Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


13 ottobre 2011

L'INGANNO DELL'ARCHITETTURA COME TESTIMONE DEL TEMPO

Torno a casa e, in attesa di cena, sfoglio la rivista trimestrale della nostra cassa di previdenza e vedo un articolo dal titolo “Il nuovo e il vecchio. Riflessioni sul dibattito attuale per un possibile dialogo (tutto italiano)”, di Antonio Crobe. Grazie a Internet vedo che è un delegato della Cassa, ma questo non è importante.
Mi interessa il “possibile dialogo”, cioè la proposta, proprio oggi, il giorno dedicato, diciamo così, al rompighiaccio di Dresda.

Mi ha anche colpito il commento di biz, cioè Guido Aragona al post precedente perché ho la sensazione che quello che lui scrive abbia un fondamento logico più sottile di come appaia ad una prima lettura e so che non è certo un cieco adoratore di scriteriati progetti.

C’è prima un inquadramento generale dei termini del problema, qualche giudizio sbrigativo - ma non sono certo io titolato a far critiche del genere - e infine la parte propositiva.
La possibile soluzione consiste nella “conoscenza profonda del passato [da cui] si possono trarre i principi per la progettazione del nuovo che risulterà fortemente ancorato alla storia e che costituirà un valore aggiunto. Bisogna discernere sia da una conservazione assoluta, tesa alla musealizzazione dell’esistente, che dal criterio di intervento sul costruito inteso come sopraffazione del testo, al fine di aggiungervi la propria griffe. L’intera questione deve, forse, essere ricondotta nell’alveo del “progetto” (virgolettato nel testo), luogo dell’equilibrio di esigenze complesse”.


E poi continua con l’architetto che ha il “compito di amministrare il cambiamento in atto, un inserimento nuovo nel vecchio che deve essere soprattutto un innesto, che è rispetto della memoria, ma anche nuova proposta”. Alcune altre considerazioni dello stesso tenore per concludere che occorre “evitare così di cadere nell’immobilismo”.

Eccoci al dunque, evitare l’immobilismo attraverso il progetto. Ma cos’è l’immobilismo, a quali casi pensa l’autore, a quali situazioni fa riferimento? Immobilismo ha valenza negativa in molti campi ma in molti altri stare immobili può garantire la soluzione e la sopravvivenza. In politica non si può stare sempre immobili, ma in certi casi farlo può evitare disastri. Senza immobilismo la guerra fredda sarebbe stata anche troppo calda, ad esempio. Quindi cominciamo col ribaltare i termini del discorso perché è sempre lo stesso trucco: dare per scontato, attraverso l’uso di termini che hanno un consolidato quanto non sempre giustificato valore negativo, che certe condizioni sono sbagliate e vanno superate per aprire la strada al nuovo E’ una tecnica, in gran parte involontaria, ma molto subdola.

Invece che parlare di immobilismo, domandiamoci dove, perché e in quali casi si dovrebbe intervenire nei centri storici con nuove costruzioni. Domandiamoci perché “Caratteristica inconfondibile delle nostre città storiche è la stratificazione di epoche diverse, la capacità di cambiare aspetto adattandosi ai contesti sociali e culturali che si avvicendano nel tempo” e oggi, invece, questa caratteristica è fortemente e, secondo me, giustamente, contestata!
Non è difficile la risposta: il modernismo - è un dato oggettivo - ha voluto rompere con la storia e le tradizioni ma la memoria non è così facile da cancellare come sembra. Certo, si può distruggere e demolire ma la memoria resta ugualmente e, quanto più traumatica essa sarà, tanto più forte sarà il desiderio umanissimo di riavere ciò che è andato perduto.
Non è neppure una condizione culturale, piuttosto è antropologica. Si dà il caso che da una parte i nostri centri storici esistono, sono lì in piedi, nonostante il tempo, sopravvissuti ai terremoti - salvo i casi in cui è intervenuta malamente la modernità - e dall’altra c’è la città nuova, le cui case sembrano soddisfare meglio esigenze del vivere contemporaneo ma dove lo spazio pubblico è assente o sbagliato e dove l’insieme non appaga, non è appagante o almeno, a livello puramente emotivo e magari non perfettamente consapevole, se ne intuisce il differenziale di valore tra l’una e l’altra parte di città. Il dubbio, come minimo, dovrebbe essere, ed è, lecito per tutti perché ogni cambiamento, ogni trasformazione è da decenni un peggioramento.
Solo architetti e politici, nella loro smania di apparire, di cogliere una visibilità e un successo effimero, gli uni per vanità professionale, gli altri per consenso elettorale, sembrano convinti del contrario.

Ma c’è un paradosso straordinario in questa volontà di lasciare il segno con sulle spalle il bagaglio di una “conoscenza profonda del passato”, come è scritto nell’articolo: gli innovatori del passato non ragionavano in termici storicistici, operavano in continuità con il loro presente, talvolta a piccoli passi, talvolta con concezioni diverse e “dissonanti”, ma sempre e comunque nel solco di una evoluzione. La rottura avvenuta nei primi anni del ‘900 ha stravolto questo metodo, la specializzazione estrema del mestiere di architetto, la rigida periodizzazione degli “stili”, ciascuno dei quali visto come una necessaria e consapevole volontà di cambiamento, attribuendone uno per ciascun periodo, ha fatto perdere ogni legame effettivo, almeno a livello spontaneo, con il passato e con ciò che di esso è rimasto nella città.

Solo una logica intellettualistica e autoreferenziale del genere può far pensare che sia naturale e doveroso “lasciare il segno di un’epoca”. Non esiste motivo razionale che giustifichi questa condizione, siamo in presenza invece di un assioma e non di un teorema che prevede dimostrazione. Il trucco usato è quello di scambiare il progresso, inteso come miglioramento delle condizioni materiali di vita delle persone, con una sorta di destino che ci costringe a testimoniare a noi stessi e ai posteri ciò che è stato fatto in una certa frazione di tempo. E’come se la nostra vita dovesse essere scritta in una timeline in cui, ad ogni settore temporale “debba” corrispondere una traccia caratteristica di quel periodo e diversa dalle altre, a dimostrazione del “progresso fatto”.

Ebbene, coloro che credono in questa condizione assiomatica, non hanno altra possibilità di intervenire nei contesti storici che con progetti di rottura. Per assurdo, si può dire che il rompighiaccio di Dresda sia, in quella logica, la migliore espressione dell’assioma di lasciare testimonianze del nostro tempo.
Chi invece immagina di lasciare un segno “soft” è, ed estremizzo un concetto, afflitto da ingenuità perché qualunque tipo di diversità sarà comunque leggibile e non potrà essere evolutiva rispetto a ciò che c’è.

A meno che, come scrive Paolo Marconi, non si consideri l’architettura antica come viva e, conoscendone le tecniche e ricostruendone le possibilità di evoluzione, tipologicamente e morfologicamente, quindi con un atteggiamento che prevede anche la ricostruzione di parti completamente nuove e non documentate ma coerenti con quelle esistenti, si intervenga come su un corpo vivo ricostruendone o costruendone ex-novo nuovi “organi” e “tessuti” ma in armonia con quelli esistenti, esattamente come si farebbe, se fosse possibile, con un corpo umano.
Così facendo si produrrebbero quelli che molti chiamano il “falso storico” – storico perché pronunciato con l’idea storicistica che ogni epoca debba avere per legge la sua espressione – e che pochi invece chiamano l'“autentico contemporaneo”.

La terza via è, anche in questo campo, una illusione, una aspirazione “debole” perché lasciata al “progetto”, come scrive Crobe, vale a dire al progettista, al singolo, all’artista sensibile. E’ possibile che ne esistano, non lo si può certo escludere, ma come dato statistico e di semplice osservazione del reale si può dire che è altamente improbabile, mentre è quasi certo che il risultato sarà disastroso.

Anche perché si pone il dilemma: chi giudica l’artista?

Ho ragionato in maniera estrema ma solo in questo modo si può affrontare un tema del genere, non con il buonismo architettonico che nasconde spesso la medesima volontà, mascherata, di lasciare il segno di coloro che invece non hanno pudore. Forse biz pensava anche a questo.

14 commenti:

ettore maria ha detto...

Caro Pietro, questo è un commento che avevo inviato ad una persona che, commentando il mio post su Dresda pubblicato su Archiwatch, aveva espresso le sue perplessità aprendo il capitolo della "falsificazione della storia".
Anche se sembra difficile ammetterlo, quello del “falso storico” è un falso problema che interessa solo ad una cerchia ristratta di storicisti e agli architetti che non sono in grado di confrontarsi con la tradizione.
Giusto per rammentare come stanno le cose ti ricordo che, se Winkelmann ha avuto la possibilità di parlare della statuaria greca lo ha fatto grazie ai meravigliosi “falsi” romani che riempiono i musei di tutto il mondo. Se tanti artisti hanno potuto sviluppare una loro corrente, lo hanno fatto partendo dall’imitazione dei grandi esempi del passato, sui quali hanno fatto delle variazioni sul tema (suggerisco di dare un’occhiata al catalogo della bellissima mostra tenutasi una dozzina di anni fa al Palazzo delle Esposizioni, intitolata “L’Idea del Bello”). Se non ci fosse stata l’opera di tal Bartolomeo Cavaceppi, molte delle statue che anche ammiriamo nei musei, risulterebbero mutile e di difficile interpretazione anatomica, eppure il pubblico oggi le ammira incondizionatamente. Se in epoca antica non si fosse proceduto con restauri e ricostruzioni (quindi false?) di monumenti distrutti da incendi e crolli, oggi non potremmo ammirare molti monumenti antichi sopravvissuti. Che dire poi degli edifici i cui cantieri sono durati secoli pur rispettando il progetto originario? Che dire del Duomo di Firenze, per esempio, dove i direttori dei lavori dovevano giurare sulla Bibbia e sul modello di Neri di Fioravante che avrebbero realizzato quella cupola che oggi chiamiamo di Brunelleschi?
Purtroppo il lavaggio del cervello che ci è stato fatto per decenni ci impedisce di ammettere la dura realtà, che ci dice che, per il comodo di qualcuno, tutti gli altri devono subire una lettura ideologica della storia. Ha ragione la dottoressa Morandi che nel suo commento al post su Dresda sul Archiwatch ha detto “Ho paura che la tecnologia incoraggi la pigrizia”

Pietro Pagliardini ha detto...

Caro Ettore, nella foto a sinistra c'è il Palazzo pubblico di Siena. Le due ali più basse sono state ogegtto di sopraelevazione di un piano mi pare, ma non vorrei sbagliare, nel 600. Proviamo a immaginare se capitasse oggi di dover sopraelevare.
Primo: in Italia, in effetti, non si farebbe e non verrebbe nemmeno in testa a nessuno ma, se si superasse questo ostacolo verrebbe bandito un concorso e potrebbe vincere un progetto tipo Dresa. E io mi immagino quante pensiline in acciaio e vetro si vedrebbero nei progetti. Domanda: quanti sanno e/o si accorgono della sopraelevazione? Quanti pensano al falso storico?
Ciao
Pietro

ettore maria ha detto...

caro Pietro,
non sbagli affatto, e infatti è un tema di cui parlo ai miei studenti durante il field trip in Toscana.
Ci sono tantissimi casi come quello, magari meno eclatanti, ma servono ugualmente a far riflettere.
Ciao
Ettore

biz ha detto...

Grazie per aver dato particolare evidenza alla mia modesta opinione, Pietro

Esiste una questione del "moloch" della Storia, più o meno come indicato nello scritto e nei commenti.
Ma appunto: al netto di questo "moloch", io devo giudicare l'intervento di Libeskind a Dresda in quanto tale. E anche su cosa sta andando. Non è un edificio di particolare pregio, ancorchè non recente, e comunque pregevole. Dato anche il soggetto, particolare, dato il rapporto dimensionale fra la parte in prospetto, in addizione ecc. ecc. secondo me l'intervento funziona, è accettabile (e probabilmente, anche abbastanza reversibile).
Sarei invece storicista, allo stesso modo, se considerassi del tutto TABU' un intervento che non sia del tutto mimetico.
Bisogna cercare di liberarsi di questo Moloch della Storia in toto! quindi, non considerare tabù nè l'intervento mimetico, nè non mimetico, nè ogni altro tipo di intervento, ma considerare ogni intervento a sè, con le sue opportunità, ecc.
La vedo così. Ciao

Pietro Pagliardini ha detto...

biz, in qualche modo avevo visto giusto nel tuo pensiero. La mia estremizzazione è di tipo esclusivamente logico ma non è detto che la logica vada per forza a braccetto con la verità o con la realtà (basta considerare i paradossi di Zenone che hanno una logica interna stringente ma sempre paradossi restano perché nella realtà Achille supera la tartaruga e la freccia arriva al bersaglio). Questo tipo di logica ha solo la funzione di non affrontare il tema in maniera superficiale e in base a luoghi comuni e ad opinioni consolidate e non necessariamente giuste.
E comunque, nell'ambito di quel discorso io credo sia ugualmente sbagliato affrontarlo come fa Libeskind. Quanto al fatto di considerare nell'alveo dello storicismo chi ritiene di dover progettare in maniera evolutiva, come nel caso di Marconi, io ritengo che non corrisponda al vero perché lui non aderisce ad uno stile mummificato e cristallizzato ma, semplicemente, considera l'edificio come una struttura viva e attuale, ne conosce le tecniche costruttive e l'evoluzione tipologica, si inserisce in quella logica e lo trasforma alla luce di quella che è la funzione e la situazione del momento attuale. Insomma, non lo considera un monumento ma un edificio vivo che ha particolari caratteristiche diverse dagli altri. Esattamente come te, o chiunque altro, se dovessi restaurare o sopraelevare un edificio in c.a. non interverresti con tecniche costruttive diverse e incompatibili, e nessuno avrebbe niente a che ridire e non ti potrebbe certo appiccicare il marchio di storicista.
Nel merito, come fai te, a me quello di Dresda sembra un progetto veramente scadente, già visto da parte dello stesso autore, "facile" nella logica di stupire fregandosene di quello che esiste. In fondo non conta niente la preesistenza perché avrebbe potuto essere una qualsiasi cortina edilizia e non sarebbe cambiato niente. Lui voleva fare un oggetto "vistoso", un "gesto" violento e cosa c'è di meglio di una puntazza che sembra uscire dalla terra come la kriptonite in uno dei film di Superman? Se ricordi l'edificio di Fuksas nel centro storico di Roma come potresti dire che uno è peggiore o migliore dell'altro? In base a cosa? L'unica differenza, ma è di pelle, consiste nel fatto che quello di Fuksas è "moscio" e amebico, questo di Libeskind è hard e prevaricante.
Ciao
Pietro

Anonimo ha detto...

Caro Pietro, le considerazioni contro coloro che vogliono “lasciare il segno di un’epoca” sono del tutto condivisibili e allo stesso tempo è giusta anche la difesa che fai del “falso storico”.
E’ vero inoltre che “gli innovatori del passato non ragionavano in termici storicistici, operavano in continuità con il loro presente, talvolta a piccoli passi, talvolta con concezioni diverse e “dissonanti”, ma sempre e comunque nel solco di una evoluzione”.
Quel termine “dissonante” ha stimolato in me alcune considerazioni su come gli stessi argomenti del post ,siano stati in passato usati nella critica musicale, in modo quasi identico.
Il quartetto d’archi di Debussy (ne ha scritto uno solo, in sol min) alla prima esecuzione fu fischiato “sonoramente”. Stessa sorte per la Primavera di Stravinsky. Il Pulcinella Suite (sempre di Stravinsky), ricalcato su schemi musicali di Pergolesi, fu invece accolto benevolmente. Certo il danno ambientale di pentagrammi sfrontati (acufeni o ipoacusia temporanea) è molto inferiore a quello che può produrre l’architettura. Il tema, però, del rapporto con la tradizione, è del tutto simile. Evoluzione a “piccoli passi” o discontinuità marcata? “Falso storico”, come è stato definito il “Pulcinella”, o Bläser quintet (dodecafonico e di estrema rottura) di Schönberg ?
Lo Stravinsky alla “Pergolesi” piace a tutti, subito. Schönberg piace a pochissimi. Personalmente, la serie di dodici note che caratterizza il quintetto l’ho imparata a memoria ma il “Bläser”, dopo vari ascolti, l’ho abbandonato definitivamente nella discoteca (disco e partitura).
Possiamo dire che “la rottura avvenuta nei primi anni del ‘900” ha interessato un po’ tutte le arti e non solo l’architettura.
Ma, con altrettanta sicurezza, possiamo dire che “le rotture” dei primi del ‘900 hanno contribuito a modificare, comunque, la nostra sensibilità.
Schönberg, nei suoi scritti, ha dimostrato che la sua musica, da moltissimi considerata cacofonica, è in perfetta continuità col passato ( e certamente, tra lui e Bach, c’è un filo logico per esempio nell’uso dell’imitazione canonica).
Sempre Schönberg, in un altro testo, ha introdotto il concetto di “emancipazione della dissonanza”. In breve sintesi, ha dimostrato che musiche un tempo considerate cacofoniche (poichè troppo dissonanti) hanno poi trovato un grande successo nelle generazioni successive. E infatti, dopo qualche decennio dalla “Prima”, il quartetto d’archi di Debussy e la Saga della Primavera di Stravinsky hanno avuto grande successo.
Ricordi “Some Velvet Morning” dei Vanilla Fudge? Quando eravamo ragazzi fece furore. In quel pezzo, i Vanilla copiarono Stravinsky nè più nè meno come il grande “Igor” aveva fatto prima con Pergolesi.
“L’emancipazione della dissonanza” c’è sempre stata, nella storia, anche in architettura.
“L’arte di modificare la crosta terrestre al fine di soddisfare le esigenze umane” è sempre stata un mezzo di comunicazione di massa. L’architettura deve essere sempre utile ma deve essere anche bella. Molte dissonanze, nella storia dell’architettura, si sono emancipate e hanno trovato il favore delle masse. La differenza, quindi, non può essere solo tra architetture dentro il solco della storia o fuori. Anche perché il “solco” non è facilmente individuabile. La vera differenza resta solo quella tra belle e brutte architetture.
In urbanistica, e ad esempio per quello che riguarda gli spazi urbani, le regole devono essere più ferree e tradizionali visto che nella storia le modifiche sono state sempre “misurate”.
Nel linguaggio architettonico invece le cose sono un po’ diverse.
Gli abitanti di Dresda hanno un teatro molto tradizionale dove però ascoltano spesso anche la musica di Schönberg ...
Gli abitanti di Dresda hanno anche un “Museo Militare” che rispetta gli allineamenti stradali ma con qualcosa che a noi sembra molto ... “dissonante”!
Alessandro

Pietro Pagliardini ha detto...

Interessante il concetto di "emancipazione della dissonanza", una sorta di attitudine a digerire, con il tempo, qualsiasi cosa in un primo momento non piaccia d'istinto.
Purtroppo per me in campo musicale devo serenamente subire la tua competenza di architetto-musicista-jazzista, non avendo strumentazione tecnica e culturale per replicare. Questo non mi impedisce però di affermare che Shoenberg mi risulta sempre indigesto. Mi sembra, inoltre, che certi sperimentalismi musicali siano definitivamente deceduti e mi pare anche che la tendenza attuale, almeno a livello di massa, sia quella di un ritorno alla melodia (credo sia questo il termine), se Ennio Moricone viene considerato un autore classico e visto il grande successo di un pianista e compositore come Giovanni Allevi, che aldilà della verbosità magica e retorica di cui ammanta, piace a quasi tutti.
Che vi sia l'emancipazione della dissonanza in campo musicale non credo vi siano dubbi, basta accendere la radio, che tale emancipazione sia risocntrabile anche in architettura è tutto da dimostrare. Mi viene in mente, come caso eclatante, la torre Eiffel, quello scheletro di ferro, piuttosto inguardabile, che però è divenuto icona di Parigi.
Tuttavia questa presenta alcune caratteristiche che sono tutt'altro che dissonanti, quali la perfetta simmetria. In questo momento non mi vengono in mente architetture che siano state digerite altrettanto bene, né riesco a trovare, forse a causa della mia sveglia anticipata ma so per certo che a livello polare l'architettura tradizionale piace e moltissimo.
Esiste poi la differenza solita, ormai ripetuta mille volte, tra l'architettura e tutte le altre manifestazioni "artistiche": queste non siamo costretti a subirle, in gran parte possono essere una libera scelta individuale, l'architettura e la città non la subiamo, possiamo non guardarla ma vederla è inevitabile.
E' per questo che evito come la peste di entrare in tutti quei locali (bar, negozi di abbigliamento o di elettronica) in cui il livello sonoro di fondo è assordante e dissonante (lo scopo lo conosciamo bene, abbassare le difese che fanno riflettere sugli acquisti).
Mi piacerebbe tuttavia che qualcuno segnalasse esempi di dissonanze architettoniche ormai definitivamente accettate a livello generale.
Ciao
Pietro

enrico d. ha detto...

Mi viene in mente un esempio forse non perfettamente calzante, legato al "progresso" in fatto di materiali e tecniche di costruzione.
Con l'avvento del cemento armato divennero possibili strutture aggettanti ben più ardite di prima. Con effetto sbalorditivo per chi era abituato a vedere ovunque costruzioni con "sporgenze" di pochi metri, e trovava stupefacente una copertura aerea lanciata nel vuoto per decine di metri.
Lo stadio calcistico di Bologna (inaugurato con una sfida contro la Spagna di Zamora) fu costruito per dar lustro al Federale della città, ed era certamete all'avanguardia. La copertura della tribuna centrale poggiava su pochi, esili, pilastri di ghisa, lasciando una visuale "quasi" libera.
Pochi lustri dopo, lo stadio di campodiMarte a Firenze, sfoggiava una ardita pensilina in c.a. sospesa su nulla; e lasciava perfettamente libero lo sguardo. Mio nonno era ammirato dal prodigio architettonico, ma "gli faceva impressione".
La sua teoria era che la soluzione era certamente positiva per la minoranza che, pagando salti biglietti, assisteva in tribuna; ma era un pugno nell'occhio per la maggioranza dei comuni mortali costretti a vedere il "mostro", senza goderne alcun vantaggio.
Oggi una tettoia sottile leggera e senza appoggi è unanimente apprezzata (penso al museo di Nouvel a Locarno)

Anonimo ha detto...

Caro Pietro,
provo a parlare di “emancipazione della dissonanza” in architettura e lo faccio a “briglia sciolta” (che è il metodo più facile per cadere da cavallo ...)
Ogni volta che si è introdotta, in modo importante, una nuova tecnologia, le forme utilizzate hanno continuato ad essere quelle precedenti. Pensiamo all’acciaio o alla ghisa. Le colonne di certe stazioni del treno, in ghisa, contengono base, fusto, capitello, scanalature e quant’altro tipico della tecnologia della pietra. Le varie parti della colonna in pietra trovano giustificazione anche nel fatto che è impensabile costruire tutto con un unico pezzo. Per questo motivo alcuni elementi sono caratterizzati da fughe, tori, scozie ecc. proprio nei punti di giunzione. Quando si è utilizzata la ghisa, nonostante fosse possibile realizzare tutto in una unica fusione, per evitare l’eccessiva “dissonanza” col gusto dominante”, si è continuato, per un certo periodo, a riproporre le precedenti forme.
La Casa del Fascio di Terragni era troppo dissonante e alla “Commissione dell’Ornato” di Como gli fu presentato un progetto più tradizionale. Oggi, l’edificio realizzato non fa più scalpore.
Il “Funzionalismo” è stato a suo modo una “emancipazione della dissonanza”. Ci ha detto che la forma di un edificio deve dimostrare la funzione per la quale è costruito, e che la forma deve essere legata alla tecnologia. Le travi di acciaio hanno smesso di essere “ingentilite” con orpelli in stile e sono state messe ben in vista con i bulloni e la loro sagoma strutturalmente più funzionale.
Io, come Architetto, nel ristrutturare un palazzo in Toscana , della famiglia Laparelli (collega 1521-1570 che ha disegnato il piano di Malta) ho usato travi IPE a vista, in un gruppo scale e ascensore vetrato inserito all’interno e visibile dall’esterno. L’ingegnere voleva che usassi le HE che a me, invece, sembravano troppo “dissonanti”. La Sovrintendenza, poco contenta di approvare il progetto, durante l’inaugurazione in pompa magna ha espresso pubblici apprezzamenti.
Nel campo del “Beton Brut” è successa una cosa simile. Quando studiavo all’università il tabù era: “dobbiamo poter leggere dall’esterno la struttura dell’edificio!”. Siccome avevo fatto un progetto col mattone passante davanti ai pilastri, mi fu detto che era meglio se il paramento facciavista veniva “inserito” tra i pilastri e le travi. Poco importò l’osservazione da me fatta che il corpo umano ha la pelle “passante” davanti alle ossa.
E l’asimmetria? E Bruno Zevi che ci scassava le ... col dire simmetrico=omosessuale?
E nei restauri? Addirittura, nelle “tassellature” utilizzate per integrare le pietre di facciata ormai defunte, fino a poco tempo fa c’era ancora la convinzione che bisogna vedere bene che il pezzo è “nuovo”.
A pensarci bene, le “oscillazioni del gusto” (tanto per citare Gillo Dorfles) sono state varie e di segno contrario è il “divenire delle arti” ci ha abituato a continui cambiamenti di rotta.
Aggiungerei che i Tabù e le mode sono sempre stati venerati dai mediocri e che questi ultimi hanno sempre considerato “dissonante” ciò che contrasta con la teoria del momento.
L’unica teoria che ritengo sempre valida è che l’architettura deve soddisfare le esigenze collettive e non le teorie del momento. L’architettura comunica alle masse e la dissonanza deve essere sempre misurata. Giocando al ribasso, possiamo anche dire che è meglio se un brutto progetto parla sottovoce, stando nel solco della tradizione, senza urli e strepiti.
E’ come dire: “se fai una stecca, vedi almeno di suonarla piano! “
Alessandro

Anonimo ha detto...

Alessandro, sulla differenza estetico-concettuale tra travi IPE e travi HP non sono in grado di disquisire, forse perché la mia sensibilità non è sufficientemente raffinata per captare una eventuale sottile variante o forse perché non conosco il contesto di inserimento, entro il quale la diversità potrebbe avere rilevanza decisiva. Devo dire però che a me questa graduazione delle dissonanze (poca, misurata, molta, troppa) suona piuttosto incomprensibile, nella fattispecie non riesco ad immaginare come la scelta del gruppo ascensore-scale in ferro e vetro, una scelta estrema "skin and bone", a occhio abbastanza dissonante in un edificio del '500, possa essere incisivamente modificata dalla sezione delle travi. A parte ciò, secondo me la dissonanza è un parametro non graduabile, una scelta che non ammette esitazioni, specie nella sua espressione formale.
Che un tuo professore universitario ti abbia esortato all'uso del paramento di mattoni a campate anziché a rivestimento continuo credo sia casuale, ti posso portare ad esempio il nuovo Piccolo Teatro di Milano su progetto di Marco Zanuso, dove le facciate continue in laterizio tipicamente lombardo, per raggiungere le insolite altezze di progetto sono state rinforzate dall'interno (sotto la pelle) con strutture in cls per evitarne il crollo. Se all'università ti fossi imbattuto in Zanuso, come è capitato a me………
In tutta la discussione su questo post noto una certa tendenza verso il sillogismo dissonanza=modernità, ma nessuno si chiede quanto devono essere sembrate dissonanti le ville venete del Palladio, o il massiccio barocco della chiesa della Madonna della Salute, o la prima cattedrale a facciata dicroma, spiazzanti irruzioni della modernità, provocatorie dissonanze (secondo la scala, molto dissonanti) che hanno aperto nuove strade a intere generazioni di architetti.
Voglio dire, ogni architettura è moderna nel suo tempo e obbligatoriamente dissonante, anche quella che per noi oggi è antica e stilisticamente intoccabile.

Circa la richiesta di Pietro direi che una straordinaria e meravigliosa dissonanza rispetto al contesto è l'Opera House di Sydney.

ciao
Vilma

Anonimo ha detto...

Vilma,
sono d'accordo specialmente col fatto che ogni architettura innovatrice è stata dissonante rispetto al passato. Sul fatto che "la dissonanza sia un parametro non graduabile" non sono invece dello stessa opinione.
Il tema è stato affrontato nella Facoltà di Architettura di Firenze dopo l’influenza di Umberto Eco che a partire dal 1966 (io ero alle scuole medie inferiori) aveva tenuto dei corsi sulla “Semiologia delle comunicazioni visive”. Diventò di moda parlare di “Architettura come linguaggio” e fu elaborato il concetto che ogni opera contiene degli elementi di innovazione come dei “bit” ovvero “come la quantità minima di informazione” diversa rispetto alla tradizione. Giovanni Klaus Koenig espresse il concetto che“ Un’opera che non dice nulla di nuovo contiene zero bit di informazione e risulta noiosa. All’estremo opposto, un’opera che contiene troppi bit di informazione è troppo innovativa e risulta incomprensibile”. Secondo Koenig (che a lezione parlava un “fiorentinaccio” pieno di c e t aspirate) per questo motivo i “Prigioni” di Michelangelo furono considerati, da molti dell’epoca, opere incompiute quando invece erano solo un po’ troppo innovative (e dissonanti).
In musica può essere utilizzato lo stesso concetto. Due suoni sono tra loro dissonanti quando l’orecchio umano non riesce a metterli in relazione. Al contrario, sono consonanti quando l’orecchio capisce quali sono gli elementi comuni. Gli elementi comuni sono le frequenze degli armonici, che sono tanti e non sempre facili da ascoltare.
“L’emancipazione della dissonanza” (che diventa quindi “consonanza” ovvero “suonare insieme” da parte degli armonici che l’orecchio individua come patrimonio comune di due o più note) dipende dal fatto che l’orecchio umano si è affinato ed accetta intervalli che prima risultavano solo cacofonici. Ogni orecchio ha ovviamente il proprio limite oltre il quale la consonanza è incompresa e quindi cacofonia. Il limite si è spostato nel corso della storia ma contiene comunque molta soggettività in relazione alla esperienza e sensibilità di ognuno di noi.
Credo che in architettura sia stato così per le ville del Palladio ed è così per le opere contemporanee che contengono elementi di discontinuità con il passato. Il limite oltre il quale nasce la dissonanza estrema, e quindi l’incomprensione, varia nel tempo, nel luogo e nelle singole persone.
La dissonanza è un parametro secondo me graduabile attraverso passaggi che possono essere presenti nella stessa singola opera o in un insieme di opere collegate.
In musica, due note possono essere collegate da una terza che fa da ponte e così l’orecchio le può mettere in relazione con più facilità.
In architettura si può fare lo stesso, per esempio, per una forma (una nuova nota) dirompente con la tradizione (che rappresenta la nota di partenza).
Alessandro

Anonimo ha detto...

Alessandro, affascinante la teoria dei bit, la lacuna è secondo me rappresentata dal fatto che non c'è, presumo, alcun metodo scientifico o matematico che permetta di conteggiare oggettivamente il numero dei bit, cosicché la valutazione resta alla sensibilità dell'osservatore. Mi pare comunque di capire che l'emancipazione della dissonanza, in campo musicale è affidata alla capacità dell'ascoltatore di riconoscere il numero di questi ipotetici bit, crescente con il progressivo affinamento della capacità uditiva del nostro orecchio.
Immagino che tu non ti riferisca alle mutazioni organiche della struttura dell'orecchio, ma alla nostra evoluzione culturale , per ricorrere alle teorie di Richard Dawkins secondo le quali esiste una forte analogia tra l’evoluzione della cultura e l’evoluzione biologica (il ruolo del meme come replicatore, alla pari del gene, dell'eredità culturale). In soldoni, siamo più aperti al nuovo rispetto ai nostri avi perché abbiamo accumulato più 'cultura' ed abbiamo più parametri di riferimento sui quali basare i nostri giudizi.
Del tutto indipendentemente dall'evoluzione fisiologica della struttura dell'occhio, ciò succede anche nell'arte visiva, (quella che Eco chiama "metafora epistemologica" in quanto espressione formale, in linguaggio metaforico, della società in cui si colloca) ed oggi "il brutto è diventato nell'arte contemporanea la vera bellezza" per citare Remo Bodei (Umberto Eco ha scritto anche una interessantissima 'Storia della bellezza' ed una 'Storia della bruttezza'). C'è di più, oggi accettiamo come espressione artistica, in chiave squisitamente concettuale, non solo la musica brutta o l'arte brutta, ma anche la non-musica di John Cage (4'33', una composizione per pianoforte in tre movimenti, la partitura riporta "tacer", come se il pianista dovesse fare una lunga pausa dall'inizio alla fine del pezzo che dura appunto quattro minuti e trentatrè secondi di silenzio) e la non-arte dei White Paintings di Robert Rauschenberg, grandi tele completamente bianche realizzate negli anni '50.
Ma, a mio avviso, per l'architettura il discorso cambia. L'arte, come la musica, è un'attività inutile, se la specie tende a sviluppare le caratteristiche che la rendono più idonea all'ambiente non si capisce perché l'uomo faccia arte a partire dalle caverne, ma si capisce perfettamente perché fa architettura, senza la quale non avrebbe colonizzato la terra. Non si concepisce l'architettura se non 'abitata', nel suo significato etimologico da 'habere', se non in rapporto fisico con l'uomo, materia con materia, esperienza prima di tutto fisica in grado di coinvolgere tutti i nostri sensi: guardare, annusare, toccare, ascoltare l'architettura, prima di ogni analisi intellettuale, teorica, culturale, stilistica, formale, concettuale ecc., in un turbine di sensazioni fisiche e psichiche strettamente connesse, metafora dell’eterno confronto tra psyche e soma.
Il coinvolgimento fisico rende assai più complessa ogni valutazione sull'architettura perché introduce un grande numero di parametri variabili ( o varie tipologie di bit) tra loro incommensurabili. Il che favorisce una inevitabile dissonanza di ogni discorso fatto oggi rispetto a quelli del passato senza alcuna possibilità di gestione, e di conseguente percezione, del grado di dissonanza (poca o molta che sia).

Bè, più o meno
Vilma

enrico d. ha detto...

Senza alcuna vergogna nè modestia, oltre che di architettura, mi permetto di dire la mia anche sulla musica.
In particolare sull'interessantissimo paragone proposto tra le "novità", le innovazioni inedite e sconvolgenti che le avanguardie (o sedicenti tali) propongono.
La prospettiva giusta mi sembra quella, più volte citata dal nostro padrone di casa, che distingue ruoli e compiti di un edificio inteso come oggetto, e quello inserito in un contesto urbano.
Nel campo musicale potremmo riproporre una distinzione simile tra una singola canzone, o una sonata, e un'opera più complessa, che preveda una intelaiatura, una trama, una sua "urbanistica". Penso ad un'opera, ad un oratorio, ad un film musicale, ad un LP di una band....
Le canzoni di un album rock o jazz; le parti di un oratosio, le romanze di un'opera rappresentano qualcosa di unito, anche se composto di vari pezzi, ascoltabili separatamente.
Ci pensavo oggi, viaggiando in camper per la Val Fontanabuona (tra Sestrilevante e Genova), acoltando il Messia di Haendel.
Da un brano all'altro è un continuo richiamo di accenni, di melodie; le parti polifoniche presentano contemporaneamente la massima "prevedibilità" pur riservando, quà e là, esperienze sonore inedite e inattese. Tutto perfettamente omogeneo nelle sue dissonanze. Come Piazza del campo, come una via di Cortona o di Spello, come i portici del centro di Bologna.
Ogni casa, ogni facciata, è unica e diversa dalle altre; eppure esiste un linguaggio, una atmosfera comune. E' difficile identificarla in positivo: non sono certo le altezze delle case, o la forma delle finestre, che presentano quà e là anomalie e incongruenze...ma qualcosa c'è.
Mi è venuto di paragonare l'improvvisa entrata delle grancasse e delle trombe nell'Alleluja alla anomala presenza di una torre, in mezzo a case più basse di trenta o cinquanta metri. Una intrusione, una rottura sconvolgente!...che non sconvolge affatto; viene anzi da stupirsi di "come ci sta bene"!
Tutto ciò se impostiamo il discorso a livello urbanistico, con le inevitabili conseguenze sulla qualità della vita, e tutto quanto ha più volte ricordato P.P.
Diverso il discorso se invece di un palazzo o di una torre sulla via pricipale di una città, parliamo di un monumento nell'aiuola in mezzo ad una piazza.
Qui si tratta di oggetti, che possono essere belli o brutti (e GiovanniPaolo II davanti alla stazione è brutto!), ma che appunto, sono oggetti. Ogni paesino della Val Fontanabuona ha il suo "monumento moderno": tutti difformi, tutti originali; qualcuno piacerà a Tizio, qualcun altro a Caio...l'importante è che esprimano qualcosa che viene compreso dai fruitori. Ad esempio ho visto una enorme testa di piccone in bronzo (alta forse 6 metri) conficcata in una aiuola. Considerando che è terra di minatori, un simbolo chiaro.
Tornando alla musica dodecafonica, o ad altra forma artistica "difficile", bisogna riconoscere che la "difficoltà" può essere un valore filosofico e culturale; e certamente, dopo aver avuto o letto lunghe e dotte spiegazioni, anche la dodecafonia, e altre forme artistiche "dissonanti" saranno meglio comprese. ma è un bene che un'opera d'arte debba essere spiegata? Sono stati fatti esperimenti con popoli tribali africani e della Nuova Guinea, nei primi decenni del '900; Mozart lo capivano tutti.
(chiedo scusa ai musicofili)

Pietro Pagliardini ha detto...

Che dire Enrico, non ho parole. Musica, viaggi, architettura, urbanistica: ma ogni tanto fai anche il medico?
Il tuo assimilare una sinfonia all'insieme città mi sembra del tutto calzante e la tua descrizione della città è scritta con competenza e con amore direi, oltre che precisa.
Speriamo però che Alessandro non ci smentisca.
Ciao
Pietro

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