Pubblico con piacere questa osservazione di Enrico Lavagnino, colta, ironica, disincantata e anche sofferta, sul PIT della Regione Toscana.
E' un testo lungo ma ne consiglio vivamente la lettura.
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Spett. REGIONE TOSCANA
ASSESSORATO URBANISTICA,
PIANIFICAZIONE DEL TERRITORIO E PAESAGGIO
Cortona, 27 settembre 2014
Io sottoscritto Enrico Lavagnino, residente in Cortona (Ar), vista la Deliberazione del Consiglio Regionale del 02/07/2014 N° 58 che adotta l’Integrazione del piano di indirizzo territoriale (PIT) con valenza di Piano Paesaggistico,
tenuto conto di quanto prevede la normativa regionale al comma 2 dell’Art.17 della Legge 01/05
propone che vengano prese in considerazione le osservazioni allo strumento urbanistico adottato così come di seguito riportate.
Osservazione all’integrazione del piano di indirizzo territoriale (PIT)
con valenza di Piano Paesaggistico adottato con delibera CR n° 58/2014
Fare un’osservazione vuol dire, guardare, leggere e giudicare una proposta, un fatto, una cosa e nel caso del Piano Paesaggistico della Regione Toscana (“Integrazione del PIT con valenza di Piano Paesaggistico”) significa comprendere i contenuti che si è prefissato, gli obiettivi, le azioni che si intendono mettere in atto per raggiungere gli obiettivi, per poi suggerire eventuali modifiche o aggiustamenti, valutando, a parte, quali potranno essere in seguito le reali possibilità di riuscita e di successo.
E’ giusto dire, prima di tutto, che niente come la crisi economica e sociale che stiamo vivendo è in grado di mettere in luce il senso reale delle cose, è in grado di farci valutare il superfluo, le cose che non servono e quindi, nella fattispecie, come sia agevolato il giudizio di quanto siano sterili e illusorie le proposte fatte col piano citato, prodotto dalla cultura burocratica e ideologica dei politici e dei tecnici del governo fiorentino, che più di altri hanno abusato, senza frutti, del loro potere legislativo.
Dico questo, a scanso di equivoci, da persona di sinistra che ha sempre votato a sinistra e quindi senza particolare avversione per questo tipo di amministrazione.
Molti sono i giudizi che si rincorrono sui contenuti del Piano Paesaggistico (fonte internet) che, semplificando molto, possono essere sintetizzati dalle seguenti affermazioni: norme vincolistiche che ingessano tutto; norme «sbagliate» e «anacronistiche», dense di inutili complicazioni (il piano contiene più di tremila pagine di testo); contenuti in buona parte indecifrabili (mi dicono che per capire un po’ meglio esistono solo corsi a pagamento); piano non migliorabile; decisioni in antitesi alle proposte governative che vorrebbero togliere le competenze di pianificazione alla regione; proposte prive di spunti per lo sviluppo, ma al contrario prolifiche di nuovi e antistorici vincoli che porteranno altra burocrazia piena di complicazioni e di lungaggini, incrementate da un lessico burocratico privo di concretezza. Strumento che è contro il sistema agricolo delle colture specializzate, quali il vino, l’ortofrutta, il floro-vivaismo, oppure contro al sistema estrattivo, per non parlare del comparto edilizio ancora una volta travolto da una pletora di norme che non faranno che peggiorare, se possibile, la già deprecabile qualità edilizia di recente produzione sul territorio toscano e certamente l’elenco è parziale e non esaustivo.
In realtà, per mia opinione, leggendo, per quanto possibile, quello che è stato scritto, il suddetto
piano, senza voler offendere nessuno, non è nulla, è una sorta di esercitazione scolastica, fatta con i
soldi pubblici, come sempre lontana dalla realtà dei fatti, da qualsiasi esperienza concreta, incurante
del come stanno realmente le cose.
Al massimo è vero che il nuovo apparato normativo produrrà ancora una volta ostacoli burocratici, pieni di contorti ragionamenti procedurali, che allungheranno i tempi e i costi delle già misere iniziative dei cittadini e delle imprese della regione, ma sono certo che non sarà capace di raggiungere nessuno dei molteplici obiettivi che molto enfaticamente si è prefissato.
Burocrazia e Legislazione
Non è bastata la triste esperienza delle innumerevoli versioni della legge urbanistica regionale che sono cambiate con l’avvicendarsi degli assessori del “ramo” e che, per un po’ di pubblicità personale, non hanno esitato a scombussolare il già scombussolato apparato burocratico pubblico che le doveva gestire e che ogni volta ha impiegato anni per capire il senso delle nuove proposte,
oppure ha costretto l’apparato tecnico privato a inventare una sorta di “ingegneria procedurale”
artificiosa e inconcludente capace solo di portare lavoro nelle aule dei tribunali, senza parlare dei
risultati pratici, quelli da vedere sul “campo”, nelle realtà costruite, il cui valore qualitativo è
perlomeno discutibile, meritevole di una serena verifica tesa a giudicare con freddezza il valore e
l’efficacia delle disposizioni contenute nella legge.
E tutto questo come se, ogni cinque anni, cambiasse il modo di vedere e di costruire la città, il comportamento dei tessuti edilizi, il modo di costruire gli edifici, che purtroppo resta, al massimo peggiorando, sempre lo stesso e che si può efficacemente descrivere col significato di una sola parola: “periferia”, sia culturale che reale, della quale periferia tutti quanti siamo artefici e responsabili e ben rappresenta, al di la degli inutili orgogli storicistici, lo stato attuale della nostra civiltà, lo stato attuale dei nostri territori e ovviamente lo stato attuale della cultura urbanistica che produce questo tipo di norme e di piani.
Forse non è ancora sufficientemente chiaro che dall’enorme apparato normativo, che si occupa solo di procedure e tralascia i veri significati dell’urbanistica che dovrebbero condensarsi in poche ma vere categorie operative, non nasce niente e la periferia che ne scaturisce è purtroppo uguale per tutte le città italiane, sia molto normate che poco normate, inguardabili e inaccettabili sia sul piano pratico che sul piano culturale in netta antitesi con le città storiche italiane, di indubbia qualità, ma sostanzialmente costruite senza apparati burocratici e senza progetti.
Forse non è ancora abbastanza chiaro che “lo stormo di cervelli” che ruota intorno alle trasformazione edilizie (legislatori, propositori, controllori) non è in grado di garantire nessuna qualità, ma solo complicazioni, confusione, disordine, caos e questo perché è orientato su falsi obiettivi, inventati da politici poco avvezzi con la realtà e consolidati da burocrati lontani dai veri contenuti culturali che l’argomento meriterebbe, tralasciando ogni rapporto concreto con il costruito reale (ciò che viene realmente costruito) che è il vero e unico obiettivo del quale l’urbanistica si dovrebbe occupare.
Quindi questo piano è ancora una volta un’inutile complessità che serve solo per far sopravvivere quel “drago” che che si alimenta di carta, di progetti, relazioni, domande da depositare su scaffali polverosi, burocrazia che in generale costa molto di più delle opere che si vanno a realizzare, magari costruite da sparuti operai extracomunitari ultimi rimasugli di una vera classe di proletari e solo perché non sanno maneggiare quelle carte che servono solo per tenere occupati sedicenti acculturati, diplomati o laureati - è lo stesso - sostanzialmente inconsci, anche per colpa della scuola, del vero significato delle cose di cui si stanno occupando.
Cioè una sorta di “battaglia” fatta a parole, sul significato delle parole che i legislatori scrivono e purtroppo restano sollevati dalla responsabilità di averle scritte (accidenti a Bassanini e alla sua riforma), che l’apparato sistematicamente cambia per alimentare questa battaglia di “bla bla bla” sempre lontana dai veri contenuti dell’edificato.
E così si passa, lasciando sempre “il tempo che si trova”, dal PRG, al RU, al PO (è in arrivo), oppure dalla CE al PdC, dalla DIA, alla SCIA, per non citare altri e più astrusi acronimi capaci di stendere i burocratici più ostinati, e mai fatta sui dati concreti, sull’efficacia reale delle previsioni, attività che potrebbe portare, attraverso il risparmio sulle carte, magari dirottabile sugli oggetti da costruire, una miglioria della qualità del prodotto, e, certamente, una miglioria alla vita dei cittadini coinvolti in questo delirante “effluvio” normativo.
La città è fatta di tessuti edilizi, polarità, confini, è fatta di strade e sulle strade ci stanno gli edifici, e gli edifici nelle buone città sono allineati ai margini delle strade, le strade sono dritte fino a quando non c’è un valido motivo per farle curvare, sono fatte di edifici speciali e di base i quali rispettano leggi formative storico tipologiche e “linguistiche” e con queste regole e poche altre, in passato, hanno costruito le nostre città e i nostri paesi migliori.
Al contrario le tarantolate leggi urbanistiche regionali e di conseguenza comunali stabiliscono come si fanno e si approvano i progetti, quanti documenti debbono essere allegati (un delirio), chi è o chi non è competente per farli e approvarli, che iter burocratico debbono seguire, se è o non è un PdC o una SCIA, tralasciando qualsiasi valore reale da tutelare, (ci sarebbe da ragionare molto sul perché in Toscana si fa in SCIA un intervento su un palazzo di un qualsiasi centro storico e in PdC la costruzione di una casetta di periferia), lasciando il costrutto al libero arbitrio, all’incultura urbanistica dei tecnici, che per poter sfoderare colpi di genio, sono disponibili a massacrare qualsiasi realtà storica o minimamente consolidata, che consente ai controllori pubblici, attraverso gli asseveramenti dei privati, di disimpegnarsi e dispensarsi da qualsiasi responsabilità su quello che veramente succede nella costruzione della città reale, comportamento che tra l’altro raddoppia il costo della burocrazia che gli inconsapevoli contribuenti devono pagare. (Vedi ancora Bassanini).
Prima o poi bisognerà prendere atto che nella burocrazia italiana non c’è democrazia, non c’è uguaglianza, non c’è economia, non c’è ordine, non c’è cultura, ma solo potere da gestire per fini non sempre limpidi (la tangente è multiforme) e gli inermi cittadini di fronte a essa, non la contrastano, ma si adeguano perché la temono, spaventati dalle conseguenze che lo stesso apparato burocratico potrebbero mettere in atto.
Un potere ambiguo, che tutti vogliono, ma poi nella gestione pratica nessuno vuole decidere perché decidere è pericoloso (sul piano elettorale, sul piano personale), e da li nasce quella politica del “ma anche”, del possibilismo infinito, che infarcisce la cultura ideologica prima accennata e che sta alla base delle scelte del Piano Paesaggistico e che porta al tipico comportamento “vorrei scavare le puane per far contenti i cavatori, ma anche smettere di scavare per far contenti gli ambientalisti” e intanto il marmo bianco di Carrara va in Cina, attraverso traffici non del tutto leciti, tagliando fuori da queste attività il comparto produttivo nazionale.
Ecco questo è quello che credo sia il nuovo Piano Paesaggistico, uno strumento che sfodera intenzioni ideologiche, parole d’ordine, messaggi in codice, apparati, luoghi comuni, pie illusioni fondate su una generica quanto romantica cultura da “Viaggio in Italia”, che ci inorgoglisce, ma non ci fa capire quanto siamo oggi portatori di “cultura di periferia”, senza un vero metodo scientifico consolidato, dotati di apparati di comprensione della realtà inadeguati che portano a fare proposte ambigue e inconcludenti senza nessuna possibilità di diventare, nel futuro, una nuova qualità.
Un piano dove non si capisce chi dovrebbe far le cose, la maggioranza sarebbero a carico del “pubblico” e qui mi vien da ridere, oppure a carico del “privato” che dovrebbe immolarsi, per far contenti i politici, gli assessori, gli enti pubblici, in operazioni irragionevoli, antistoriche, privi di qualsiasi ragione economica.
Un piano che dovrebbe far cambiare rotta agli orientamenti attuali ritenuti di tipo speculativo, ma la realtà di un territorio non può essere altrimenti, e passare attraverso gli interventi previsti dal piano dagli attuali elementi di criticità a nuovi elementi di qualità.
Ma la domanda è d’obbligo, gli amministratori regionali quando si sono accorti di quella mole di criticità, leggesi periferia, che da più di mezzo secolo ha riempito e deturpato il paesaggio toscano, che cosa hanno fatto per contenerla, per migliorarla sul piano qualitativo, è stato fatto un resoconto sui risultati concreti prodotti con la legge urbanistica e chi può garantire che questo nuovo strumento costruito con lo stesso apparato critico e metodologico potrà debellare tale scempio?
Da quanto tempo siamo consapevoli che le lottizzazioni industriali così come le lottizzazioni edilizie, sono paesaggisticamente inopportune per il “Marchio” Toscana e quindi vanno contenute.
Ma poi come si intende raccogliere le risorse (imposte) che provengono da tali attività, come si tiene attivo il mercato del lavoro se chiude una azienda al giorno, chi sostiene l’edilizia vista come attività produttiva, chi mette i soldi per l’auspicata riconversione, e come sarà fatta la
riconversione? forse, pensato ma non detto, è in programma un ticket, “un vedutometro”, da far pagare a chi vuol godere le vedute del paesaggio toscano?
E’ vero, il paesaggio in toscana conta, è riconosciuto di qualità, va mantenuto e curato e in onestà forse poteva andare peggio, ma se la regione Toscana può legittimamente dire di avere parte del suo territorio ancora conservato e di buona qualità probabilmente non dipende dalle politiche regionali o dai suoi strumenti urbanistici, ma bensì dal carattere fortemente conservativo dei toscani che attraverso i loro sapienti atti hanno saputo, in barba alla burocrazia e all’ideologia, mantenere le loro bellezze.
Gli obiettivi del piano
Il Piano Paesaggistico ovviamente si è posto degli obiettivi e poi si è dato degli strumenti per raggiungerli.
Tra gli obiettivi principali (meta obiettivi) mette, in sintesi, la migliore conoscenza delle peculiarità identitarie e il ruolo che i paesaggi possono avere nelle politiche di sviluppo, una politica integrata sui temi del paesaggio, un rafforzamento del rapporto tra paesaggio e partecipazione.
Mentre più articolati sono gli obiettivi strategici e in particolare, sempre semplificando, si legge tra questi: la valorizzazione del patrimonio paesaggistico evitando il rischio di banalizzazione e omologazione della complessità dei paesaggi toscani in pochi stereotipi; il trattamento sinergico dei diversi elementi del paesaggio, (componenti idrogeomorfologiche, ecologiche, insediative, rurali); la coerenza tra la geomorfologia e localizzazione, giacitura, forma e dimensione degli insediamenti; l’importanza paesaggistica delle grandi pianure alluvionali che sono i luoghi della massima concentrazione delle urbanizzazioni; il riconoscimento degli apporti dei diversi paesaggi della Toscana; il tema della misura e delle proporzioni degli insediamenti e la riqualificazione delle urbanizzazioni contemporanee; assicurare coevoluzioni virtuose fra paesaggi rurali e attività agrosilvo-pastorali; garantire il carattere di bene comune del paesaggio toscano e la sua fruizione collettiva; arricchire lo sguardo sul paesaggio attraverso la conoscenza e la tutela dei luoghi del Grand Tour; assicurare che le diverse scelte di trasformazioni del territorio e del paesaggio abbiano come supporto conoscenze, rappresentazioni e regole adeguate.
Questo è quanto, sono parole senza significato, slogan, impossibili da tradurre in qualche cosa di concreto, di pratico, da spiegare a una persona comune. Come si fa ad assicurare una coevoluzione virtuosa fra paesaggi rurali e attività agro-silvo-pastorali, o garantire il carattere di bene comune del paesaggio toscano? c’è uno che fa una richiesta e un altro che risponde?, oppure siamo solo al paradosso del “rendere difficile il facile attraverso l’inutile per il raggiungimento del nulla”?
E anche a voler essere collaborativi come si può pensare in concreto e quindi dimostrare che è il richiamo al patrimonio paesaggistico può essere un fattore di crescita economica e sociale, oppure
come si può essere veramente certi che si possono superare gli attuali modelli culturali basati sulla crescita e sul consumo senza fare una vera rivoluzione e non solo culturale, come possiamo essere certi che sarà il paesaggio a tirarci fuori dalla crisi. Chi vivrà vedrà.
Il metodo dell’invariante
Sulla base degli obiettivi precedenti il piano si è dato una forma metodologica e tecnica per
raggiungerl.
Il nuovo strumento urbanistico si appoggia per intero sull’instabile concetto di invariante.
Invariante, da vocabolario, significa “che non varia, che rimane invariato” e in linguistica che è “ogni elemento che rimane costante in opposizione alle varianti”.
Quindi in primis si dovrebbe pensare che è uno strumento finalizzato al mantenimento delle cose come sono, come stanno, contrario e oppositivo ad ogni sorta di cambiamento. Ma questo per i politici è troppo poco, non è sostenibile, perderebbero voti, quindi sono stati costretti, per ragioni strumentali ed elettorali, ad associare al concetto di non cambiamento il concetto di trasformazione, da proiettare comunque, attraverso i soliti astrusi procedimenti, verso una sostanziale immobilità.
Questo incipit, che oscilla tra il cambiare ma anche il non cambiare, è la prima ambiguità che caratterizza per intero il nuovo piano e che manifesta quel comportamento ideologico che è tipico di chi è nato per mediare, forma mentis sempre meno adatta per gestire con chiarezza fenomeni complessi come il territorio di una regione o peggio di una nazione.
Infatti nella relazione generale si può leggere che “le invarianti strutturali” sono il riferimento centrale del piano da trattare non come modelli da vincolare e museificare, ma come regola che sta alla base della trasformazione il che vorrebbe dire con altre parole che “la non modifica” è alla base della “modifica” e quindi, in pratica, chi ci capisce è bravo.
Altrettanto ambigua è la scelta che deriva della scissione metodologica tra il concetto di territorio (parte strutturale) e quello di paesaggio (parte percettiva) se pur riunita in un unico strumento operativo che è il PIT.
Scissione che, per chi è amante degli aspetti concreti della vita, non è mai esistita nella realtà delle cose, perché chi faceva bene il suo lavoro, non lo ha mai fatto per pure ragioni estetiche, ma lo faceva e basta, possedendo per farlo idee chiare e strumenti appropriati adatti a soddisfare materialmente i suoi bisogni, infischiandosene del risultato formale che è diventato importante solo successivamente e solo per la classe privilegiata degli intellettuali (infatti il viaggio in Italia lo facevano gli intellettuali) che continuano a pontificare sul come si deve fare senza aver mai fatto niente, e ancor peggio, senza essersi mai occuparsi della cultura di base che sta nelle fondamenta di quel fare e che, senza particolari intenzioni, ha prodotto quella qualità che tentiamo di salvare.
Quindi sul piano metodologico la parte vera, quella reale, che deve stare alla base di uno strumento urbanistico operativo è il territorio (compreso tutte le strutture che lo compongono) visto nelle sue fasi evolutive che sono poi la sua storia, mentre la parte estetica, appunto il paesaggio, è una visione esteriore, fatta dopo, dall’esterno, incapace di inficiare concretamente le strutture perché appunto immaginaria, astratta, di tipo intellettuale, una visione lontana dalla realtà.
Infatti il citato Saverio Muratori (vedi relazione generale) grande conoscitore della realtà territoriale e urbana italiana, mai sufficientemente studiato, che ha contribuito, insieme alla sua scuola, a mettere in luce i principali concetti della tipologia processuale, parlava di storia operante del territorio, ma si è ben guardato di parlare di paesaggio perché appunto la riteneva una categoria astratta, ideologica, di tipo estetizzante che fa il paio con l’altrettanta cultura ideologica e astratta dell’ambientalismo, utili solo per allontanare il pensiero critico e scientifico dal centro del problema.
Poi per rendere operativo il piano, già profondamente compromesso dalle ambiguità prima elencate, sono stati inventati i morfotipi, elenchi sterminati di strutture territoriali a varia scala (abachi), che non si capisce come sono state scelte, come dovrebbero diventare oggetto di intervento, chi farà quel tipo d’interventi e come si faranno.
Sul piano metodologico anche gli abachi delle strutture sono materia di pianificazione territoriale quindi è difficile cogliere la relazione che esiste tra queste strutture e i temi esteriori del paesaggio, forse solo una voglia regolatrice passata sotto mentite spoglie.
Poi è giusto sottolineare che gli abachi riportati sono semplicemente elenchi, estrapolazione dal contesto di una casistica ripetitiva di strutture simili, che trascura ogni ragione formativa dei casi riportati, del come sono realmente fatti, ma soprattutto, del perché sono fatti così. (Se tale casistica passasse attraverso un’attenta analisi storico processuale resterebbero solo pochi casi).
Difetto di non poco conto, che illustra bene l’intento esteriore e superficiale della volontà regolatrice, perché per controllare gli effetti delle strutture è necessario conoscerle nella loro sostanza, cioè i tipi, ma soprattutto conoscerle nel loro processo evolutivo (processo tipologico), regola che lega al tempo il passaggio tra un tipo e l’altro, cioè individua le ragione delle varianti diacroniche del tipo, così come delle varianti sincroniche per adattare il tipo alle circostanze particolari dettate dalla condizione locale.
Togliendoli dal processo i tipi diventano casi (casistica –abaco) e il progetto fatto sulla base di questa casistica invece che legarsi alla storia (al processo evolutivo delle strutture nel tempo e nello spazio), si lega all’occasione, diventa a sua volta un caso e perde ogni legame con la realtà territoriale che si vorrebbe controllare e diventa un atto individuale, spurio rispetto ai contenuti del contesto, normale prassi rispetto all’attuale cultura di periferia.
Per non parlare poi degli aspetti pratici, delle limitazioni imposte, anch’esse ambigue, perché sul piano teorico si impongono condizioni rigidissime, ma che saranno inevitabilmente smentite ogni qual volta sarà necessario, per ragioni contingenti, tralineare.
E’ difficile immaginarsi l’invariante dell’aspetto morfologico del territorio toscano associato ai bisogni della ristrutturazione della rete viaria soprattutto autostradale oppure quella ferroviaria, alla messa in sicurezza dei bacini fluviali che con regolarità tracimano e devastano i territori limitrofi, all’esigenza di fare un ponte su un fiume che certamente modificherà l’aspetto esteriore dell’alveo. Oppure si pensa già, che in questi casi, il piano sarà rigidamente applicato, ma forse anche no?
Altrettanto controverso è il tema della riqualificazione delle urbanizzazioni contemporanee, tema propriamente urbanistico e non paesaggistico comunque di grande rilevanza pratica e sociale. Prima di tutto è giusto dire che questa parte delle città, oggi ritenuta critica e responsabile del degrado paesaggistico, è stata legittimata dalle normative urbanistiche pubbliche, dalla gestione pubblica del territorio, da un apparato sterminato di tecnici, da una infinità di progetti, tutti richiesti e approvati dagli enti pubblici, che spaziano dalla pianificazione territoriale fino al progetto per la posa degli sportelli dei contatori del gas. Il che ci porta a pensare che se il rapporto tra qualità/numero di progetti fosse garante dei risultati, dovremmo avere le periferie più belle del mondo, oppure, nel caso contrario, cioè se non lo sono, bisogna ammettere, senza reticenza, che abbiamo commesso qualche errore di impostazione del problema e che la cultura burocratica che sta alla base della pianificazione urbanistica non è sufficiente per garantire la qualità.
Poi, tralasciando i criteri metodologici sulle modalità di intervento che sarebbe troppo complicato analizzarli in questa sede, chi farà questi interventi, chi pagherà, su chi ricadono i costi, saranno chiamati in solido i politici che hanno consentito l’errore, i tecnici che hanno sbagliato i progetti, i funzionari dei comuni e della regione perché non hanno saputo valutare gli esiti di quanto progettato, oppure sarà ancora una volta “Pantalone” che con altri e sempre più improbabili sacrifici dovrà intervenire.
Altri dubbi vengono sull’uso produttivo del territorio agricolo. Il concetto di territorio senza speculazione è assurdo. Il territorio agricolo esiste perché è produttivo e su di esso si specula per definizione.
In questo settore certamente serve una persona di buona volontà che spieghi agli estensori dei piani, ma soprattutto ai politici che ne esprimono l’impostazione culturale e sociale, che il contadino con la gabbanella, il cappello di paglia e il bove non c’è più, è morto e insieme a lui è morta una cultura agricola del passato che non potrà ritornare.
I poderi che sottendevano tale cultura sono diventati le dimore della media e alta borghesia italiana, ma soprattutto di quella straniera che vende “estero su estero” i migliori pezzi presenti sul territorio toscano (casali, castelli, chiese e quant’altro) e abbandona al “gerbido” i terreni rurali produttivi ad essi collegati.
L’agricoltura è fatta per la maggioranza di proprietari di terreni che vivono in città e che, svogliatamente, chiedono a terzisti, che vivono anch’essi in città, di seminare, con trattori enormi, i lori campi con del grano, grano che al raccolto costerà 30 € al quintale e che dovranno bastare per tenere in piedi una economia agricola asfittica e senza futuro.
Oppure seminare tutti gli anni piante oleose che sono utili per alimentare marchingegni, (finanziati dal pubblico), che servono per produrre energie rinnovabili senza la minima di attenzione alle problematiche sulla desertificazione che tale pratica, senza la rotazione colturale, può portare.
Come si può pensare alla tutela della coltura dell’olivo e quindi dei terrazzamenti se poi l’olio toscano extravergine costa dai “contadini” 8-10 € al Kg o peggio ai supermercati 2 - 3 € al Kg e in aggiunta al momento della raccolta delle olive girano elicotteri pubblici col fine di controllare se un amico, in cambio di un bottiglione d’olio, sta aiutando un altro amico a raccogliere le olive che altrimenti resterebbero sull’albero, per poi multarli entrambi per migliaia di euro ciascuno?
Oppure penalizzare per ragioni strumentali la coltura della vite, unico rimasuglio della produzione agricola capace di produrre un po’ di reddito, presupponendo che la stessa sia la colpevole del degrado ambientale che ci circonda solo perche non è più coltivata a “ritto chino” o a “giro poggio” oppure perché sta minacciando la maglia agraria minuta.
Visibilità e caratteri percettivi:
Altro strumento che dovrebbe essere garante della qualità degli interventi è il nuovo metodo sulla valutazione della visibilità dei luoghi, ovvero la valutazione della suscettibilità alle trasformazioni del territorio. In sostanza la Regione ha speso soldi pubblici per dire che chi è in basso vede le cose che stanno in alto, chi è in alto vede le cose che stanno in basso, dimenticandosi peraltro cosa succede a chi sta in piano e vede il piano oppure cosa succede per chi sta sulla mezzacosta, il tutto, ovviamente, al netto degli eventuali ostacoli visivi.
Ma la cosa più paradossale è che per rendere operativi questi principi sono stati disturbati gli algoritmi, (come risaputo famoso metodo usato dai contadini per disegnare il rigoroso panorama rurale della Toscana), il tutto per creare una “carta della intervisibilità ponderata delle reti di fruizione paesaggistica”, per la cui applicazione pratica i tecnici “gestori” probabilmente dovranno fare corsi di formazione professionale presso la NASA. Fate un po’ voi. Sono sincero non ci ho capito un gran che, ma una cosa l’ho capita ed quella che se i fiorentini dell’XI secolo avessero avuto uno strumento simile a quello proposto e teste come la nostra forse avrebbero scientificamente impedito la costruzione del S. Miniato risultato in seguito un capolavoro dell’architettura romanica italiana incastonato nel paesaggio di Firenze visto dal basso.
Le proposte
Si potrebbe continuare, parlare della visione veloce e lenta del paesaggio, o di altri argomenti
costruiti con la stessa filosofia, ma forse non serve e comunque per prassi un’osservazione deve
concludersi con delle proposte.
Le proposte possono essere di vario ordine e grado, su obiettivi specifici o generali, per interesse personale, di casta o di tipo collettivo, in questo caso sono di carattere generale, prive di ritorni strumentali, fatte con un ordine crescente di complessità.
1) In primis, se pur in ritardo, una proposta provocatoria, ma non tanto. In tempi di crisi economica, invece che spendere soldi e capitale umano per fare complicati quanto inutili piani che non porteranno a niente, forse sarebbe meglio utilizzare le stesse risorse per riparare qualche struttura degradata del territorio toscano.
2) In secondo luogo, se non si può fare a meno di fare piani (bisognerebbe capire se è un’esigenza dei cittadini o dei politici) si può, quanto meno, rallentarli, cioè avere una visione “lenta” degli apparati normativi, pensarli meglio, farli concreti, limitando al minimo la burocrazia, fissare veri obiettivi, meno teorici, più raggiungibili. Utilizzare poche regole, ma reali e concrete, (i comandamenti della religione cristiana sono dieci) e salvo alcuni (appunto quelli ideologici) sono del tutto comprensibili e raggiungono immediatamente l’obiettivo prefissato, e non sono, come nell’urbanistica toscana, diecimila, perché in questo caso diventano condizionamenti che disperdono il significato delle cose, allontanano le possibilità di essere efficaci, e alla fine, dopo un lungo e tribolato percorso burocratico non si ottiene nessun risultato apprezzabile
La prossima urbanistica dovrà cercare di togliere dalle leggi quell’apparato ideologico che le inquina, quell’apparato sovrastrutturale e autoreferenziale che le rende inapplicabili e comunque in ogni caso si propone, in modo riduttivo ma utile, che prima di approvare nuove leggi le stesse siano fatte leggere da una maestra della scuola elementare che sicuramente potrà dare un buon contributo per renderle comprensibili anche alle persone normali.
3) Se poi le intenzioni pianificatorie vogliono essere veramente serie e cioè colpire nel segno e non girovagare nei meandri d’ipotetiche teorie personalistiche, è indispensabile fare una “lettura” della realtà con strumenti metodologici adeguati che tentino di capire come sono fatte le cose e perché sono fatte così. Invece di citarlo il Muratori forse sarebbe meglio utilizzarlo, utilizzare la sua sistematica e approfondita capacità di lettura processuale della realtà che è patrimonio della cultura urbanistica italiana, che non si è mai soffermata sul fare inutili casistiche (l’elenco infinito, riportato negli abachi di piano, dei casi simili di tessuto edilizio moderno, o l’elenco dei morfotipi insediativi
che ricadono con forme ellittiche sul territorio toscano), non si è mai soffermata su improbabili teorie assolutistiche della visibilità territoriale la cui ricaduta nel reale è veramente fantasmagorica. E’ realistico legare il progetto alla lettura, alla conoscenza reale e non intellettuale delle cose, il fare alla storia, ma in questo caso è il progetto si deve adeguare al principio della processualità, ai processi di evoluzione delle strutture, ( il concetto di tipo è un concetto processuale e non un elenco della spesa), il progetto deve abbandonare le opinioni singolari, personalistiche dei creativi, e piegarsi “mestamente” al portato della cultura di tutti e in particolar modo a quella cultura di base, dei semplici, cultura che ha fatto diventare importanti gli oggetti realizzati senza progetto.
Se le intenzioni sono serie, è il caso di smettere di fare piani astratti e occuparsi dell’urbanistica vera. I grandi piani sono generici, al massimo sollevano ragioni economiche e non sempre sono
chiare, viceversa il progetto del singolo edificio, senza regole di tessuto, è troppo autonomo, è di
tipo individuale, non è sufficiente a garantire una vera qualità degli aggregati e quindi della città.
Bisogna occuparsi del tessuto edilizio vero (scala non riconosciuta ufficialmente dall’urbanistica attuale), la scala che più inficia le relazioni edilizie, quella che relaziona la strada coi lotti, la strada con gli edifici e le relative pertinenze, le fronti stradali coi retri, ecc.. Decidere una buona volta quali sono le regole che sottendono il costruito, quelle in grado di produrre qualità condivisa che è quella presente nelle nostre strutture storiche e non lasciare alla deprecabile norma sulle distanze tra i fabbricati e tra i fabbricati e le strade l’unica regola per mettere insieme gli edifici, costruire la città.
Oppure dire che in Toscana le case hanno il tetto a spiovente o che hanno facciate con una netta prevalenza dei pieni sui vuoti, (caratteristica basilare del linguaggio edilizio toscano), sarebbe una vera rivoluzione per le periferie che costruiamo, ma significherebbe anche mettere in crisi i “mitici” principi dettati da Le Corbusier e i progettisti dovrebbero rinunciare alle teorie del moderno, il vero tallone di Achille del costruito attuale rispetto alle permanenze del paesaggio storico consolidato.
4) Ma questo vorrebbe dire andare oltre. Cioè fare un progetto che finalmente possa chiarire il
dualismo storicità modernità. Dualismo che piace molto alla cultura ideologica e di sinistra, la possibilità di immaginarsi nuove strutture che parlano di storia, ma anche (ecco il ma anche) di modernità. Questi purtroppo sono concetti in antitesi, sono inevitabilmente oppositivi perché
oppositivi sono i valori che li sostanziano. Se vogliamo una storia operante dobbiamo accettare la
“continuità” della storia, ma per accettare la continuità della storia dobbiamo rinunciare a tutta la
“filosofia” di rottura col passato che sta alla base e dentro i principi della cultura moderna e in particolare di quella architettonica. E’ difficile essere onesti intellettualmente e farsi piacere allo stesso modo e con la stessa intensità Michelangelo e Picasso. Solo i teorici del “ma anche” ci possono riuscire, perché propensi a dimenticare i valori che sostanziano l’uno e l’altro, perché propensi all’ambiguità.
La modernità ha i suoi valori, ma non è portatrice dei valori che stanno alla base del paesaggio storico. Produce, piaccia o non piaccia, un paesaggio nuovo, appunto moderno, diverso da quello
storico, pieno d’insidie per quello storico.
Quindi bisognerebbe proporre un piano che non accetti il doppio, il dualismo, perché far stare insieme valori contrapposti è ambiguo e quindi serve fare ancora una volta una scelta, credere fino in fondo in una o nell’altra soluzione, ma a questo punto il tema si fa complesso, forse non è più la sede adatta, quella più adeguata e si rischia di uscire dall’urbanistica per entrare, forse, nei temi della civiltà.
Col dovuto rispetto, sperando che mi sia sbagliato, porgo i più distinti saluti e un augurio per un’efficace riuscita del nuovo piano.
Enrico Lavagnino
2 ottobre 2014
L'architetto Enrico Lavagnino osserva sul PIT della Regione Toscana.
27 agosto 2013
PAOLO MARCONI NON C'E' PIU'
di Ettore Maria Mazzola
Quando a Londra ho appreso questa notizia ho provato un’immensa sensazione di vuoto.
E’ una perdita impossibile da sanare.
Paolo era un signore, un maestro, un gentiluomo, un pozzo di scienza.
Ricordo che, quando ero studente, avrei tanto voluto che fosse lui il mio professore di Restauro, invece dovetti accontentarmi d’altro su cui vorrei stendere un pietosissimo velo!
Era l’epoca del “nuovo ordinamento” e, per ragioni che è meglio ignorare, Paolo non era nell’elenco dei professori dell’indirizzo “Tutela e Recupero del Patrimonio Storico Architettonico” cui io mi ero iscritto … sarebbe stato l’unico professore degno di quell’indirizzo, ma non ne faceva parte.
Così, per passione, ho “studiato” ed apprezzato il lavoro di Paolo Marconi a distanza, fin poi ad incontrarlo di persona in occasione del convegno di Venezia organizzato con l’INTBAU per riscrivere la Carta del Restauro.
Fu un incontro bellissimo, parlammo a lungo dei miei libri e della mia passione per il lavoro degli architetti del primo Novecento, tra cui ovviamente suo padre Plinio, ricordo che fu molto sorpreso e commosso per questa mia passione.
Di lì in poi abbiamo avuto modo di conoscerci meglio, più volte è venuto a titolo di amicizia a tenere delle splendide lezioni magistrali per i miei studenti della Notre Dame … e ci è venuto gratis e per il solo piacere di condividere le sue conoscenze, solo ed esclusivamente per amore della cultura e dell’architettura con la “A” maiuscola!
Ricordo, quando lo invitai per la prima volta alla presentazione di un progetto dei miei studenti, che rimase entusiasta del lavoro svolto: si trattava di un progetto per l’area di Trastevere tra via di San Michele a Ripa e via Anicia. Al termine di quell’incontro ci diede dei “futuristi”, perché, disse, “questa ricerca nel recupero delle tecniche e linguaggio tradizionale è l’unico futuro sostenibile possibile”.
Dopo quell’esperienza, a mia insaputa, lanciò pubblicamente in Campidoglio la proposta di lavorare insieme per proporre la ricostruzione degli isolati di via Giulia che ben conoscete. Per me e per i nostri studenti fu un’esperienza meravigliosa … indipendentemente dal sangue amaro che, con Paolo stesso, ci siamo fatti a posteriori.
Il nuovo sindaco Marino dovrebbe porre fine all’attuale scempio in corso e dovrebbe ribattezzare quell’area Piazza Paolo Marconi!
di Ettore Maria Mazzola
Una cosa bellissima della sua personalità era quella di condividere sempre i suoi pensieri e la sua esperienza professionale, inclusi i tanti “trucchi del mestiere”, che non erano trucchi, ma vere e proprie soluzioni tecniche geniali imparate grazie alla sua infinita esperienza di cantiere.
Negli ultimi anni mi ha regalato un paio di DVD preziosissimi che contengono delle presentazioni in PPT dei suoi 40 e passa anni di esperienza … li custodirò come si fa con i libri più importanti di una biblioteca!
Ricordo, quando lo invitai per la presentazione del progetto che i miei studenti avevano sviluppato per le aree dismesse lungo il Tevere all’Ostiense, che Paolo si dimostrò assolutamente d’accordo con l’idea di rendere navigabile il Tevere … come disse lui, “risolvendo a monte il problema delle alluvioni come avviene in tutti i Paesi civili del mondo” e ancora, criticando gli assurdi muraglioni esistenti, ci spiegò come essi, “oltre a non risultare funzionali perché l’acqua eventualmente entrerebbe a Roma dalla via Flaminia, fungerebbero anche da vasca di contenimento per le acque che volessero rientrare nell’alveo”. A supporto di questa tesi ci raccontò il suo ricordo dell’ultima alluvione seria di Roma quando, diceva, seduto sulle spalle di suo padre Plinio aveva visto l’area presso Largo Argentina interamente allagata.
Voglio ringraziare ancora Paolo per l’importantissimo dono della sua splendida introduzione al mio libro “La Città Sostenibile è Possibile”.
Che dire poi della sua disponibilità nel fornirmi la sua copia personale del Manuale del Recupero di Palermo? Quando stavo elaborando il progetto per lo ZEN gli telefonai chiedendogli se sapeva dove avrei potuto trovarne una copia visto che, inspiegabilmente, la Flaccovio l’aveva da tempo messo fuori stampa. Paolo non ci pensò due volte e mi disse di andarlo a trovare per prendermi la sua copia.
Che dire, con Paolo l’Italia e il mondo intero perdono una figura straordinaria che sarà impossibile rimpiazzare.
Ciao Paolo, ti devo moltissimo.
Ettore
5 giugno 2013
L'ARCHITETTURA SACRA OGGI
Un video con Antonio Paolucci, Rodolfo Papa e Ciro Lomonte sull'architettura sacra oggi
21 maggio 2013
Arat_a Isozaki?
di Ettore Maria Mazzola
Dopo un piacevole silenzio durato qualche anno, nei giorni scorsi è stata tirata nuovamente in ballo l’abominevole tettoia di Arata Isozaki per gli Uffizi di Firenze, di qui il titolo ironico che nella mia città d’origine significherebbe “di nuovo Isozaki?”
E già, ci eravamo finalmente quasi dimenticati dell’esistenza di questo problema assurdo, e invece qualche indomito ha pensato bene di riesumarlo!
In un articolo pubblicato da Repubblica il 18 u.s. si apprende che “gli architetti” avrebbero fatto un appello affinché la “loggia” di Isozaki venga realizzata.
Andiamo per punti ed iniziamo col chiarire che ci troviamo davanti ad un doppio abuso terminologico:
1. Non è stato l’intero consesso degli architetti fiorentini a firmare la protesta, bensì solo uno sparuto gruppo di architetti i quali, a detta di molti loro colleghi, non si sarebbero minimamente confrontati pubblicamente con l’intera categoria, presentando indebitamente presentato quell’appello a nome dell’intero Ordine Professionale;
2. La struttura di Isozaki non può definirsi come Loggia, cosa ben più nobile di questa struttura, semmai potrebbe definirsi, in nome del politically correct, una mega-pensilina o mega-tettoia, ma io preferisco essere onesto e diretto e chiamarla uno sgorbio informe. A certi signori chiedo solo come possa esser possibile semplicemente immaginare di poter fare un confronto tra la Loggia dei Lanzi o quella del Bigallo e questa orrenda copertura, degna di un orripilante ed ipertrofico autogrill del pianeta Urano?
Chiariamo:
Sul primo punto, abbiamo potuto apprendere da una polemica lanciata da un architetto fiorentino molto impegnato nelle politiche di riforma degli ordini professionali, che le cose non siano andate proprio come ci è stato raccontato dall’articolo.
Il commento al veleno che aveva scatenato il dibattito era stato il seguente:
«Ci risiamo!!! Ma chi ha mai delegato qualcuno dell'Ordine a incardinare la rinascita urbanistica del centro storico di Firenze, sul bandone da posto macchina di Isozaki? Ma è tanto difficile promuovere una politica professionale condivisa? In mezzo a tanta arroganza qualche Architetto comincia a muoversi su sé stesso, bruciando in piazza la delega in bianco».
Nell’articolo di Repubblica si leggeva:
«La Loggia di Isozaki potrebbe essere il simbolo del recupero del centro storico di Firenze. Ma bisognerebbe farla, altrimenti diventa, come ormai sta accadendo, il simbolo del mancato recupero. L'Ordine degli architetti di Firenze lancia un appello alle istituzioni: Che fine ha fatto la Loggia di Isozaki? Facciamola. Non possiamo più aspettare. Da lì parte la credibilità del recupero degli spazi vuoti della città, a cominciare dal tratto che va da San Firenze a piazza dei Giudici […] se si lascia marcire il progetto vinto con regolare concorso ormai da 15 anni dall'archistar giapponese Arata Isozaki, non si dà nessuna fiducia quando si parla di qualsiasi altro progetto».
E allora chiediamoci:
Ma davvero il centro storico di Firenze avrebbe bisogno di un recupero di questo tipo??
Arat_a (ci risiamo) con l’abuso terminologico tipico degli architetti.
Certi architetti dovrebbero concentrare la propria attenzione su come migliorare l’abominio che hanno creato intorno ai centri storici … invece continuano ad accanirsi nel tentativo di fare approvare uno scempio urbanistico che, come nel caso dell’Ara Pacis di Meier a Roma, spianerebbe la strada a future mostruosità tanto care ai professionisti diversamente incapaci di dialogare con il contesto in maniera rispettosa.
Una delle tante assurdità di questo appello/capriccio presentato da questi fantomatici rappresentanti dell’Ordine degli Architetti fiorentino è quella che emerge da questa frase:
«[…] Uno snodo che potrebbe invece connettere il più importante museo della città con il resto di Firenze. Recuperando un'area del centro ancora vissuta come un «retro» e affollata di ex: ex Capitol, ex tribunale. Troppi ex che invece potrebbero invertire una tendenza liberando verso la città l'enorme potenziale attrattivo esercitabile da un museo al passo con i tempi»
… già, “un enorme potenziale attrattivo esercitabile da un museo al passo coi tempi” … evidentemente l’attuale Museo non sarebbe al passo coi tempi!
Guardando ai numeri del flusso turistico a me pare che gli Uffizi tirino parecchio … o sono diventato un pazzo visionario?
Sinceramente non penso affatto che questa orrenda “torta in faccia” dell’archistar giapponese possa generare un rilancio turistico di un qualcosa che non ha alcuna necessità d’esser rilanciata.
Ma, si sa, agli architetti il mondo piace sottosopra, così amano inventare soluzioni per trovarne i problemi!
Molti anni fa, in viaggio con i miei studenti e colleghi americani, all’interno degli Uffizi ci imbattemmo nell’esposizione di alcuni pannelli esplicativi del progetto che non conoscevamo. Restammo sconcertati, soprattutto restammo sconcertati da una frase che giustificava il progetto: “siccome Firenze e gli Uffizi ospitano ogni anno un gran numero di turisti giapponesi, siamo certi che la realizzazione della nuova entrata di Isozaki ne attirerà ancora di più”
… Un’idiozia che ci ha fatto sorridere per giorni al pensiero che si potesse anche solo immaginare che i giapponesi potessero essere così stupidi da affrontare un costosissimo viaggio transoceanico per venire a vedere questo orribile affronto sgrammaticato del loro compatriota nel cuore del Rinascimento italiano!
Suvvia, siamo seri!
Riflettiamo ora su alcune domande sulle quali, a causa del lavaggio del cervello patito nelle facoltà di architettura, troppo spesso gli architetti non riescono riflettere.
Ma dall’altro lato della barricata cosa pensa la gente di certi progetti?
E poi, se il problema che si pongono questi architetti fiorentini sarebbe quello della eventuale “figuraccia” e della “mancanza di credibilità” di Firenze e dell’Italia, chiediamoci: cosa pensano gli stranieri del progetto di Isozaki?
Ebbene, insegnando in una prestigiosissima università americana e collaborando con molti altri programmi internazionali, posso dire di avere centinaia di colleghi sparsi per il pianeta – non necessariamente “tradizionalisti” come qualcuno potrebbe malignare – i quali sono a dir poco indignati dall'approvazione di quel progetto ... e se questo è il parere di molti architetti e docenti di architettura, è facile immaginare quella che possa essere l’opinione dell'enorme massa di terrestri non appartenenti alla “specie contaminata” degli architetti. … signori colleghi fiorentini, ci avevate mai riflettuto?
Nell’articolo, come si è detto si rivendica: “se si lascia marcire il progetto vinto con regolare concorso ormai da 15 anni dall'archistar giapponese Arata Isozaki, non si dà nessuna fiducia quando si parla di qualsiasi altro progetto”
… Ma quale credibilità avrebbero certi concorsi dove i partecipanti sono a turno alterno i giudicanti ed i giudicati?
Vogliamo dare credibilità ad un concorso?
Vogliamo dare finalmente il giusto rispetto alla cittadinanza ormai da troppo tempo assoggettata alle imposizioni degli architetti?
Allora rifacciamo il concorso e facciamo in modo che la presenza degli architetti risulti del tutto marginale nella commissione giudicante e vediamo che succede. Peraltro Firenze è Patrimonio dell’Umanità … per quale motivo non dovrebbe essere il mondo intero a dover decidere cosa sia giusto premiare e realizzare all’interno di quello squarcio del tessuto urbano fiorentino?
Speriamo nel buon senso del Ministro ai Beni Culturali Massimo Bray, chiamato in causa dai presunti rappresentanti degli architetti fiorentini, ed ovviamente nel buon senso del sindaco e dell’intera cittadinanza fiorentina, così da non dover piangere un giorno per aver accontentato un ridicolo ed arrogante capriccio.
25 aprile 2013
COCCODRILLI, "PECORE" E AGNELLI SACRIFICALI
Questo il ricordo personale, sincero come sempre e commosso che Ettore Maria Mazzola ha dedicato all'On. Teodoro Buontempo, deceduto il 24 aprile 2013.
Coccodrilli, “Pecore” e agnelli sacrificali
di
Ettore Maria Mazzola
Nel gergo giornalistico, il coccodrillo è un necrologio scritto in anticipo, per averlo pronto al momento del bisogno; probabilmente molti dei commenti che si leggono oggi ovunque nel web a seguito della dipartita dell’on. Teodoro Buontempo fanno parte di questa categoria.
Non è quello il “coccodrillo” a cui penso: mi riferisco ai tanti necrologi caratterizzati da “lacrime di coccodrillo”, scritti da personaggi vicini a lui che ben poco hanno a che fare con il reale affetto e stima nei suoi confronti.
Personalmente, lo sanno tutti, sono lontano anni luce dal partito in cui militava l’onorevole Buontempo, e proprio per questa ragione mi sento in dovere di esprimere il mio disinteressato e profondo dolore per la morte di un personaggio che, nel bene e nel male, faceva politica perché credeva realmente in ciò che portava avanti – anche quando si trattava di scelte impopolari come la vicenda dei fondi per la regolarizzazione del 4° piano di Corviale – perché credeva fino in fondo nell’obbligo di rispettare le promesse elettorali e, soprattutto, credeva nella necessità di lavorare per il bene comune e per le classi disagiate, tutte, senza distinzioni!
La ragione per la quale parlo di lacrime di coccodrillo da parte dei politici a lui vicini è dovuta ad una mia brevissima esperienza diretta col personaggio.
Qualche anno fa, al termine di una lunga ricerca sull’edilizia popolare riportata nel mio libro “La Città Sostenibile è Possibile” (Gangemi 2010), volli elaborare un progetto di Rigenerazione Urbana del quartiere Corviale di Roma, un progetto nel quale mettevo in pratica i miei studi, suggerendo la riscoperta di una serie di norme e strumenti in vigore nell’Italia degli anni ’10 del secolo scorso, norme e strumenti che avevano consentito all’ICP di costruire in proprio e per conto terzi l’edilizia pubblica facendolo divenire l’azienda più florida dell’epoca a Roma. Quelle norme, soprattutto strumenti, furono riposti in cantina con le leggi fasciste che istituirono i Governatorati, “degradarono” l’ente ed eliminarono l’Unione Edilizia Nazionale.
Di quel progetto, che venne pubblicato su alcuni giornali e nel web, se ne innamorò l’onorevole Buontempo, Assessore alle Politiche della Casa della Regione Lazio, sicché mi volle conoscere per cercare di organizzare insieme un convegno a tema. Egli aveva molto a cuore la situazione delle periferie e degli alloggi popolari ed avrebbe voluto porre fine alle ingiustizie sociali ed urbanistiche che caratterizzano le periferie italiane. In particolare aveva a cuore l’indegna situazione del Corviale di Roma. L’idea partiva dal fatto che, oltre al mio progetto, ce ne fossero degli altri, come per esempio quello di Gabriele Tagliaventi e Alessandro Bucci, tutti votati a sostituire l’attuale ecomostro in un quartiere autonomo a dimensione umana, caratterizzato da edilizia tradizionale, piazze e giardini.
Ci chiarimmo subito sul fatto che non avrei mai accettato strumentalizzazioni politiche su di un tema che per me viaggiava ad un livello culturale, sociale ed economico molto più alto dei patetici battibecchi politici dai quali rifuggo.
Lui si mostrò d’accordo: l’impegno sociale era più importante di tutto, e anche persone come me, allergiche a certi partiti, avevano diritto a dare una mano per migliorare le cose, indipendentemente dalla tessera del partito!
Ricordo come commentai l’incontro ad amici e colleghi che scherzavano sull’incontro col “Pecora”, come veniva chiamato l’onorevole. A questi amici e colleghi dissi che, indipendentemente dalle cose che si dicevano su di lui, a me era sembrata una persona corretta, eventualmente di un altro pianeta rispetto ai politici italiani: non riuscivo a quasi a credere alla sua apertura al dialogo, così mi documentai sulla sua biografia, scoprendo che, in effetti, sembrava più stimato dall’opposizione che dal suo partito!
Nel tempo, con sorpresa, mi resi conto, che l’onorevole mi seguiva, leggeva i miei scritti, sedeva tra il pubblico delle mie conferenze (Ferrara, Latina, Roma), alcune volte mi ha perfino telefonato per chiedere consigli su ciò che sarebbe andato a dire a degli incontri e conferenze sull’ambiente e sulla sostenibilità dove si accingeva a partecipare … ricordo ancora una lunga telefonata durante la quale parlammo di energie alternative e della mia idea di far riconoscere il diritto agli sgravi fiscali del 55% non solo a chi usi prodotti industriali coibentanti, pannelli fotovoltaici, ecc, ma anche a chi utilizzi materiali e murature tradizionali a chilometri zero che non richiedono sforzi energetici per riscaldamento e raffrescamento.
Ricordo come una volta cercai di fargli cambiare modo di esprimersi circa l’edilizia del Corviale per evitare di cadere nel tranello dell’inquadramento politico di quel genere di architettura che lui definiva “Sovietica”, così gli dimostrai come fosse figlia delle folli teorie di Le Corbusier che nulla aveva a che fare col comunismo, sebbene quelle tipologie abbiano fatto presa presso le giunte e i Paesi sinistrorsi.
Di lì a poco intraprendemmo un lungo e faticoso lavoro per organizzare il convegno. L’onorevole mise a disposizione il suo team interno alla Regione, collaborando con noi (me, Gabriele Tagliaventi, Alessandro Bucci, Stefano Serafini, il Gruppo Salìngaros) alla pianificazione di un convegno che avrebbe potuto lasciare il segno sul futuro delle periferie romane e italiane.
Il convegno era pronto e si sarebbe dovuto svolgere alla fine di giugno 2011, poi si preferì evitare la concomitanza con la festività sei SS. Pietro e Paolo e si riprogrammò, nei minimi particolari, il convegno che avrebbe dovuto aver luogo il 23 e 24 settembre 2011 presso l’Auditorium dell’Ara Pacis: 20000 mega-posters a colori stampati, 2000 brochures da 16 pagine a colori stampate, 3000 inviti a colori stampati e spediti, un video ed un’intervista radiofonica registrate dall’onorevole per pubblicizzare l’evento, alberghi e aerei prenotati per ospitare Philippe Pemezec, sindaco di Plessis Robinson, Bernard Durand Rival, Direttore dell’Uff. Urbanistico di Val d’Europe, il prof. Nikos Salìngaros, e il dr. Stefano Chiavalon, direttore generale della General Smontaggi esperto di demolizioni.
… Tutto procedeva a meraviglia fino a meno di una settimana dal convegno, quando la Governatrice del Lazio impedì che il convegno avesse luogo motivando il fatto con presunti motivi di bilancio … tuttavia, nonostante quei presunti motivi, al posto del nostro convegno se ne svolsero altri due per la promozione del Piano Casa … il nostro convegno e le idee dell’assessore, effettivamente, risultavano troppo in contrasto con le strategie urbanistiche della Regione Lazio!
Inutile raccontare quanto l’onorevole abbia sofferto di questo schiaffo morale, inutile dire come “er Pecora” possa essersi sentito un “agnello sacrificale”, ricordo il suo imbarazzo nei nostri confronti, ricordo lo sfogo dettato dall’incredulità.
Tre mesi dopo ci incontrammo nuovamente, voleva comunque provare a ritornare alla carica sul tema della sua vita, poi più nulla, anch’egli dovette arrendersi alla condanna del silenzio!
Oggi sarebbe dunque utile evitare la retorica e l’ipocrisia, rispettando la memoria di chi non c’è più!
Addio onorevole, nonostante la divergenza politica, ho stimato moltissimo la sua incrollabile coerenza.
13 aprile 2013
PIAZZE 1 - LUDWIG HILBERSEIMER
Pietro Pagliardini
Comincio questa mini-serie sulle piazze in negativo, con un autore, Ludwig Hilberseimer, che è l’antitesi stessa dell’idea di piazza e che ha dato il suo contributo alla dissoluzione della città.
Leggere i suoi testi di analisi storica della città e confrontarli con la sua produzione urbanistica, i disegni, i progetti realizzati e la sua teoria per la città contemporanea è come leggere la storia di una dissociazione mentale, di una schizofrenia. Poi, riflettendo e rileggendo alcuni passi de La natura della città, 1955, l’idea della dissociazione non si annulla ma si stempera nella consapevolezza che ad un certo punto della storia del novecento appare come ineluttabile la ricerca di dominare la modernità con gli strumenti propri della modernità stessa E’ come se un velo fosse entrato nella mente di ognuno e avesse fatto da filtro tra la realtà e le aspettative del futuro, non riuscendo a mettere a fuoco insieme e a collegare le due diverse fasi temporali.
La forza della realtà presente al momento, con un atteggiamento certamente influenzato anche dalle categorie della struttura e della sovrastruttura, sembra avere impedito di riuscire perfino ad immaginare di opporsi ad una organizzazione tecnologica della società ritenuta inesorabilmente vincente, probabilmente a ragione, e di dedurne che la città coerentemente avrebbe dunque dovuto adattarsi ad essa attraverso lo strumento e il simbolo primo della modernità, cioè l’automobile. Questa viene considerata allo stesso tempo un pericolo (per la salute e la vita in Hilberseimer) ma anche, per massimo paradosso, la generatrice stessa del disegno della città che si piega a quell’oggetto malefico. Si noterà leggendo l’inizio del brano riportato di seguito, la straordinaria analogia di temi e di linguaggio, a distanza di 60 anni, con quelli che potremmo avere letto in un quotidiano di oggi.
Hilberseimer: particolare del piano di ristrutturazione dell'area commerciale di Chicago |
A questo proposito, una breve digressione dal tema: mi sembra che lo stesso errore, in maniera simmetricamente ribaltata, venga compiuto oggi, con l’idea largamente prevalente di chiudere tutti i centri storici, e anche oltre, alle auto. C’è un problema irrisolto con l’auto, non solo dal punto di vista strettamente tecnico, ma direi a livello inconscio, la quale, in entrambe i casi, riesce a diventare il carnefice della città. Una città senz’auto è un’utopia e un errore pari ad una città disegnata per l’auto, una fuga dalla realtà che rischia di accentuare le differenze tra le parti di città e l’artificialità dei nostri centri storici. L’auto è un problema da risolvere non un nemico da combattere e per risolverlo, o attenuarne gli indiscutibili problemi che crea, occorre liberarsi da quella specie di riflesso condizionato di negazione che finisce per produrre ideologie sbagliate qualitativamente simili a quelle di Hilberseimer.
Riporto alcuni brani tratti da La natura della città, scritto nel 1955 da Hilberseimer e che illustra principi e criteri del suo piano per Chicago, che porterà tra l’altro al suo progetto realizzato più conosciuto, Lafayette Park.
Il capitolo finale, Problemi di pianificazione, quello delle proposte e del progetto, ci mostra tutto il senso della fiducia nel progetto e nelle proprie idee di una nuova visione di città. Ci indica anche una buona dose di ottusità e di infinita distanza tra le proposte progettuali e gli esiti che, con un minimo di senso critico e di dubbio, si sarebbe potuto prevedere sfociare nella creazione di un ambiente totalmente artificiale e astratto. In pochi come in questo, proprio perchè non ha l'aspetto dell'utopia ma quello della fattibilità di piano, si misura la separazione dell'uomo dalla natura, in quel processo di astrazione cominciato in maniera sistematica con le il razionalismo dei primi anni del 900 ma le cui radici sono evidentemente ben più lontane. Ottusità tanto più grave in chi, come l’autore, nelle pagine precedenti dimostra invece sensibilità e conoscenza dei processi che hanno determinato la nascita o lo sviluppo delle città nel corso della storia. E’ questo il velo di cui parlavo prima. Certo dobbiamo tenere conto che si parla di Chicago, una città dominata e probabilmente sopraffatta dal traffico già negli anni 50, che, risulta bene dal testo, era probabilmente tale e tanto da mettere in secondo piano altri aspetti.
Ma qui non si parla di aggiustamenti, qui si disegna una sorta di “città ideale” che ha aspetti a dir poco allucinati, tutti trattati con uno spirito razionalistico e positivista che prevede effetti sicuri, che non ammette dubbi o incertezze, con descrizioni anche di dettaglio che oggi fanno perfino sorridere per la loro mediocre ingenuità.
Eppure, anche se non al livello ossessivo in cui Hilberseimer sembra aderire e indulgere in modo del tutto acritico, quei criteri hanno fatto scuola e sono diventati cultura dominante. Basti pensare alle strade a cul de sac, o alla ossessione delle funzioni con la loro rigida divisione.
L’unico aspetto positivo, per assurdo, è che la parola “piazza” non viene citata nemmeno una volta. Di questo Hilberseimer era evidentemente consapevole: niente rete urbana, niente piazze.
“La città contemporanea è diversa da tutte le città del passato. L’industria e i trasporti meccanici hanno provocato una trasformazione, mentre l’incapacità di prevedere gli effetti di questi nuovi mezzi ha permesso alla città di espandersi in modo così abnorme che ne è risultata una condizione di caos. I pericoli del traffico, il rumore, l’inquinamento dell’aria, le aree degradate aumentano continuamente e, con essi, aumenta il pericolo per la salute e la vita dell’uomo. E’ strano pensare che lo straordinario progresso della tecnologia non ha fatto altro che distruggere la città: tuttavia non bisogna rifiutare il progresso tecnologico in quanto tale. La causa reale della nostra attuale condizione è l’incapacità di adeguarsi al processo di sviluppo tecnologico. La città, costruita per i pedoni, non ha saputo adattarsi alle esigenze delle civiltà motorizzate; e questa incapacità è messa in evidenza dalle innumerevoli indagini e statistiche sul traffico, gli incidenti, la congestione, le aree degradate, le abitazioni, le malattie, i crimini. Ma la città appare ancora incapace di invertire il suo corso disastroso.
Le limitazioni di traffico, e di parcheggio, l’eliminazione delle esalazioni nocive, la ristrutturazione delle zone degradate e altre misure sono solo palliativi, che non possono risolvere in alcun modo il problema che stiamo affrontando, il quale richiede l’intera città. La sua soluzione richiede la riorganizzazione delle parti costitutive della città stessa, e la capacità di collegarle in modo razionale; richiede inoltrel’integrazione della città con i suoi immediati dintorni.
Il sistema di strade e di lotti secondo cui sono costruite le nostre città è vecchio quanto la storia, e forse, addirittura, anche più. La sua funzione è sempre stata la stessa: raggruppare le case in blocchi e collegare questi con le altre parti della città per mezzo di una rete viaria. Questo sistema ha funzionato relativamente bene fin quando è comparsa l’automobile che lo ha reso inattuale e pericoloso. La velocità dell’automobile ci spinge a sostituire quet’impianto con uno che elimini, per quanto è possibile, gl’incroci di strade, che costituiscono un attentato alla vita. […] Le arre residenziali, quelle di lavoro e quelle per il tempo libero sono gli elementi principali di ogni città. Il problema consiste nell’organizzare ogni area secondo la funzione alla quale è destinata, nel dare a ciascuna la propria collocazione rispetto alle altre aree e a tutto l’insieme, in modo che nessuna possa influenzare negativamente l’altra. Se si rispettano queste due condizioni, si avrà come risultato un’unità perfettamente funzionale in cui la distanza fra diverse zone sia tale da rendere minaima o eliminare l’esigenza di trasporti meccanizzati a livello locale.
L’unità che noi proponiamo soddisfa queste necessità e contiene, al suo interno, tutte le parti essenziali di una piccola comunità. La sua dimensione sarà determinata da distanze percorribili a piedi che, per essere tali, non dovranno mai superare i 15 o 20 minuti di cammino. Il nuemro di abitanti sarà determinato dal numero di posti di lavoro negli uffici e nelle fabbriche che fanno parte dell’unità; la densità varierà in modo analogo.”
Seguono sezioni che affrontano l’inquinamento, i diagrammi del vento, i valori architettonici, i problemi del traffico. Passa poi a simulare l’applicazione di quei principi espressi ad alcune città campione:
“ Questa rete di strade secondarie dovrebbe collegare tutte le strade residenziali le quali, verso la città, dovrebbero essere a fondo cieco”.
Si passa infine a Chicago:
“L’eliminazione del traffico di attraversamento nelle zone residenziali e della possibilità di accesso diretto a ogni casa, è un problema importante e difficile. Qui potrebbe essere risolto semplicemente chiudendo le strade. E’ possibile ottenere che soltanto le strade centrali delle unità future consentano ancora il traffico di attraversamento; mentre tutte le altre son chiuse, come, eliminando alcuni blocchi tra le unità future, si può creare un parco, una area libera naturale in cui potrebbero essere localizzate le scuole e gli edifici pubblici che dovrebbero essere accessibili senza attraversare strade di traffico: in tal maniera, pertanto,i bambini potrebbero andare a scuola senza risultare in nessuna maniera esposti ad alcun pericolo”.
Queste ultime righe sono la descrizione efficace e quasi pittorica della fine della città, attraversata da autostrade a livello inferiore, una distesa di verde su cui si ergono edifici pubblici staccati l’uno dall’altro e poi una scuola, staccata anch’essa, più lontano gli edifici, ognuno rigorosamente separato dall’altro.
Distanza e separazione sono le cifre di questo schema, prossimità e connessione sono quelle della città tradizionale .
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11 aprile 2013
EFFETTI COLLATERALI DELLA "SMART GENERATION", RIFLESSIONI SULL'ULTIMA TROVATA DI ARUP ASS.
di
Ettore Maria Mazzola
Conoscevamo le previsioni di Nostradamus, quelle di Cassandra, quelle dei Maya, tutti i giorni abbiamo a che fare con le previsioni del tempo, Ci mancavano solo quelle sull’evoluzione degli edifici!
Ma ora abbiamo anche quelle! Infatti, grazie al gruppo di ricerca Foresight + Innovation del Gruppo Arup Associates, che ha prodotto una mostruosità definita “It’s Alive”, possiamo sapere quello che sarà il costruito dei prossimi 50 anni.
Bè diciamolo forte, sentivamo davvero il bisogno di questa “previsione basata su dati certi” perché rigorosamente stabiliti dallo stesso gruppo di ricerca!
Peccato però che quei dati ignorino una serie di ricerche di matrice sociologica, antropologica, neurofisiologica, economica e ambientale. Includo l’ambiente in questo elenco perché quest’ultimo andrebbe letto nel vero senso del termine e non in quello di comodo che certi studi di matrice consumistica adottano!
Potremmo ironizzare dicendo: data una soluzione se ne crei il problema.
È il principio che muove l’economia moderna iper-consumista. Non si fa a tempo a comprare l’ultimo tipo di I-Phone o Smart-Phone che ne esce subito uno nuovo dotato di “funzioni indispensabili” per risolvere problematiche delle quali fino a ieri sera non conoscevamo neppure l’esistenza, però è così che va il mondo (degli stupidi), e quindi tutti in fila al megastore per acquistare per primi l’ultimo ritrovato tecnologico!
… Ma perché tanta fretta ad essere i primi? Forse perché sappiamo che il giorno dopo quello straordinario ritrovato tecnologico sarà già vecchio? … gli uomini, che specie strana!
Sembra un discorso fuori luogo, ma a conti fatto siamo lì.
L’urbanistica, così come la conosciamo oggi, è una disciplina non più mirante a “disegnare la città”, essa infatti si limita all’organizzazione “funzionale” del costruito e, se si è fortunati, alla realizzazione delle infrastrutture necessarie per i collegamenti.
Peccato però che l’urbanistica della presunta città funzionale abbia prodotto, a livello planetario, luoghi perennemente congestionati, pericolosi e invivibili, a differenza dell’urbanistica delle città storiche – quelle che i convenuti del IV CIAM liquidarono come “non funzionali” – che continua a funzionare alla perfezione nonostante le violenze della “civiltà” moderna. L’urbanistica moderna si è basata e si basa su “previsioni di piano”, previsioni che, nella totalità dei casi, non rispondono mai alla realtà dei fatti ma solo agli interessi fondiari di qualcuno, generando un consumo di suolo inimmaginabile prima degli anni ’30, ovvero prima delle visioni folli di Le Corbusier e Wright.
Non se ne può ovviamente parlare tra colleghi, i danni ideologici e l’assuefazione al modernismo/funzionalismo, nonché gli interessi speculativi, sono tali che se si mette in dubbio la normativa urbanistica e il nostro stile di vita si viene condannati in ogni possibile modo da parte degli “esperti”.
Cosa c’entra tutta questa premessa? C’entra col fatto che, se un tempo certe previsioni riguardavano il modo di sviluppare la città, oggi Arup Associates ha deciso di fare un salto di qualità. Così, per poter conquistare una fetta di mercato edilizio del quale già detiene una grossa parte a causa di un sistema assurdo secondo il quale le cosiddette archistars (sotto forma di “società di ingegneria” e i “gruppi”) vengono considerate sinonimo di “garanzia” … indipendentemente dai ripetuti fallimenti e cause giudiziarie che hanno visto nel mondo coinvolti tanti nomi famosi.
Ecco quindi che la Arup Associates, per tramite del suo gruppo di ricerca Foresight + Innovation, si auto proclama “esperta” del settore – da lei stessa creato – dettando i tempi e i modi del futuro sostenibile dell’architettura e decidendo il modo in cui gli esseri umani dovrebbero vivere nei prossimi 50 anni.
In realtà non è proprio un settore creato dalla Arup, bensì l’esasperazione di uno slogan gran moda negli ultimi anni, la Smart City.
Sarebbe ora che gli umani prendessero coscienza del fatto che le grandi multinazionali “tech” stiano creando a tavolino un presunto futuro ipertecnologico del quale non solo possiamo fare a meno, ma che addirittura probabilmente mai vedremo a causa dell’esaurimento delle fonti non rinnovabili e della dipendenza di quelle rinnovabili dalle prime.
Sarebbe ora di smetterla di prendere per i fondelli la gente con descrizioni come quella che segue relativamente alla “Net-Native Generation”, termine coniato da Arup Associates per giustificare “It’s Alive”:
“La generazione di individui che popolerà la terra sarà nata nell’”era della rete”, perciò sarà molto probabile una tecnologia basata sempre di più sulla produzione di soluzioni individuali”.
Ragion per cui la ricerca della Arup mira alla possibilità/necessità di una progettazione architettonica basata su:
• “componenti flessibili per una continua adattabilità” … ma che senso ha parlare di continua adattabilità se stiamo parlando di una concezione usa e getta? (ndr)
• “produzione di più risorse di quelle che si consumano” … l’architetto diviene Dio e, per magia produce risorse energetiche dal nulla! (ndr)
• “presenza di una pelle sensibile e multifunzionale” lo slogan è “puoi immaginare un edificio che abbia una pelle sensibile e multifunzionale?” … le immagini allegato legittimano il dubbio relativo ai materiali proposti: quali costi, economici ed energetici si prevedono per questa pelle? E quale è il suo reale ciclo di vita? (ndr)
• “ipotesi di una città in cui gli edifici sono pienamente integrati con le infrastrutture urbane circostanti” … in pratica un modello di città intimamente dipendente dai trasporti a grandi distanze, piuttosto che un ambiente dimensionato sull’uomo. Come potrà una realtà di questo tipo sopravvivere alla fine dell’era del petrolio a buon mercato? (ndr)
• “Smartness che consiste in un sistema connettivo paragonabile al sistema nervoso umano, una mente insomma, capace di rispondere efficacemente e (quasi) autonomamente alle necessità del singolo” … interessante quel “quasi” messo tra parentesi, come a voler ammettere l’impossibilità di autonomia paventata nei primi tre punti! (ndr)
In un articolo dedicato a It’s Alive firmato da Giulia Custodi per il sito www.architetturaecosostenibile.it si apprende che lo studio di Arup Associates vuole prefigurare ciò che succederà nel 2050 a causa di “14 motori di cambiamento” dell’esistenza degli umani.
Nell’articolo si legge che nello studio di Arup la consapevolezza delle cause del cambiamento assume grande rilevanza, proprio perché si tratta della classica e preliminare indagine sull’identificazione del problema, senza cui non sapremmo dove andare a cercare le risposte. Tra queste abbiamo la crescita della popolazione e la relativa urbanizzazione, i cambiamenti climatici, il riconoscimento della scarsità delle risorse naturali, la coscienza ambientale e infine la consapevolezza di una società fondata sulla difesa e sulla sorveglianza”.
Viene quindi spontaneo chiedersi come mai, davanti a tanta consapevolezza, il prodotto sembra essere l’esatto opposto della risposta alle problematiche delle quali si era consapevoli?
Mi spiego meglio: se si è coscienti del problema dell’aumento della popolazione e, conseguentemente della crescita dell’urbanizzazione, si dovrebbe tendere a proporre delle tipologie urbanistiche ed edilizie che portino a ricompattare il tessuto urbano, piuttosto che proporre edifici puntiformi isolati che tendono a consumare un’immane quantità di territorio; quest’ultimo infatti risulterebbe indispensabile per risolvere i problemi relativi all’inquinamento e ai cambiamenti climatici … ma ciò non conta, evidentemente.
Inoltre, i ricercatori della Arup Associates raccontano della loro presa di coscienza della scarsità delle risorse naturali, tuttavia propongono un’edilizia che, oltre a danneggiare le falde freatiche per le ragioni che ho testé elencato, richiede anche un’immane consumo energetico! Si dovrebbe costruire artigianalmente e con materiali durevoli, naturali e a chilometri zero, materiali ottimamente performanti a livello termo-igrometrico, piuttosto che proporre edilizia industriale che impiega materiali dalla vita breve, prodotti a migliaia di chilometri di distanza, materiali che necessitano di artifici chimico-fisici per poter difendere gli edifici dagli agenti atmosferici … ma anche questo non conta!
Infine la Arup Associates sbandiera la triste consapevolezza di una società fondata sulla difesa e sulla sorveglianza, ciò nonostante propone un’edilizia frammentaria all’interno della quale il pedone non è il benvenuto e ci si muove solo grazie a grandi infrastrutture in uno scenario degno di Blade Runner, dove le relazioni sociali sembrano irrealizzabili. Nel tipo di città del futuro proposto da Arup non v’è possibilità di avere strade caratterizzate da fronti compatti ospitanti attività commerciali e/o artigianali al piano terreno, conseguentemente non v’è possibilità di ottenere quella “sorveglianza spontanea”, operata da negozianti e passanti, della quale Jane Jacobs parlava nel lontano 1961 criticando le città americane ormai disegnate in funzione delle automobili … dove sarebbe dunque tutta questa consapevolezza?
Lo studio di Arup è un inno alle nuove tecnologie e nulla più. Nell’articolo summenzionato infatti si legge:
“Nuovi modelli di produzione del cibo, città ed edifici intelligenti, nanotecnologie e biotecnologie, robotica e automazione. Tutti questi concetti rappresentano, nell’immaginario collettivo ma anche e soprattutto nei laboratori tecnici che ne preparano versioni sempre più sofisticate, ciò da cui oggi ci aspettiamo sarà popolato il mondo del futuro”.
In pratica siamo tornati al punto di partenza. Amiamo complicarci la vita con tecnologie sempre più sofisticate che rendono obsolete la sera ciò che era stato prodotto al mattino … di questo passo non sarà possibile costruire edifici che richiedano più di 24 ore, perché al mattino seguente saranno passati. E’ questo il futuro sostenibile che vogliamo?
Ma poi chiediamoci, è questo il futuro? È questa la novità? A me sembra che con 100 anni di ritardo si stia proponendo ciò che vaneggiava Antonio Sant’Elia nell’8° punto del suo Manifesto dell’Architettura Futurista del 1914: «[…] i caratteri fondamentali dell’Architettura Futurista saranno la caducità e la transitorietà. “le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città” questo costante rinnovamento dell’ambiente architettonico contribuirà alla vittoria del “Futurismo”, […] pel quale lottiamo senza tregua contro la vigliaccheria passatista».
Personalmente penso che l’unico futuro possibile per l’architettura, l’urbanistica e l’ambiente possa essere solo quello di un ritorno al buon senso, cosa che prevede la necessità di liberarsi al più presto dagli stupidi pregiudizi ideologici e dall’idea dell’architetto demiurgo.
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7 aprile 2013
SUL NUOVO LIBRO DI MARCO ROMANO "LIBERI DI COSTRUIRE"
di Ettore Maria Mazzola
Sebbene sia ben felice delle provocazioni di Romano (vedi post precedente), devo necessariamente esprimere i miei dubbi – o suggerimenti – atti a dare più credibilità a certe argomentazioni.
Chi mi conosce sa benissimo quanto io sia dalla parte di chi sostenga la necessità di ridare ai cittadini comuni la possibilità di esprimersi sulle realizzazioni urbanistico-architettoniche entro cui dovranno vivere; tutti sanno quanto io possa essere contrario alle presunte élite colte degli architetti che, parlandosi addosso ed autocompiacendosi, impongono la loro ideologia testandola su delle ignare cavie umane, quindi spero che capirete come queste mie critiche non vogliano essere distruttive del testo di Romano, ma piuttosto un suo completamento.
Il motivo principale della critica è che ritengo pericolosa la proposta di una sorta di tabula rasa della normativa edilizia e delle procedure vigenti in nome di una sorta di istigazione al “fai da te ciò che vuoi” … un modus operandi che, ritengo, piuttosto che presagire un miglioramento delle nostre città, sembra prefigurare un far west urbanistico architettonico degno delle peggiori periferie abusive.
Un grosso limite in questo approccio lo vedo anche nella sua difesa basata su discutibili indicazioni storiche questa pratica costruttiva libertaria.
Gli storici dell’architettura, e di conseguenza gli architetti di palato fino, tendono a considerare la formazione della città a partire dall’opera di Alberti e Rossellino a Pienza, mentre la vera coscienza urbanistica italiana si è sviluppata e consolidata molto prima, per celebrare la nuova istituzione dei Comuni all’indomani del feudalesimo, epoca in cui i “signori” realizzavano all’interno delle città dei castellari che nulla avevano a che fare col senso di città degli spazi condivisi, ma piuttosto si configuravano simboli arroccati della propria arrogante presenza bellicosa.
A testimonianza di ciò che dico, sottolineo come gli archivi storici italiani risultino stracolmi di Statuti, Regolamenti, Codici, Trattati, ecc. a partire dal tardo XII secolo (Siena, Vicenza, Città di Castello, Gubbio, Bologna, Perugia, Orvieto, Nocera Umbra, Verona, Pistoia, Parma, Viterbo, Ravenna, ecc.), documenti che dimostrano l’altissima concezione urbanistica degli italiani del medioevo, capaci di concepire e scrivere regole del vivere civile e del costruire nel rispetto degli altri. Se però andiamo a ritroso – sono anni che ci sto lavorando – troviamo che quelle regole, alcune delle quali sono riportate anche nel nostro Codice di Procedura Civile, sono riscontrabili in codici altomedievali e medievali arabi e bizantini [Trattato di Giuliano di Ascalone, sotto Giustiniano I (531-533), Trattato di Ibn Abd al-Hakam (767–829) al Cairo, Trattato di Ibn Dinar (827) a Cordoba, Trattato di Ibn al-Rami a Tunisi (circa 1350)] trattati che a loro volta si rifacevano ai codici costantiniani; ebbene quei codici e trattati, tramite la dominazione bizantina e araba si sono diffusi in tutto il Bacino Mediterraneo, completando un viaggio di andata e ritorno dall’Italia e restando in vigore, anche se non ne abbiamo tracce scritte, nel modo di costruire la città e relazionarsi urbanisticamente tra i suoi cittadini fino all’alba del Rinascimento.
Ciò vuol dire che le città sono – SEMPRE – state costruite in base a delle regole, sicuramente più snelle e logiche di quelle post-lecorbusieriane, e mai in nome del fai da te; o meglio, il fai da te è sempre stato ammesso, ma nel rispetto degli altri, perché un tempo vigevano le regole del vivere civile, del rispetto del bene comune, del rispetto del decoro urbano, ecc., tutte regole che la presunta “civiltà” contemporanea ha perduto.
Se vogliamo quindi riportare le città ad essere più armoniose, e i cittadini a realizzare in maniera più libera (nel rispetto altrui), bisogna prima risvegliare il senso civico … ed oggi non mi sembra affatto che ce ne siano le condizioni! Occorrerebbero anni di insegnamento dell’Educazione Civica (vergognosamente eliminata dall’insegnamento scolastico), occorrerebbe rivedere il modo di insegnare la storia dell’arte e dell’architettura, imponendo anche quello della Storia dell’Urbanistica (oggi inesistente nelle scuole superiori), occorrerebbe imporre l’insegnamento della Sociologia Urbana, affiancato a quello dell’Urbanistica, per far comprendere a chiunque, e non solo a pochi eletti che andranno a studiare architettura ed urbanistica (peraltro con tutti i limiti dell’ideologia), quelli che sono gli effetti collaterali dell’urbanistica e dell’architettura … solo allora potrebbe rendersi possibile operare come Romano suggerisce.
Potrei andare avanti moltissimo … ma rischierei di essere prolisso, quindi rimando ai miei tanti articoli sparsi nel web ed ai miei libri per far capire meglio ciò che intendo, però devo fare un’ultima annotazione, questa volta profondamente critica.
Romano dice:
«E se dobbiamo oggi levare una bandiera di difesa della libertà del cittadino nella propria casa, alla nostra generazione toccherebbe abolire subito tutte le norme che concernono il suo interno, dove ciascuno dovrebbe essere libero di ridurre l’altezza dei locali ai quei 2,26 metri che Le Corbusier considerava il modulo perfetto – o beninteso a qualsiasi misura ciascuno creda migliore – di scegliere la dimensione delle stanze, dei corridoi, dei bagni e di quant’altro giudichi confacente alla sua personalità, di decidere se e come illuminarli o arearli, e chissà che una casa senza finestre non faccia riparo alle crescenti polveri inquinanti sparse nell’aria cittadina. (…)»
Ebbene questa libertà non è percorribile, né può esserlo l’idea che si possa fare a meno, in nome di una presunta libertà, di conquiste scientifiche come quelle derivanti dall’eziologia e dalla fisiologia e neurofisiologia!
Consentire di costruire ambienti dimensionati in quel modo, o addirittura non ventilati significa buttare nel cesso anni di studi che hanno portato a ridurre la mortalità delle persone grazie anche al miglioramento delle condizioni di vita delle abitazioni … cosa che Le Corbusier, dall’alto della sua presunzione ed ignoranza, volle fingere di non sapere, per il comodo degli speculatori suoi sponsors.
Il risultato di quell’ignoranza portò gli architetti, gli urbanisti, e prima di loro i docenti universitari a fare una grandissima confusione, sempre negli interessi degli speculatori (fondiari ed edilizi), tra “densità urbana” e “densità abitativa”, portando le città ad espandersi a macchia d’olio in nome di una errata criminalizzazione dei centri storici – densi e compatti – che nulla aveva a che fare con le condizioni di vita all’interno degli edifici.
Inutile quindi far notare l’ossimoro delle stanze senza finestre per prevenire crescenti polveri inquinanti sparse nell’aria cittadina: stanze senza finestre = dipendenza dall’aria condizionata = aumento dell’inquinamento = aumento delle polveri sottili!
Detto ciò chiudo con la speranza che questo scritto aiuti tutti, Romano incluso, a riflettere sulla frase “est modus in rebus”: … così come fu un grande errore quello di spazzare tutto il passato in nome dell’ideologia modernista (Carta di Atene e Le Corbusier), altrettanto e peggio ancora potrebbe succedere nel caso si facesse repentinamente, e senza nuove regole, piazza pulita, in nome della demagogia, di tutto ciò che abbiamo conquistato in materia di ecologia e salute pubblica!
LIBERI DI COSTRUIRE
Pietro Pagliardini
Il titolo non è mio ma è quello del nuovo libro di Marco Romano che consiglio vivamente di leggere con animo sgombro da pregiudizi. E’ un libro disinibito, dissacrante, libertario, liberatorio e perfino libertino, tanto è anti-moralista e quindi controcorrente in questa fase della nostra storia così grevemente moralista e giacobina, e lo è con spirito leggero e divertito. Leggendolo viene da immaginarsi la sottile e irridente perfidia dell’autore nello scrivere quelle parti più politicamente scorrette, col gusto per la provocazione intellettuale che ci ha messo, ben sapendo che sarebbe stato sottoposto alle critiche più feroci. Probabilmente andando volontariamente a sollecitarle.
Ma detto questo, il libro è serio, anzi serissimo, fondato sulla profonda conoscenza non solo delle città ma della storia e delle sue pieghe più nascoste, quasi da erudito topo di biblioteca.
Il contenuto è letteralmente politico perché affronta il tema città dal punto di vista della civitas, cioè dei cittadini, ribaltando completamente la visuale rispetto a quella che è la regola generale da sempre: la città europea come noi la conosciamo e come a noi è giunta, è il frutto dell’opera dell’uomo da mille anni a questa parte ed è cresciuta e si è trasformata guidata da una precisa volontà estetica non imposta dall’alto bensì cresciuta in un clima di democrazia e libertà, e quindi il metro con cui leggerla e giudicarla è l’uomo stesso in quanto cittadino, senza divinizzare i manufatti se non in funzione del soddisfacimento dei desideri, oltre che dei bisogni, dell’uomo in quanto appartenente alla civitas. Il valore simbolico dei temi collettivi e dei temi individuali trova la sua ragion d’essere nell’essere stati scelti come tali dai cittadini con l’intento di rendere più bella l’urbs.
Da questo assunto storico, che fa perno sul diritto di cittadinanza garantito dal possesso di una casa, le cui origini Romano spiega con dovizia di particolari, nasce Liberi di costruire, che va preso proprio in senso letterale, almeno di primo acchito, per entrare dentro l’argomento, salvo poi riportarlo entro l’alveo delle regole le quali però hanno sempre come faro il rispetto del diritto dei cittadini a costruirsi una casa secondo le aspettative e le possibilità di ciascuno.
Le regole infatti sono informate, riprendendo quello che sempre l’autore ha sostenuto, dal principio di garantire un godimento della città il più possibile egualitario, a prescindere dalle possibilità economiche dei singoli. Ciò può avvenire, secondo Romano, disegnando piani regolatori che non pongano limiti quantitativi al “dimensionamento” del piano (immagino i funzionari-urbanisti della Regione Toscana saltare sulla seggiola alla lettura di questa parte, ammesso che non sia già messo all’indice e che tutti i dipendenti non vengano perquisiti per evitare che il virus si diffonda), strutturati con rete stradale costituita da boulevard e viali che partano dal centro della città o comunque da luoghi centrali, affinchè la città sia una presenza per tutti gli isolati che affacciano su di essi e per tutte le case allineate lungo le strade, creando così una condizione tale per cui, anche chi non può permettersi di abitare in centro, abbia la percezione fisica di essere comunque parte integrante di quella civitas. E’ la visione tradizionale che Marco Romano ha del disegno della città, che in questo libro si evolve e si arricchisce di indicazioni politiche più ampie.
Leggiamo i titoli dei capitoli che lo compongono:
-Il cittadino europeo e la sua casa
- Limiti alla libertà di costruire
- La democrazia della civitas e la bellezza dell’urbs
- Che fare?
- Liberarsi dalle commissioni edilizie
- Liberarsi dalle norme edilizie
- Una libera casa di vacanza
- Liberiamoci dallo Stato.
Come si capisce, questo è un libro sulla libertà, che non va considerata in alcun modo anarchia o scambiata, ancora peggio, per una bieca visione speculativa, perché Romano non solo non rifiuta l’idea di progetto della città, ma anzi auspica un ritorno al piano disegnato, al piano all’antica, contro la pratica della pianificazione come fonte di corruzione:
“E su questo terreno incerto [cioè sulle infinite regole scritte da presunti esperti, Ndr] serpeggia un’endemica corruzione, che non va fatta risalire alla disonestà dei singoli – spesso coperti dai partiti – ma alle stesse procedure della pianificazione: una corruzione che i piani regolatori correnti fino a mezzo secolo fa, con le loro strade tracciate seguendo un’indiscutibile coerenza d’insieme e con una semplice norma regolativa dell’edificabilità, rendevano minima (...)
E se dobbiamo oggi levare una bandiera di difesa della libertà del cittadino nella propria casa, alla nostra generazione toccherebbe abolire subito tutte le norme che concernono il suo interno, dove ciascuno dovrebbe essere libero di ridurre l’altezza dei locali ai quei 2,26 metri che Le Corbusier considerava il modulo perfetto –o beninteso a qualsiasi misura ciascuno creda migliore – di scegliere la dimensione delle stanze, dei corridoi, dei bagni e di quant’altro giudichi confacente alla sua personalità, di decidere se e come illuminarli o arearli, e chissà che una casa senza finestre non faccia riparo alle crescenti polveri inquinanti sparse nell’aria cittadina. (…) La vera difficoltà che incontra questa proposta non è tanto quella concettuale, perché tutti dovrebbero convenire su quanto sia connaturata a una società libera la libertà di conformare la propria casa secondo i propri desideri e non secondo le arbitrarie prescrizioni di quegli esperti che i principi totalitari infiltrati tra noi hanno legittimato, quanto dal semplice fatto che a controllare il rispetto di codeste norme sono impegnati gli uffici tecnici dei Comuni, che spesso non saprebbero a cos’altro venire destinati. Ma se il governo di questo paese vorrà seriamente impegnarsi nella spending review ecco un campo dove il taglio non soltanto sarebbe indolore ma verrebbe salutato con vero entusiasmo da quanti sono quotidianamente impegnati – gli architetti e i loro clienti – ad aggirare queste assurde disposizioni spesso con umilianti sotterfugi: gli attentati alla nostra libertà evocano in ogni campo un popolo di abusivi, e le quotidiane e innocue trasgressioni alle norme più stravaganti consolidano la convinzione che tutte le norme siano di fatto trasgredibili”.
Come si capisce bene, il gusto del paradosso, accompagnato da osservazioni assolutamente vere e a tutti note, serve a provocare una reazione forte nel lettore, a dare una scossa al torpore, al massimo all’indignazione, con cui oramai subiamo ogni tipo di assurde e inutili vessazioni.
Ma allora, c’è un limite alla libertà del cittadino? Il limite c’è e “la civitas è legittimata a porre limiti soltanto quando viene intaccata la sua sfera simbolica, e la sua sfera simbolica non è un campo aperto alle coercizioni dei pianificatori ma può essere soltanto quella sedimentata nei secoli dalla sua democrazia e dalla sua libertà”. La sfera simbolica è, secondo Romano, lo spazio pubblico con i suoi temi collettivi.
Sull’architettura, sulla forma che le abitazioni potrebbero avere, Romano pensa che: “E’ vero che la tradizione moderna pretende che l’architettura abbia il dovere morale di rispecchiare nei suoi progetti il linguaggio estetico appropriato ai tempi nuovi, quello di Gropius e di Le Corbusier, e non di replicare gli stili del passato, ma questa pretesa è anch’essa riconducibile ai principi di una pianificazione che pretende di formare un uomo nuovo piuttosto che soddisfare i bisogni degli uomini in carne e ossa; e se qualcuno tra costoro crederà di essere felice in un paese costruito con un aspetto antiquario è legittimo che trovi un architetto capace di disegnarlo – speriamo con un disegno più sapiente di quello corrente degli outlet , un disegno che del resto va già in qualche caso comparendo – ed è anche legittimo che codesto architetto non debba avvertire alcun senso di colpa per questa sua rara capacità”.
Molti altri sono i temi di grande interesse affrontati da Marco Romano, che conclude il suo libro con una intrigante, anche se di difficile architettura istituzionale, proposta di una Europa delle città, anziché quella di una Europa delle nazioni, sempre fondata su argomentazioni e interpretazioni storiche non certo estemporanee. Questo è il senso del titolo dell’ultimo capitolo, Liberiamoci dallo Stato, non quello di un grido anarchico o di un becero lassismo come qualcuno certamente penserà.
Un libro i cui assunti non tutti possono essere condivisi e tanto meno che se ne ritenga possibile la facile attuazione, ma che tuttavia riporta tutta la materia della città e dell’architettura alla sua fonte originaria, cioè l’uomo come cittadino parte della civitas con i suoi desideri e i suoi bisogni, sottraendo l’urbs alle grinfie dei presunti esperti. Chi mi ha letto un po’ sul blog sa che ho sempre sostenuto che per ridare legittimità all’architettura non c’è altra strada che rimetterla al giudizio dei cittadini. Forse è questa l’unica vera “terza via”, vale a dire quella di tornare alla prima.