di Ettore Maria Mazzola
Sebbene sia ben felice delle provocazioni di Romano (vedi post precedente), devo necessariamente esprimere i miei dubbi – o suggerimenti – atti a dare più credibilità a certe argomentazioni.
Chi mi conosce sa benissimo quanto io sia dalla parte di chi sostenga la necessità di ridare ai cittadini comuni la possibilità di esprimersi sulle realizzazioni urbanistico-architettoniche entro cui dovranno vivere; tutti sanno quanto io possa essere contrario alle presunte élite colte degli architetti che, parlandosi addosso ed autocompiacendosi, impongono la loro ideologia testandola su delle ignare cavie umane, quindi spero che capirete come queste mie critiche non vogliano essere distruttive del testo di Romano, ma piuttosto un suo completamento.
Il motivo principale della critica è che ritengo pericolosa la proposta di una sorta di tabula rasa della normativa edilizia e delle procedure vigenti in nome di una sorta di istigazione al “fai da te ciò che vuoi” … un modus operandi che, ritengo, piuttosto che presagire un miglioramento delle nostre città, sembra prefigurare un far west urbanistico architettonico degno delle peggiori periferie abusive.
Un grosso limite in questo approccio lo vedo anche nella sua difesa basata su discutibili indicazioni storiche questa pratica costruttiva libertaria.
Gli storici dell’architettura, e di conseguenza gli architetti di palato fino, tendono a considerare la formazione della città a partire dall’opera di Alberti e Rossellino a Pienza, mentre la vera coscienza urbanistica italiana si è sviluppata e consolidata molto prima, per celebrare la nuova istituzione dei Comuni all’indomani del feudalesimo, epoca in cui i “signori” realizzavano all’interno delle città dei castellari che nulla avevano a che fare col senso di città degli spazi condivisi, ma piuttosto si configuravano simboli arroccati della propria arrogante presenza bellicosa.
A testimonianza di ciò che dico, sottolineo come gli archivi storici italiani risultino stracolmi di Statuti, Regolamenti, Codici, Trattati, ecc. a partire dal tardo XII secolo (Siena, Vicenza, Città di Castello, Gubbio, Bologna, Perugia, Orvieto, Nocera Umbra, Verona, Pistoia, Parma, Viterbo, Ravenna, ecc.), documenti che dimostrano l’altissima concezione urbanistica degli italiani del medioevo, capaci di concepire e scrivere regole del vivere civile e del costruire nel rispetto degli altri. Se però andiamo a ritroso – sono anni che ci sto lavorando – troviamo che quelle regole, alcune delle quali sono riportate anche nel nostro Codice di Procedura Civile, sono riscontrabili in codici altomedievali e medievali arabi e bizantini [Trattato di Giuliano di Ascalone, sotto Giustiniano I (531-533), Trattato di Ibn Abd al-Hakam (767–829) al Cairo, Trattato di Ibn Dinar (827) a Cordoba, Trattato di Ibn al-Rami a Tunisi (circa 1350)] trattati che a loro volta si rifacevano ai codici costantiniani; ebbene quei codici e trattati, tramite la dominazione bizantina e araba si sono diffusi in tutto il Bacino Mediterraneo, completando un viaggio di andata e ritorno dall’Italia e restando in vigore, anche se non ne abbiamo tracce scritte, nel modo di costruire la città e relazionarsi urbanisticamente tra i suoi cittadini fino all’alba del Rinascimento.
Ciò vuol dire che le città sono – SEMPRE – state costruite in base a delle regole, sicuramente più snelle e logiche di quelle post-lecorbusieriane, e mai in nome del fai da te; o meglio, il fai da te è sempre stato ammesso, ma nel rispetto degli altri, perché un tempo vigevano le regole del vivere civile, del rispetto del bene comune, del rispetto del decoro urbano, ecc., tutte regole che la presunta “civiltà” contemporanea ha perduto.
Se vogliamo quindi riportare le città ad essere più armoniose, e i cittadini a realizzare in maniera più libera (nel rispetto altrui), bisogna prima risvegliare il senso civico … ed oggi non mi sembra affatto che ce ne siano le condizioni! Occorrerebbero anni di insegnamento dell’Educazione Civica (vergognosamente eliminata dall’insegnamento scolastico), occorrerebbe rivedere il modo di insegnare la storia dell’arte e dell’architettura, imponendo anche quello della Storia dell’Urbanistica (oggi inesistente nelle scuole superiori), occorrerebbe imporre l’insegnamento della Sociologia Urbana, affiancato a quello dell’Urbanistica, per far comprendere a chiunque, e non solo a pochi eletti che andranno a studiare architettura ed urbanistica (peraltro con tutti i limiti dell’ideologia), quelli che sono gli effetti collaterali dell’urbanistica e dell’architettura … solo allora potrebbe rendersi possibile operare come Romano suggerisce.
Potrei andare avanti moltissimo … ma rischierei di essere prolisso, quindi rimando ai miei tanti articoli sparsi nel web ed ai miei libri per far capire meglio ciò che intendo, però devo fare un’ultima annotazione, questa volta profondamente critica.
Romano dice:
«E se dobbiamo oggi levare una bandiera di difesa della libertà del cittadino nella propria casa, alla nostra generazione toccherebbe abolire subito tutte le norme che concernono il suo interno, dove ciascuno dovrebbe essere libero di ridurre l’altezza dei locali ai quei 2,26 metri che Le Corbusier considerava il modulo perfetto – o beninteso a qualsiasi misura ciascuno creda migliore – di scegliere la dimensione delle stanze, dei corridoi, dei bagni e di quant’altro giudichi confacente alla sua personalità, di decidere se e come illuminarli o arearli, e chissà che una casa senza finestre non faccia riparo alle crescenti polveri inquinanti sparse nell’aria cittadina. (…)»
Ebbene questa libertà non è percorribile, né può esserlo l’idea che si possa fare a meno, in nome di una presunta libertà, di conquiste scientifiche come quelle derivanti dall’eziologia e dalla fisiologia e neurofisiologia!
Consentire di costruire ambienti dimensionati in quel modo, o addirittura non ventilati significa buttare nel cesso anni di studi che hanno portato a ridurre la mortalità delle persone grazie anche al miglioramento delle condizioni di vita delle abitazioni … cosa che Le Corbusier, dall’alto della sua presunzione ed ignoranza, volle fingere di non sapere, per il comodo degli speculatori suoi sponsors.
Il risultato di quell’ignoranza portò gli architetti, gli urbanisti, e prima di loro i docenti universitari a fare una grandissima confusione, sempre negli interessi degli speculatori (fondiari ed edilizi), tra “densità urbana” e “densità abitativa”, portando le città ad espandersi a macchia d’olio in nome di una errata criminalizzazione dei centri storici – densi e compatti – che nulla aveva a che fare con le condizioni di vita all’interno degli edifici.
Inutile quindi far notare l’ossimoro delle stanze senza finestre per prevenire crescenti polveri inquinanti sparse nell’aria cittadina: stanze senza finestre = dipendenza dall’aria condizionata = aumento dell’inquinamento = aumento delle polveri sottili!
Detto ciò chiudo con la speranza che questo scritto aiuti tutti, Romano incluso, a riflettere sulla frase “est modus in rebus”: … così come fu un grande errore quello di spazzare tutto il passato in nome dell’ideologia modernista (Carta di Atene e Le Corbusier), altrettanto e peggio ancora potrebbe succedere nel caso si facesse repentinamente, e senza nuove regole, piazza pulita, in nome della demagogia, di tutto ciò che abbiamo conquistato in materia di ecologia e salute pubblica!
7 aprile 2013
SUL NUOVO LIBRO DI MARCO ROMANO "LIBERI DI COSTRUIRE"
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10 commenti:
Caro Ettore,
non tutto ciò che scrive Romano è condivisibile, ovviamente, e ci sono anche molte stravaganze nel suo libro, però certamente il mio post non rende giustizia del tutto a Romano e un commento non può riassumere 170 pagine.
Romano non disconosce la necessità di regole e quindi di un piano, nè nel passato nè nel futuro.
Per il passato scrive:
"Ma la vera originalità europea sarà quella di avere inventato, accanto ai temi collettivi,....una varietà di piazze e di strade tematizzate (la piazza principale, la piazza di mercato, la piazza del mercato, la piazza dei conventi, la piazza della chiesa, la piazza monumentale,, la piazza nazionale , lo square, e poi la strada principale, la strada monumentale,, la strada trionfale, la passeggiata, il boulevard, e quei lunghi viali alberati che si perdono nella camopagna) disposte deliberatamente una in successione con l'altra nella convinzione che in questo modo il loro effetto estetico sarebbe stato esaltato..."
E ancora:
"nel corso di questo millennio (il millennio scorso ovviamente) le città hanno faticosamente imparato....a gestire la giurisdizione sul loro territorio per dare corpo al sogno della libertà e dell'eguaglianza intrise alla sua democrazia, dando vita ad una secolare esperienza che la dissacrante prospettiva di una modernità inconsapevole, con le sue teorie sulla città razionale, ha spavaldamente gettato alle ortiche...".
Quindi Romano ha ben chiaro che le città sono nate con progetti consapevoli e quindi con regole, non a caso parla di giurisdizione.
E per il futuro ho già scritto nel post. Poi la visione della città di Marco Romano è molto vicina a quella dei grandi viali di stampo ottocentesco, ma anche ai grandi assi viari del seicento che convergono al centro che lui giustifica, lo ha sempre fatto, come fattore di riequilibrio delle differenze sociali, nel senso che il centro, per i suoi valori immobiliari più alti è appannaggio dei più ricchi ma anche coloro che meno possiedono devono sentirsi parte della civitas con un affaccio sul viale. E' una visione questa alquanto singolare difficile da comprendere sia intuitivamente che razionalmente, però questa è.
Quanto alle case senza finestre io credo sia una vera provocazione, un paradosso per dire che ognuno deve essere libero in casa propria. Fatto questo di cui io sono personalmente convinto, dopo tanti anni di rapporto personale con i soci delle cooperative i quali non comprendevano certe leggi sulle superfici minime e dovevano sacrificare, per la loro prima e probabilmente unica casa fatta con sacrifici immani, l'intimità della propria famiglia perchè la grande mamma dello stato, che pensava alla loro salute fisica, trascurava però la loro intimità, i loro bisogni, i loro desideri. Libertà è anche poter fare scelte sbagliate che non danneggiano gli altri.
Su questo sono spianato assolutamente con Romano. Consigliare e convincere sì, costringere no.
Grazie del tuo post
Pietro
grazie Pietro!
Trovo giuste le critiche di Ettore. In più, ce ne sarebbero anche altre da fare, soprattutto sul metodo con cui costruisce le sue argomentazioni (tutte basate su "validazioni" storiciste, e pertanto, come anche altri hanno rilevato, spesso assai contraddittorie).
Insomma, non funziona. E' certamente piacevole, se non hai mai letto i precenti testi di Romano, sentirlo raccontare della città dei secoli passati. Ma in questo contesto non funziona, non è sufficiente.
Ettore, non ho letto il libro in questione, ed in tutta onestà non credo troverò mai l'interesse per farlo. Mi permetto però un paio di considerazioni sparse sul tuo post.
Durante il liceo, negli anni '80, mi innamorai di un libro del quale non ricordo il nome, ma l'autore (Leonardo Benevolo), la forma “anomala” (più lungo che alto) e soprattutto il contenuto: era pieno di disegni di piani di città antiche, con le griglie di strade delle città greche. Allora però non mi venne chiarito che quanto là trattato fosse una “arte” (nel suo significato vicino ad “artigianato”, quindi tecnica, ma che oggi sarebbe opportuno si avvicinasse di più alla scienza) chiamata “urbanistica”.
Questo per chiarire due cose:
1) probabilmente 30 anni fa qualche tentativo di insegnamento dei rudimenti di pianificazione urbana era stato fatto, ma se si aveva la sfortuna di avere un insegnante di “storia dell’arte” interessata solo a disegno, statue e dipinti vari, come nel mio caso, risultava impossibile solo rendersi conto di cosa fosse l’urbanistica.
2) mi viene da pensare che l’origine dell’urbanistica in Europa, intesa almeno come organizzazione delle città (è quanto io intendo per “urbanistica”), sia riconducibile alle strutture viarie a scacchiera disegnate dagli antichi greci.
Un appunto su Marco Romano. Forse dipende dalla cultura profondamente corrotta ed innatamente criminale di non pochi italiani, ma l’interpretazione che si ha in questo Paese di liberalismo mette i brividi, perché si riesce a tradurre solo con espressioni idiomatiche tipo “faccio come mi pare”, “chi se ne frega”, “mors tua, vita mea” e soprattutto “norme e leggi stanno là per essere aggirate”. Se poi questa cultura fa da humus a coloro che, chissà per quale motivazione, si sentono artisti e “creatori”, il gioco è fatto, e ci troviamo di fronte a frasi indecorose come quella che tu riporti.
Caro Fabrizio
non posso che risponderti con le parole di Marco Romano:
"Quell'abusivismo dilagante non è la perversa conseguenza di un'industrializzazione selvaggia o di una sanguinosa speculazione edilizia o di un'imperante illegalità, è soltanto la conseguenza di piani regolatori che non hanno inteso riconoscere, nel nome dei criteri arbitrari che guidano la pianificazione totalitaria degli esperti, il legittimo desiderio di chi cittadino vorrebbe diventare, il diritto di poter accedere al possesso della casa....
Le tecniche sulle cui basi sono stati redatti i piani regolatori dettati dai principi della pianificazione sono peraltro clamorosamente labili, perchè in una società libera non possiamo prevedere quali saranno i comportamenti futuri delle persone, quale sarà la propensione alla natalità, quale l'intesnità delle migrazioni "legittime" - quelle da altre città - e tantomeno di quelle irregolari, né possiamo conoscere quale sarà la dimensione delle case perchè frutto del desiderio e non del bisogno, né immaginare quanti single pretenderanno una casa simile a quella familiare, sicchè le loro revisioni risulteranno inadeguate....
L'espressione visibile del nostro pervasivo sentimento dell'eguaglianza imposto dai riformatori come Tommaso Moro o dagli stitici pianificatori contemporanei, le case tutte eguali nel grado zero della loro espressività, i quartieri popolari disegnati da asettici architetti simili a schiere di lavatrici, ma l'eguaglianza che ha come orizzonte non la casa del vicino ma la casa più ricca della città, che la speranza di mobilità connessa alla civitas mi consente di sognare e di perseguire passo passo nel corso della mia vita e in quella dei miei figli e dei miei nipoti".
Concludo con un sassolino che si è voluto togliere dalle scarpe il presidente Napolitano proprio oggi, agli sgoccioli del suo mandato:
"Non è di questo che parlano certe campagne che si vorrebbero moralizzatrici e in realtà si rivelano nel loro fanatismo negatrici e distruttive della politica".
Non è criminalizzando un popolo e un paese come corrotto e immorale che si risolvono i problemi, anzi, si accentuano e si esasperano. E' facile essere moralisti, rende e costa poco, difficile è capire il problema e risolverlo.
Ciao
Pietro
Caro Pietro, per tutta la stima che provo per te, ti rispondo in maniera succinta (forse abusando dell'uso della litote) perché sarebbe sguaiato fare polemiche qua, in casa tua.
Orbene, diciamo che quanto afferma Romano non è, diciamo così, "illuminante", mentre Giorgio Napolitano negli anni non ha fatto poi molto per guadagnarsi la mia stima.
Devo però un chiarimento: generalizzare è errato quanto meschino, ma non tenere conto della cultura e della storia di determinati gruppi etnici (“Popolo” - non inteso come plebe - è concetto riconducibile al mito della sovrapponibilità tra Stato e Nazione, nato a metà ottocento e che tanto male ha fatto fino a metà ‘900, oggi insensato, ed utile solo nella propaganda politica) è terribilmente ottuso. E con questa frase implicitamente chiarisco che sono io il primo a pensare che le città siano fatte di persone e non di piani regolatori. Ma mi guardo bene dall'inneggiare all'abusivismo.
Il discorso si dovrebbe spostare sulla classe dirigente italiana, anche quella "tecnica", su come viene selezionata, ma sarebbe troppo lungo e noioso. E soprattutto sarebbe troppo fastidioso sentirsi dare ancora del moralista, semplicemente perché penso che chi agisce scorrettamente e chi commette reati debba pagare invece di venire perdonato o, peggio, premiato. A questo siamo arrivati... se si rispettano le regole si è moralisti.
Caro Fabrizio
prima di tutto sgomberiamo il campo da un equivoco: questa è casa mia come dici te, solo fino al momento in cui non si passa alle offese, alle calunnie o alle volgarità, per il resto, come ben sa chi ha lasciato commenti, polemiche in libertà.
Popolo è una definizione piuttosto frequente in antropologia e non ha niente di disdicevole, anzi è il riconoscimento dell'appartenenza di un determinato gruppo di individui ad una cultura, ad una terra, ad una religione o ad altri fattori analoghi. Non credo che parlare di popolo ebraico sia scorretto o disdicevole, come non credo lo sia attribuirlo a quello italiano. Magari in questo caso si può discutere se siamo uno o più popoli. Se non sbaglio, inoltre, questo termine è usato nella nostra Costituzione (la sovranità appartiene al popolo che la esercita ecc.ecc.)quindi non c'è scandalo.
Io ti invito però a leggere il libro e non capisco perchè ti ostini a parlare di abusivismo in maniera alquanto meccanica. Romano, alla fine del salmo, dice che l'abuso esiste nel momento in cui esiste una legge che lo decreta tale, mentre lui assume a metro un altro tipo di legge, giusta o sbagliata che sia, e quindi dichiara che quella dello stato è sbagliata. Tutto qui.
Aggiungo che dire che le leggi vanno rispettate è una ovvietà che però, ripetuta all'infinito, non da te, ma dal mondo delle anime candide che credono, o fanno finta di credere, che il mando sia in bianco e nero, assume tutto un altro significato. I grandi moralismi hanno lo scopo di distruggere la democrazia per mettere il popolo nelle mani di coloro ch efanno arrivare i treni in orario. Infatti Mussolini era onestissimo e anche Hitler non mi risulta sia scappato con il malloppo. Suppongo che anche Stalin lo fosse. Churchill invece credo abbia avuto qualche problemino, però ci ha salvato da quello onesto.
Il mondo è complicato, parecchio complicato, più complicato di come ultimamente lo si vuole interessatamente rappresentare.
Ciao
Pietro
Mi sa che ci siamo spinti un po' fuori tema. Ti rispondo privatamente appena posso.
Volentieri Fabrizio riceverò la tua lettera, anche con la dovuta calma, però non credo che ci siamo spinti troppo fuori tema.
Discutere di città, e ancor più trattarne professionalmente, cosa che io non faccio da urbanista, perchè non lo sono, non può mai essere disgiunto da una visione "politica", da una visione cioè dell'uomo agente all'interno della polis. L'architettura (e l'urbanistica) è arte civica, oltre che tecnica, riguarda la vita dei singoli individui e delle relazioni tra i singoli, cioè la società nel suo complesso. Cosa facciamo noi se non organizzare lo spazio entro cui l'uomo si muove e compie tutte le sue azioni? Quindi i fenomeni non possono essere separati, non esiste l'urbanistica da una parte e la politica dall'altra. Romano fa questo. Si potrà non essere d'accordo ma la sua impostazione è intrinsecamente giusta anche se possono essere considerate sbagliate le conclusioni che ne trae. In fondo si può ben riconoscere che anche le Corbusier e tutta l'avanguardia del novecento ha sbagliato completamente le conclusioni, ma la premessa, cioè il porsi di fronte alla modernità in maniera problematica, era doverosa oltre che ineluttabile.
Rimediare a quei guasti è la ricerca e l'obbligo di questo momento, già in grave ritardo in verità. In questa ricerca Romano, ribalta completamente l'unità di misura. Io non condivido di Romano la semplificazione che lui fa della città, riducendola ad una somma di viali e boulevard e più che mai non condivido il fatto che la presenti come l'unica scelta possibile. Non è che possiamo immaginare tutte le città ad immagine e somiglianza di Parigi o del piano di Milano o della Roma barocca. Ma il resto, il principio della cittadinanza, la libertà e il diritto di ogni cittadino a desiderare e realizzare la casa per sè e per i propri figli senza il sovrappiù di imposizione dello stato per mano degli "esperti" lo sento "politicamente" molto vicino.
Ciao
Pietro
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