oncle 3
Mon Oncle 4
Mon Oncle 5
Mon Oncle 6
Altri ancora ve ne sono su You Tube, basta cercarli
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1 maggio 2010
ABBATTERE IL CORVIALE E' GIUSTO
La stampa del 30 aprile si interessa del Corviale con due articoli, l’uno sul Corriere della Sera, di Giorgio Montefoschi, l’altro su Il Tempo, di Ettore Maria Mazzola. Atteggiamenti e interessi diversi, dato anche il fatto che l’uno è scrittore e l’altro architetto, per questo è l'articolo di Montefoschi che mi interessa di più, dato che è perfino inutile dire che con E.M. Mazzola sono d’accordo.
Lo capisco, oltre un chilometro di edificio tutto in c.a. non può lasciare indifferenti, è come trovarsi innanzi ad una grande opera di ingegneria, una diga, un ponte, grandi “gesti” anche questi, ma direi più propriamente grandi “segni” nel paesaggio. E il Corviale è un segno nel paesaggio. Ma non è un’opera di ingegneria, che unisce alla forza simbolica del segno anche quella dell’utilità, del progresso tecnico e della vittoria dell’uomo sulla natura; il Corviale dovrebbe essere un luogo dove vivere, dovrebbe essere una città, un insediamento umano. Invece è “una gigantesca nave tirata in secca”, come scrive Montefoschi. Il quale vi entra dentro, lo esplora e riesce a trasmettere al lettore il senso della solitudine, l’assenza di vita, il vuoto.
La descrizione che ne fa non è distaccata ma è priva di preconcetti e realistica: annota il degrado, lo sporco, la mancanza di luoghi di relazione e di negozi, almeno nell’edificio, la chiusura di tutti i locali sede di varie attività sociali in esso presenti. Tutto chiuso, meno un chiosco. Lì c’è qualche segno di vita.
Ma, sorpresa, ecco la conclusione:
“Vado. E mi dico: assessore Buontempo, credo che il suo sogno non si avvererà mai, il Corviale non sarà mai raso al suolo. Come si fa a radere al suolo un segno architettonico che comunque merita rispetto? E come si fa a radere al suolo una città di ottomila abitanti? Se poi il problema è estetico, bisognerebbe radere al suolo mezza Roma. No, il Corviale è solo degradato. E credo che i suoi abitanti, i suoi volontari all’igiene mentale, quelli che vanno al circolo culturale e faranno la Maratonina della Pace il 2 maggio, quelli che stanno alla Banca del Tempo, siano persone migliori di tante altre. Anche se non li ho visti”.
L’errore, figlio del pregiudizio culturale a favore del modernismo, esce fuori alla fine, e nella maniera peggiore: non c’è relazione alcuna tra l'osservazione dei fatti e le conclusioni che ne trae, anzi c’è totale scollamento.
Intanto il Corviale non è una “città”, non nella forma, ma nemmeno nella sostanza; è una grande nave, dunque una macchina destinata ad una funzione specifica e temporanea, non permanente. E in quella grande nave vivono 8000 persone, in secca con essa. E per questo il segno non merita rispetto.
Poi scade nel luogo comune: la colpa è del degrado, come a dire che la colpa è la nostra, cioè dello Stato che non provvede. Solo che Montefoschi sembra, o vuole, non comprendere che il degrado è una condizione di stato intrinseca, e direi necessaria, ad un edificio (se ha senso chiamarlo così) lungo più di un chilometro. Una roba del genere è come una grande macchina che richiede squadre di manutentori specializzate. Ma può avere un senso costruire una casa come se fosse una macchina? Il luogo di vita delle persone costruito con ingranaggi che devono sempre essere oleati per funzionare.
Scrive Inaki Abalos, architetto spagnolo certamente non tradizionalista ma di notevole cultura e capacità di analisi, in Il buon abitare, 2009, parlando della Carta di Atene concepita in crociera: "L'architetto è un turista affascinato dal macchinismo, del quale ignora la meccanica, un turista folgorato dalla bellezza del transatlantico su cui decide di viaggiare per pontificare sulla città, ma che è incapace, proprio mentre visita la Corsica e Atene elaborando la sua città ideale, di mostrare la minima sensibilità di fronte alla memoria storica della città. A questo turista non tremerà la mano quando proporrà la distruzione del passato in favore di una logica sociale macchinica". Il "turista" è Le Corbusier, padre del Corviale.
Il neo-assessore Buomtempo ha ragione: l'edificio deve essere abbattuto, senza divagare o dirottare sulle altre brutture di mezza Roma come fa Montefoschi, perchè il Corviale è un simbolo negativo, e i simboli negativi si abbattono. E' giusto e inevitabile. Come con i tiranni.
Credits:
La foto è tratta da bing ma purtroppo l'edificio è un pò troppo lungo e non entra tutto nel video.
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