Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


13 settembre 2009

ANTICHISTI E MODERNISTI

Pietro Pagliardini

Il vivace scambio di commenti che c’è stato nel precedente post mi ha suggerito una riflessione non tanto sul progetto al centro del post quanto sul rapporto che corre tra due mondi e due modi diversi, e spesso opposti, di intendere l’architettura e l’urbanistica, che con una grande semplificazione per capirci chiamerò "antichista" e "modernista".
Vorrei però spersonalizzare e, a parte l'esempio di Fantozzi che riprendo, in quello che ho scritto non c'è niente che faccia riferimento diretto agli autori dei commenti stessi.
Antichista è, appunto, una grande semplificazione, al limite dell’errore, che non dice il vero perché chi auspica un ritorno alla tradizione non è un nostalgico e non pensa affatto di fermare il tempo, ma è convinto, come ne sono convito io, che nella tradizione, cioè nel patrimonio di conoscenze acquisite dall’uomo nel corso di secoli di civiltà urbana, c’è una grandissima quantità di elementi che sempre più appaiono utili e necessari alla modernità. Non è un caso che uno degli slogan di Lèon Krier sia: un’altra modernità è possibile.


Quindi gli “antichisti” si sentono a pieno titolo estremamente moderni, nel senso appunto che auspicano un miglioramento della vita urbana, e perciò della vita dei cittadini, mediante il recupero di tecniche costruttive, tipologie edilizie, tessuti edilizi già adottati con grande successo in passato, almeno fino alla rottura delle regole voluta e attuata dal movimento moderno.

Ma non è di questo che vorrei parlare, quanto della convivenza con pari dignità culturale di entrambe queste due visioni urbane e ambientali e, direi, del fatto se sia veramente possibile e a quali condizioni questa convivenza.

Per farlo è forse più facile capire quali siano i punti di conflitto insanabili, quelli cioè su cui è quasi inutile sperare in una serena discussione e quelli invece in cui è possibile e necessario, da parte di entrambe le posizioni, trovare dei punti di dialogo, tenendo però sempre presente la spaventosa asimmetria informativa che caratterizza le due visioni che rende gli antichisti necessariamente più sospettosi per la paura di essere assorbiti in discussioni fuorvianti.

Intanto l’antichista non è uno sprovveduto che vive fuori dal mondo e che non comprende la società; è un uomo del suo tempo e sa benissimo quanto questa sia frammentata, ne conosce le spinte centrifughe, sa che un mondo costituito da individui non è una società organica in cui pochi possono decidere tranquillamente per tutti. Sa anche che non esiste una concezione unitaria del mondo, solo che non si rassegna supinamente a questo fatto e, prescindendo dalle visioni politiche o religiose di ognuno, ritiene che la città sia comunque un bene collettivo da salvaguardare e, se deve scegliere tra un disegno frammentario e un disegno unitario propende per quest’ultimo, dato che non esiste motivo di assecondare, per una non giustificata coerenza intellettuale, un disegno che incrementa il caos.
Quanti progetti di grande scala urbana vengono realizzati! Quante EXPO, fiere internazionali, olimpiadi, eventi mediatici comportano la costruzione di parti di città importanti che lasciano un forte segno! E allora perché perpetrare la stessa astratta geometria che non permette alcuna vita sociale? Perché non applicare a questi grandi eventi le regole che ci hanno dato le nostre città storiche? E quando si fa un piano regolatore perché continuare con lo stesso non-disegno fallimentare che ha prodotto le periferie e i suburbi che nessuno può ragionevolmente difendere?

Esiste poi un altro aspetto che rende l’antichista particolarmente sensibile e lo fa apparire quasi ridicolo agli occhi di molti ed è legato al suo stare fuori dal pensiero collettivo. Se mi è consentito un paragone politico l’antichista oggi è considerato come lo era l’uomo di destra ai tempi della prima repubblica: un paria, un impresentabile, un intoccabile, un escluso. Questo fatto indiscutibile è legato al fatto che dice “verità” diverse, il suo non è un pensiero omologato, può essere sbagliato, ma certamente non si adegua al pensiero dominante. Progettare una casa con il tetto e la gronda, per esempio, si può fare e viene fatto quotidianamente (quasi) senza problemi, ma non si può neanche lontanamente sperare o immaginare che possa assurgere al grado di canone culturale, di regola da insegnare agli studenti. Chi lo dicesse sarebbe poco meno, o poco più, che un mentecatto, un ignorante, un incolto e certamente non degno di poter rappresentare in alcun modo qualcosa che abbia a che vedere con la cultura.
D’altronde che notizia può rappresentare per le patinate riviste di moda il progetto di un architetto che faccia le case con il tetto? Ecco, direi che l’architetto antichista non vuole stupire nessuno, non cerca la sorpresa in architettura.
Ecco perché, in questa situazione, portare ad esempio Fantozzi non significa una necessaria adesione culturale a quel modello, almeno per me, ma, inquadrato nel suo contesto storico, il dire che la Corazzata Potiomkin è una “boiata pazzesca” è un gesto oggettivamente liberatorio e dissacratorio in un periodo in cui uscivamo da una fase di conformismo da cineforum con film brasiliani, ungheresi e, naturalmente, sovietici e polacchi di una noia mortale cui era difficile opporsi. Insomma l'antichista dice cose scomode e, in opposizione ad un ambiente culturale bacchettone e conformista, le dice spesso con un linguaggio "popolare", alla Fantozzi appunto, per accentuare anche formalmente la sua diversità.

Altro elemento di differenza, questo davvero profondo, sta nell’atteggiamento rispetto all’utenza in genere, che io individuo nei cittadini, intesi come i detentori del diritto di decidere le sorti della città. Da una parte si ritiene che debbano essere gli architetti, in quanto avrebbero la conoscenza, a dover decidere, dall’altra l’architetto è solo uno strumento che aiuta, con le sue conoscenze, a prendere decisioni. Da una parte si ritiene che la gente debba essere guidata, dall’altra si crede che la gente sia capace di scegliere e decidere. Da una parte l’architettura è molto autoreferenziale, dall’altra c’è talora la pretesa di sapere quali sono i bisogni della gente. Ora si da il caso che nemmeno il medico, che pure applica una metodologia e una tecnica scientifica largamente superiore, standardizzata e condivisa che non quella degli architetti, possa imporre la sua visione al paziente, figuriamoci l’architetto.

Passiamo adesso agli elementi di contatto. Oggettivamente stento a trovarne di precisi, tanto sono distanti i due mondi, ma uno sarebbe necessario vi fosse sempre da entrambe le parti: la curiosità.

Per quanto ciascuna parte sia convinta della propria verità non è possibile che non vi sia nell’altra qualcosa da cui attingere e apprendere. Per questo, pur rimanendo il livello di scontro alto, e io non ci vedo niente di male perché è il conflitto che fa emerge chiare le posizioni e le idee, credo che sia sbagliato chiudersi del tutto, quasi sperando nella vittoria definitiva di una parte sull’altra. Poiché questo non è né possibile né auspicabile, è bene cercare di capire cosa c’è di buono nell’altro e cosa di sbagliato eventualmente c’è nel nostro, dato che lo scopo del conflitto è quello di produrre i migliori risultati possibili per la città.

21 commenti:

ettore maria ha detto...

Caro Pietro, ho apprezzato molto il tuo post, e il tuo ruolo di avvocato difensore di Fantozzi. In aggiunta alle tue parole, e contro il conformismo, penso che ogni tanto del buon "pane et circensis" sia utilissimo a sdrammatizzare delle posizioni seriose. Per quanto attiene la differenza di posizioni che dà il titolo al tuo post, penso che io non utilizzerei il termine "antichisti", poiché questo inquadrerebbe chi si interessa di certe cose come il famoso "vigliacco passatista" tanto odiato da Sant'Elia nel suo manifesto del '14, quindi come un qualcuno che non è in grado di progredire, che resta fermo in un passato ormai compiuto. Io penso che la differenza sostanziale sia difficile da essere compresa in una sola parola, poichè si tratta di una differenza tra "architetti interessati alla continuità nella tradizione" e "architetti interessati ad investigare nuove forme svincolate da qualsiasi relazione col passato", se dovessi riassumere il mio concetto in due parole parlerei di "architetti moderni" e di "architetti modernisti", laddove i primi applicano in maniera moderna la lezione del passato, mentre i secondi danno una interpretazione personale e forzata di quello che per loro dovrà essere il futuro (come tutti gli "ISMI"). Per concludere cito il compianto e grandissimo Hassan Fathy: «io dico che la bella Architettura è un atto di civiltà verso chi entra nell’edificio; si inchina a voi ad ogni angolo, come in un minuetto … ogni costruzione brutta o insensata è un insulto a chi le passa di fronte. Ogni edificio dovrebbe rappresentare un ornamento e un contributo alla propria cultura. Avendo deciso di abbandonare il passato, in quanto irrilevante, sono andati perduti o distrutti elementi di valore incalcolabile. La conoscenza rivelata del saggio è ora sostituita dalla scienza analitica moderna, e la macchina ha rimpiazzato l’abilità della mano artigiana»

Pietro Pagliardini ha detto...

Caro Ettore, hai ragione a dire che antichisti non è appropriato ma è un semplice problema di comunicazione: se io dico "sono un architetto moderno", dopo devo anche spiegare che moderno è diverso da modernista e quando sono arrivato in fondo non mi legge più nessuno. Tanto per restare al cinema, è un po' come Benigni che vuole mettere nome al figlio Ugo perchè è corto e così quando lo chaiamerà non farà in tempo a scappare; se invece lo chiamasse Massimiliano quando è arrivato a metà del nome quello è già fuggito via. Detta così non è granché ma a vederla la gag è fantastica perché sottintende, con un gusto del paradosso da persone semplici, che il nome sia capace di forgiare il carattere di una persona.
Nel nostro "circolo" virtuale di Arezzo, virtuale nel senso che siamo solo un gruppo di amici, ci chiamiamo antichisti ironicamente, sapendo che è scorretto ma ci capiamo.
Però condivido la differenza tra moderno e modernista.
Saluti
Pietro

ettore maria ha detto...

Tutto vero, però Ugo e Massimiliano erano i nomi che Massimo Troisi suggeriva a Fiorenza Marchegiani in "Ricomincio da tre".

Pietro Pagliardini ha detto...

Caspita hai ragione! Non so perché ma continuo a vederla bene con Benigni.
Ciao
Pietro

Salvatore D'Agostino ha detto...

DE ARCHITECUTRA,
«Io sono per i blog (ne sto scrivendo uno!) Ma non sono cieco e vedo le limitazioni della blogosfera – la sua superficialità, l’enfasi data alle opinioni rispetto ai fatti, la sua tendenza a radicalizzare le posizioni ideologiche per riecheggiare il sentito dire… I promotori del Web 2.0 venerano i dilettanti e diffidano dei professional. (Se dovessi veramente scegliere), io preferirei i professional. Ma non voglio essere forzato a fare questa scelta».
Nicholas Carr, Il lato oscuro della rete, Etas, 2008, pp. XIII-XIV
Saluti,
Salvatore D’Agostino

Pietro Pagliardini ha detto...

Salvatore, se dovessimo dare retta a questo Carr, che non ho mai sentito nominare, ignoranza mia, ma che non mi sembra un genio, internet dovrebbe servire solo alle agenzie di stampa, dato che nessuno di noi, non professional, può andare alla ricerca di "fatti". Quindi non restano che le opinioni, basate sui fatti che altri raccontano e su quelli che possiamo cogliere dalla nostra esperienza quotidiana.
Concludendo, mi sembra proprio un uomo ovvio questo Carr, almeno a giudicare da questa breve citazione.
Mi posso sbagliare, ovviamente, ma l'unico fatto che conosco di questo Carr è questa citazione.
Saluti
Pietro

Salvatore D'Agostino ha detto...

DE ARCHITECUTRA,
«Riadattando una celebre frase di Andy Warhol, lo stesso Weinberger, che è sempre stato un blogger convinto, ha scritto che “sul Web tutti saranno famosi per quindici persone”» Fabio Metitieri, ‘Il grande inganno del Web 2.0’, Laterza, 2009, p. 42.
Saluti,
Salvatore D’Agostino

Anonimo ha detto...

io aggiungerei:
"La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell'epoca di Internet", di Sherry Turkle (1997), questa son sicura che l'hai sentita nominare, Pietro.

Vilma

ettore maria ha detto...

E chi, secondo questo "grande" Carr, decide chi è "professional" e chi è un "dilettante"?
Quali sarebbero i titoli per essere riconosciuto un "professional"?
Mi sembra di ricordare che, nell'agosto del '33, un gruppo autoproclamatosi di "esperti" prese un piroscafo al porto di Marsiglia e fece rotta verso l'Egeo al fine di redigere i "punti dottrinali" di una Carta di Atene che doveveno essere imposti agli organi politici che dovevano legiferare in materia di architettura e urbanistica ... (vedasi il mio vecchio post sull'argomento) il risultato del lavoro di quegli esperti, mi limito a giudicare solo l'aspetto urbanistico, è sotto gli occhi di tutti. Orbene, non sarebbe più utile che gli "esperti" scendessero dal loro piedistallo cercando di ascoltare un po' l'altra campana?
Ho anche una domanda per Salvatore, o forse per Carr, dato il tuo commento, suppongo che tu ritenga questo blog di Pietro come un blog di "dilettanti", mi potresti fare qualche esempio di uno "professional"? Non è che dietro questa critica si nasconde una certa diffidenza nei confronti di un blog di tendenza tradizionale che tuttavia si dimostra pluralista accettando anche commenti di altra tendenza?

Pietro Pagliardini ha detto...

Vilma , mi spiace deluderti, ma le mie lacune sono profonde. Sull'argomento internet poi non ho letto niente e anche in sociologia non sono affatto ferrato.
L'unica affinità che ho con la sociologia è....un cugino fiorentino sociologo.
Ciò fa di me un perfetto dilettante, infatti di professione io faccio l'architetto. Un professional dovrebbe, per definizione, vivere del proprio lavoro 8e anche questo è diventato difficile negli ultimi tempi) altrimenti non è un professional, ma molto di più: è un possidente, per sua fortuna.
Ciao
Pietro

Salvatore D'Agostino ha detto...

Ettore,
«Quando ho visto per la prima volta Paolo Villaggio ho capito che mi trovavo di fronte ad un autentico mascalzone. È stato in un ristorante.
Va detto subito che visto da vicino Villaggio è molto più piccolo di quello che può apparire alla TV o al cinema: ha un viso gonfio e verdognolo, occhi da rana, capelli stoppacciosi bianchi e giallastri, braccia cortissime che terminano in due feroci artiglietti che lui usa come mani.
Queste escrescenze sono state applicate da un feroce destino su di una strana grossa vescica molle che è il suo corpo.
M'è sembrato di indole rancorosissima e sempre risentita con tutto ciò che lo circonda. L'ho esaminato mentre cenava: era seduto a un piccolo tavolo al centro della sala, indubbiamente per farsi vedere da tutti.
In tutto il tempo che è stato nel locale, l'ho "sentito" sempre ringhiante e velenoso: esibiva competenze inventate, raccontava banali storie con tono distratto, ma solo con lo scopo preciso — che non sfugge allo psicologo — di urlacchiare a tutti come fosse potente e di come vivesse abitualmente a New York e a Londra e frequentasse solo potentissimi dei quali esibiva i nomi spacciandoli per suoi abituali compagni di serate.
Alla fine della cena si è alzato con sguardo torvo: ha appioppato un violento calcio con uno zoccolo a un cucciolo che, per fargli le feste, gli era capitato tra i piedi, ed è andato via senza pagare il conto. Va detto che questo somaro gira solo in zoccoli e tuta da ginnastica, non perché sia uno sportivo, ma perché la tuta elastica è l'unico contenitore possibile per l'agghiacciante vescica nella quale vive.
Queste comunque le mie deduzioni scientifiche: ha la natura risentita di un gobbo, la cattiveria di un nano e l'animo di un topo. È quindi un mutilato.
Le cause di questo suo modo di essere possono essere le più svariate. La più probabile: genitori troppo affettuosi che ne hanno impedito la crescita. Insomma è uno che — anche dal punto di vista della psiche — non è cresciuto abbastanza, non è formato, è deformato, deforme.
Questa grave mutilazione psicologica l'ha dimostrata ampiamente nelle due ore in cui l'ho esaminato. Per esempio:non mi ha mai salutato, non perché non mi riconoscesse — che anzi lui sa benissimo chi sono! — ma solo con lo scopo di sfregiarmi, di ferirmi e in qual- che modo di mutilarmi! Con quel "non saluto", che lui contrabbandava per distrazione, in realtà voleva dirmi con un linguaggio patologico: «Vedi, tu sei così insignificante, e così più in basso di me, che io non ti vedo neppure! ».
Tende quindi inconsciamente a infliggere mutilazioni di ogni tipo intorno a sé per trame sollievo: perché, degradando gli altri, ha la sensazione di non essere così in basso lui, come in realtà si sente. Per questo nutre tanto risentimento per tutti. Anche Cervantes era un mutilato, ma aveva la grandezza della genialità. E chi, mutilato, non ha quella grandezza, resta solo un piccolo, risentito topo di fogna.
firmato:
in fede
Prof Federico Maria Vignardelli Bava Titolare della Cattedra di Psicologia Spicciola all'Università di Montelatmo
Montelatino, 11 novembre 1983.» (Paolo Villaggio, Fantozzi subisce ancora, Rizzoli, 1983, quarta di copertina).
Saluti,
Salvatore D’Agostino

ettore maria ha detto...

Caro Salvatore,
mi chiedevo quale fosse il senso del tuo messaggio pregno di risentimento nei confronti di Paolo Villaggio che hai indirizzato a me.
Che mi risulti, tra l'altro, Paolo Villaggio vive da anni su una barca, e lui stesso ironizza sul suo corpo autodichiarandosi affetto da "ranismo". Ma non capisco che c'entri questo discorso sulla sua dubbia personalità con quello sull'antichismo e modernismo che ha lanciato Pietro.
Cordialmente
Ettore

Matteo ha detto...

Mi inserisco con una perplessità, che si lega al fatto di non aver compreso bene le due accezioni portate da Pietro in questo blog: quante "gradazioni" possono esistere per queste due categorie (perchè da quello che dice Pietro mi sembra che molti architetti stanno in entrambe); oppure Gehry è più o meno moderno di Le Corbusier? E uno come Purini dove lo infiliamo?
Vorrei ricordare che il movimento moderno nacque anche per strappare l'architettura ad una "élite" che appunto non aveva niente in comune coi bisogni della gente comune; mentre ora l'accezione di moderno è per quell'architettura "alienata" (o "alienante", fate voi) che da poco o niente ai suoi fruitori.
Diciamolo apertamente: ora che i tempi sono duri per tutti, mettere qualche specchio per le allodole (che sia la forma strana o l'edificio 100k) serve a discriminare fra fare la fame e lavorare;d'altronde, lo dice lo stesso Eisenman che nelle sue case non abiterebbe nemmeno lui...
Ora vado che ho dei tempi strettissimi!
Ciao

Pietro Pagliardini ha detto...

Matteo, io non ho capito bene dove posso averti fatto pensare che io inserirei Ghery come modernista e non LC o viceversa.
Forse, ma non ne sono sicuro, perchè tu ritieni che il movimento moderno nasce per strappare l'architettura ad una elite e io credo che sia esattamente l'opposto, cioè il MM, come le avanguardie artistiche sono elite, e direi anche in modo assolutamente consapevole e non ritengo che l'architettura attuale sia una degenerazione del MM ma la sua naturale evoluzione.
Quanto alla tua ultima affermazione, premesso che non sono un pazzo moralista e so bene che nel lavoro non è sempre possibile mantenere coerenza assoluta con le proprie convinzioni, tuttavia a me le case come quelle di Eisenmann non me la ha mai chieste nessuno, semmai è vero il contrario e credo appunto che Eisenmann per fare quelle case debba fare "violenza" ai suoi clienti per imporre la sua visione elitaria dell'architettura.
Ciao
Pietro

Matteo ha detto...

Forse perchè consideriamo il fenomeno da due punti di vista completamente differenti: a mio parere il "movimento moderno" non nasce "tra le due guerre mondiali" e si identifica con "l'international style" come riporta (orribile;ma chi scrive queste cose?) Wikipedia.
Riassumo velocemente quello che intendo io: l'istanza prima del movimento storicamente si ritrova nella volontà:
1) di superare l'ecclettismo beaux-arts che pensava l'edificio basandosi solo su basi formali e schemi precostituiti
2) di coniugare le nuove scienze tecniche con la pratica architettonica
3) di rispondere all'esigenze di un mutamento profondo nelle condizioni di vita
Inoltre si trattava di "spezzare" i rapporti forti che avevano i soliti "privilegiati" con le committenze: cosa che puntualmente ritroviamo ancora oggi.
Quanti concorsi pubblici non sono già decisi a tavolino?
Perchè invece di fare concorsi aperti si "chiamano" solo "archistar"? (lo stesso problema delle vallette straniere in tv?!?)
Perchè in Italia, anzichè lasciare spazi alle nuove idee, ci sono ultravecchiardi che pagano 400 euro al mese dei laureati per fare quello che loro ovviamente non sanno fare (come usare il CAD o i calcoli c.a. con SLU)?
Mi sembra che i problemi che hanno visto nascere il MM si ritrovino tutt'oggi ed allora occorre ancora lottare per avere un'architettura migliore.
Poi chiamiamola pure come si vuole: se una città funziona e risponde alle esigenze di chi la viva allora è buona architettura.
Ciao
Matteo

Pietro Pagliardini ha detto...

Matteo, messa così, cioè che la città debba funzionare e che risponda alle esigenze di chi la vive, trova tutti d'accordo, nelle intenzioni almeno. Il punto è: ma come deve essere una città per "funzionare" e rispondere alle esigenze di chi la vive?
E' qui che avvengono le divisioni.
Intanto ti dico che secondo me "funzionare" non è esattamente la parola giusta, perché funzionare si confà di più ad una macchina che non ad un organismo complesso (e vivente) come la città. Un corpo umano è sano o è malato, è vivo o è morto mentre le sue parti (il cuore ecc) funzionano o non funzionano. Ma se non funziona uno di quegli organi è l'intero organismo che soffre e deperisce. Un'auto se non funziona l'alternatore, si ferma e basta cambiarlo che l'auto riparte. Un organismo non funziona così perchè tutto è collegato e una modificazione in un organo o in una parte ha conseguenze impervedibili su altre parti (è la legge del caos).
E poi la parola "funziona" richiama il termine "funzioni" (le parole contano perché esprimono concetti e cioè un modo di pensare e anche un modo di essere delle cose) e le "funzioni" di una città cambiano e possono morire o modificarsi (diversamente da quelle di un'auto) mentre la città resta ma deve continuare a "funzionare", o meglio a svolgere un suo ruolo ugualmente.
Ecco allora che il progetto di una città non si deve fare per "funzioni" come piace tanto agli amministratori (i quali però possono anche essere scusati perchè lo imparano dagli architetti) e agli architetti (qui ci metto un centro civico, là ci metto un supermercato, ovunque un centro di aggregazione giovanile,) ma studiando la rete urbana, le nodalità che possono accogliere una "funzione", morta la quale però quella parte di città conserva la sua nodalità e importanza per un'altra "funzione".
Immagino che tutti vogliano che tutto funzioni meglio ma seguendo la strada del MM, cioè la città attuale, questa nè funziona nè soddisfa la vita degli abitanti.
Ciao
Pietro

Salvatore D'Agostino ha detto...

DE ARCHITETTURA,
«Pietro,
mi piacerebbe averti come cicerone dell’architettura tradizionale nella tua Arezzo/Toscana.
Non ho elementi per parlare dell’architettura di Roberto Verdelli.
Invece ho visto l’architettura di Demetri Porphyrios in un classico Wilfing tematico sul Web.
A tal proposito ti parlo di un libro che amo particolarmente John Summerson ’Il linguaggio classico dell’architettura’.
Un libro proto blog, nasce da una conversazione alla radio, dove per l’occasione fu distribuito un libricino con allegate le immagini, in modo tale che l’ascoltatore potesse orientarsi meglio.
Summerson espone il latino dell’architettura classica ed inizia con tre precisazioni:
1) un edificio ben proporzionato, ma senza elementi classici, non è classico;
2) gli elementi essenziali dell’architettura possono essere espressi coscientemente o incoscientemente nell’architettura di tutto il mondo;
3) dobbiamo anche accettare il fatto che l’architettura classica è riconoscibile come tale soltanto quando alluda, anche di sfuggita e in modo sommario, agli antichi “ordini”.

In riferimento all’ultima annotazione cita l’esempio dell’architettura di Peter Behrens che traspose il linguaggio classico in termini di acciaio (vedi il progetto per l’industria elettrica AEG) e Auguste Perret che traspose il linguaggio classico in termini di cemento armato (vedi edificio per la marina militare a Parigi).
Summerson credeva che solo attraverso la conoscenza profonda della grammatica del classico si potesse continuare a costruire, evolvendo il linguaggio, nel contemporaneo. Cita delle lettere dell’architetto Hebert Baker: «Ho l’audacia di usare l’ordine dorico, corroso dal tempo, che trovo così bello. Non lo si può copiare. In realtà, bisogna impadronirsene e poi realizzarlo… Non lo si può copiare: ci si troverebbe presi in trappola e il risultato sarebbe un pasticcio.» p. 23
Summerson chiosa in questo modo: «Ecco un architetto che sapeva davvero, avendolo appreso per esperienza, che cosa significa il linguaggio classico. Egli, al tempo stesso, amava, rispettava e sfidava gli ordini. Se uno dei punti fondamentali nella creazione di grandi edifici classici è comprenderne le regole, l’altro è sfidarne le regole.» p. 24
Nel capitolo ‘Il classico nel moderno’ chiama in causa Le Corbusier: «la mente più fertile del nostro secolo in campo architettonico e anche, per quanto possa sembrare strano, una delle più classiche.» p. 64.
Prima Behrens e Perret e in seguito Le Corbusier si trovavano ad affrontare i temi del moderno che non erano solo stilistici ma pratici, includevano tutti i paradigmi derivanti dall’industrializzazione.
Cambiamenti che esigevano risposte concrete, la città e l’uomo non può più vivere nelle città preindustriali occorreva dare altre risposte.
Soprattutto l’innovazione tecnologica acciaio e cemento armato costringevano gli architetti a elaborare il linguaggio dell’architettura.
Demetri Porphyrios sembra trascurare la lezione del linguaggio classico di Summerson, imitando con il cemento armato canoni classici niente che possa stimolare un dibattito su nuovi codici dell’architettura.
Concordo pienamente con Summerson quando afferma : «Se uno dei punti fondamentali nella creazione di grandi edifici classici è comprenderne le regole, l’altro è sfidarne le regole.» nelle architettura transnazionale dell’architetto greco leggo una stanca edulcorata retorica degli stilemi classici
Porphyrios non innesca nessuna riflessione sul linguaggio e si limita a guardare/imitare le pietre.
Con Porphyrios la grammatica architettonica non evolve.
Saluti,
Salvatore D’Agostino»

(commento al post ‘0021 [OLTRE IL SENSO DEL LUOGO] De Architectura di Pietro Pagliardini’ Blog Wilfing Architettura, 15 agosto 2009, link: http://wilfingarchitettura.blogspot.com/2009/08/0021-oltre-il-senso-del-luogo-de.html)

Saluti,
Salvatore D’Agostino

enrico d. ha detto...

Non c'entra molto con l'argomento, ma forse un poco sì:
ieri ho visto su National Geografic (TV) un documentario sul museo della scienza a San Francisco, progettato da Renzo Piano. progetto interessante. Ho apprezzato, nelle parole di R.P. ciò che ha detto, quando commentava la sua visita al cantiere in fase di completamento. Cito a senso: "Per capire se l'opera che avevo pensato è venuta come era nelle mie intenzioni, più che osservare i particolari dell'opera stessa, è importante osservare le facce della gente che osserva l'opera; attraverso le loro emozioni, capisco se il mio lavoro funziona".
Nel caso di un intervento di tipo urbanistico più complesso, mi chiedo, però, che cosa si potrebbe fare nel caso, malaugurato, che l'esperimento non funzioni....

Pietro Pagliardini ha detto...

Caro Enrico, caustica risposta al volo: o il demolitore, ma non sempre è possibile o tenersela così com'è.
RP è bravo, avvolgente, dialogante, insomma paraculo, in senso buono ed ha ragione a dire che bisogna vedere le facce della gente, ma, quando l'opera è fatta e le facce della gente fossero sconcertate, non credo possa e voglia fare niente che voltarsi dall'altra parte. Semmai potrebbe domandarsi perchè e la volta successiva correggere. L'avrà mai fatto?
Sull'errore urbano è difficile rispondere perché le situazioni sono troppe e troppa è la casistica.
Certo che l'architettura che va pèr la maggiore, quella degli oggetti di design, difficilmente può essere corretta mentre un'architettura tradizionale per definizione può crescere e modificarsi senza diventare superfetazione.
Ciao
Pietro

Matteo ha detto...

Butto altra carne al fuoco: per il discorso architettonico io rimango ancoora terra-terra. Per fare un'architettura "tradizionalista" occorrono anche maestranze adatte.
Non so con chi avete a che fare voi, ma il 90% dei muratori oggi non sa neppure cosa sia una cazzuola, e quando fanno un banale muro a 1 testa ci mettono almeno 3 dita di malta (!): come riuscirebbero a montare un muro decente? Per non parlare del fatto che in Italia appena si va un pò fuori dal c.a. non ci sono maestranze specializzate.
Per il discorso urbanistico: concordo pienamente sul non programmare una città in base a "funzioni" (ma questo già l'ho detto più volte in passato), ma come si può pretendere che nasca qualcosa di buono dall'ignoranza (intesa proprio come mancanza assoluta di bagaglio culturale urbanistico) dei dipendenti degli uffici comunali?

Pietro Pagliardini ha detto...

Matteo, sulle maestranze hai perfettamente ragione ma se non si ri-comincia si perderà anche quell'esperienza che ancora c'è.
Ho conosciuto squadre del casertano bravissime e ve ne sono anche di altra provenienza, E bada bene che tutte le squadre di carpentieri, da noi quasi esclusivamente campane, non sono nate come carpentieri ma sono muratori adattatisi alle richieste del mercato. E' chiaro che andando avanti nel tempo assumeranno e formeranno nuovi carpentieri. E' il mercato che determina la mano d'opera più che il suo contrario. Comunque io mi riferivo alla tradizione più dal punto di vista tipologico, laddove le case del centro storico o delle campagne accettano benissimo ampliamenti, aggiunte, modifiche.
Quanto ai tecnici comunali....è storia vecchia e vera, però anche loro applicano, in fondo, norme fatte da altri.
Ciao
Pietro

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