Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


6 luglio 2009

IL BELLO COMUNE

Pietro Pagliardini

Ettore Maria Mazzola, in un commento di risposta al suo post DE ARCHITECTURA: RIFLESSIONI SUL "FALSO STORICO, scrive del “bello comune” legandolo al “desiderio comune” nel senso che il bello comune, che non sempre corrisponde al giudizio personale, deve fondarsi sull’attenzione da parte dell’architetto al desiderio comune espresso dalla gente.
Vorrei integrare il suo pensiero, che condivido totalmente, con queste poche righe, ma significative, che costituiscono la Premessa del libro “Il progetto nell’edilizia di base”, di Caniggia e Maffei, Marsilio 1984:


A proposito di tipo e tipologia, mi è stato spesso posto un quesito da parte di storici dell’architettura, che può essere così semplificato:
“Se in un fronte di case a schiera cinquecentesche una è stata progettata dal Buontalenti, non conterà di più la lettura e, in assoluto, il valore di questa rispetto alle altre?”
E’ indubbio che l’ottica dello storico di architettura richieda una risposta affermativa. Ma è altrettanto indubbio che, riguardando alla tipologia processuale, sia d’obbligo rispondere il contrario. Questo libro serve anche a tale scopo: ad affermare il valore della “coscienza spontanea” dei muratori che hanno costruito le altre case a schiera di quel fronte, come portato della processualità formativa dell’esperienza edilizia e di quella cultura. Di qui la necessità, nell’edilizia di base, di un diverso progettare, fondato sull’acquisizione critica di quella esperienza e di quella cultura. Il Buontalenti, dal momento stesso in cui si è posto il problema del progetto di una casa a schiera (e ammesso che l’abbia mai progettata) ha tentato certamente di non fare una casa a schiera, ma di farla diventare qualcosa d’altro. Perché il suo mestiere di architetto, la sua attitudine come la sua esperienza, erano basate sul fare l’edificio emergente, eccezionale: lo avrebbero obbligato ad immettervi una carica di intenzionalità ed un’affermazione dell’”io” e del “mio” che avrebbe apportato una personalizzazione del suo prodotto, e quindi a renderlo concorrenziale e sopraffattivo rispetto a quello dei muratori che stavano costruendo le case contigue.
Pure l’architetto attuale si comporta da “architetto”: per fortuna, dicono alcuni; per disgrazia, altri che più dei primi sono attenti alla contiguità degli edifici, alla continuità e alla comprensione dell’edilizia in seno a un aggregato, che è “tessuto” in senso proprio quando è fatto di oggetti analoghi; e che lo è ugualmente, ma non lo vuole apparire, quando è fatto di oggetti resi disparati dalle intenzionalità sovrastrutturali, dal desiderio di ciascun architetto di emergere, di attuare un suo individuale capolavoro.
Così in questo libro si vuole porre il problema del “progetto nell’edilizia di base” come rifiuto del prodotto intenzionalizzato, e come recupero del senso e della logica dell’insieme di case associate, reciprocamente “sociali”, coerenti nello stare insieme a formare il tessuto.


Non è difficile comprendere, alla luce di questo testo, che l’idea di “falso” assume un significato del tutto opposto a quello dispregiativo che gli viene in genere assegnato per trasformarsi semplicemente nella continuità con ciò che esiste come frutto dell’evoluzione della storia della città e dell’uomo. Per fare un paragone estremo, ma nemmeno troppo, è come se, dato che siamo in grado di far nascere figli al di fuori del rapporto sessuale tra uomo e donna, quel metodo, destinato a casi limite, dovesse diventare la regola e quello naturale fosse considerato “falso” in quanto superato dalla modernità delle nuove scoperte scientifiche e dunque a queste non conformi, per esaltare le capacità del medico e della medicina.

Ma emerge anche chiara da queste poche righe di un libro introvabile, e alquanto posteriore all’altro sulla “Lettura dell’edilizia di base”, una forte componente etica nella professione di architetto, di tipo del tutto diversa dai falsi e vuoti moralismi di coloro che affermano di dover progettare per il bene della società “sperimentando” nuove soluzioni e nuove tecniche, in realtà lavorando solo per sé stessi e per l’affermazione della propria egomania ed egemonia o, come dice Caniggia, dell’io e del mio. L’etica che emerge da quel testo è invece fondata sulla ragione, intesa come razionalità, derivante dalla lettura e dallo studio della città come processo ed evoluzione continua delle forme dell’abitare legate profondamente ad una visione antropologica in cui l’uomo è visto come soggetto sociale che trova nella città la forma e l’ambiente migliore in cui potere al meglio sviluppare ed esprimere tale condizione umana.

Un’etica niente affatto diversa nella sostanza da quella che deve guidare e guida altre professioni, salvo devianze che sono però individuali e censurate dalla società, ad esempio quella del commercialista, che ha il compito di far “risparmiare” i tributi ai propri clienti ma non di farli evadere, o quella del medico che non sperimenta sul paziente cure alternative ma applica protocolli e procedure sperimentate dalla comunità scientifica in base a precise regole.
Da qui deriva la mia insistenza contro le archistar, che molti liquidano come soggetti non significativi rispetto alla enorme massa di edifici quotidianamente progettati e realizzati in barba ad ogni qualità e rispetto del “bello e del desiderio comune”.
L’archistar è la punta di diamante, il vessillo di coloro che vedono nella figura dell’architetto il demiurgo che decide per tutti in base alla sua presunta capacità e creatività, che non accetta critiche bollandole come una limitazione della libertà individuale, ma attribuendo a questo valore alto solo il significato di licenza. Sono le archistar, prima erano i maestri o almeno l’uso strumentale che si faceva di questo nome, a sostenere l’alibi della “libertà” per quella massa di edifici di cui sopra.
Smontando, o meglio cercando di smontare nel mio piccolo, quell’idea di architettura creativa e libera da ogni vincolo di luogo, esprimo solo una forma di contro-informazione al pensiero unico dominante che c’è e che tende a mettere il silenziatore ad ogni voce contraria a questo sistema consolidato, dall’università ai concorsi, dai dibattiti in ambito locale per i nuovi PRG alle riviste di “moda” architettonica.
Non so se esista un “complotto internazionale”, per rispondere a coloro che ironicamente ci accusano di essere dietrologici, ma esiste una diffusa e potente egemonia culturale monotematica.

Esistono poi le forme più subdole di questo sistema, spesso in buona fede, portate avanti da coloro che distinguono i progetti in base a fattori stilistici e compositivi individuali, che si atteggiano a critici di architettura separando ciò che di buono c’è in ogni forma di architettura. E’ una forma subdola perché appare più seria, più ragionevole, più colta (e talvolta anche lo è) ma che, di fatto, esaltando un progetto ne salva l’idea che lo sottende di un’architettura individuale, artistica e creativa.

Non nego la possibilità che vi siano architetti bravi e creativi ma non mi sembra più il momento per trastullarsi in questi argomenti autoreferenziali da circolo degli architetti, lontani anni luce dai problemi della realtà, di fronte al fallimento totale di una cultura urbana e architettonica che ha fatto perdere anche quel minimo carattere di socialità per cui le città sono nate. A me almeno non interessa parlare dei singoli progetti di architettura “contemporanea” salvo quelli, pochi e in genere oscurati, che vanno nella tendenza opposta al corso generale delle cose e che tendono al recupero della tradizione e del rispetto della cultura dei luoghi.
Non è nato per questo il blog e ve ne sono centinaia di altri che sanno farlo meglio di me e quando parlo ed esalto Krier non lo faccio per le sue doti di architetto, che pure ci sono, ma per l’idea che egli rappresenta e di cui è, appunto, una bandiera da almeno trent’anni.

Lascio queste disquisizioni, il più delle volte sterili quando non infantili oppure frutto di rispettabilissime passioni private o anche di corposi interessi accademici e professionali, ad altri.
L’importante è che si rispetti, pur dissentendo in maniera argomentata, chi crede che vi sia un modo diverso di affrontare il tema dell’architettura, della città e direi della convivenza urbana come “recupero del senso e della logica dell’insieme di case associate, reciprocamente “sociali”, coerenti nello stare insieme a formare il tessuto”.


NOTA: A proposito di falsi si veda questo filmato sulla "falsità" del Ponte di Mostar

e si legga questa breve voce su Wikipedia.



2 commenti:

ettore maria ha detto...

Ottimo!
Sia il grande Caniggia che il tuo testo di accompagnamento.
Sulle parole di Caniggia mi viene però da fare una riflessione. Se è vero che gli architetti tendano ad affermare il proprio "io", è anche vero che la storia ci insegna che tanti grandissimi architetti del passato, piuttosto che affermare il proprio "io", hanno continuato l'opera iniziata da qualche predecessore, rispettando le intenzioni originarie, o quelle del popolo (Brunelleschi costruì la cupola di Neri anche se per motivi tecnici dovette fare delle piccole modifiche), oppure hanno, in pieno seicento, completato una chiesa in "stile" medievale, nel più alto rispetto del desiderio e del bene comune. Oppure ci sono stati architetti che si sono confrontati con tipologie edilizie totalmente diverse tra loro e, a differenza del dubbio di Caniggia, hanno messo del loro operando comunque nel rispetto del "decorum" e della "concinnitas", facendo edifici "appropriati" al luogo e alla funzione per cui dovevano essere realizzati. Penso per esempio alle “due facce” di Giulio Romano, quanto mai stravagante in Palazzo Te, e nella sua casa mantovana, e così ligio ai canoni classici della Basilica Giulia nell’interno del Duomo della stessa Mantova: questo edificio necessitava di un rispetto rigoroso del “decorum” e non poteva ammettere stravaganze che facessero l’edificio “suo” (non altrettanto si può dire della settecentesca facciata neoclassica di quell'edificio). Ma si può andare avanti fino a Giulio Magni, con il suo rigore nella Chiesa di Ostia, la sua pomposità nel Ministero della Marina, e la semplicità assoluta, ma non per questo di minor valore, delle sue case popolari di Testaccio!
Che dire poi del valore architettonico e del rispetto del desiderio comune degli architetti "pre-moderni". Valore raggiunto grazie agli studi dell'architettura minore, regionale, rustica e vernacolare (vedasi gli studi di Edwin Cerio a Capri, di Gustavo Giovannoni e Plinio Marconi a Roma e nel viterbese, di Egle Trincanato a Venezia). Quegli studi andavano alla ricerca di quella semplicità e purezza delle forme in grado di rispondere ai canoni del bello e del desiderio comune, ma anche alla necessaria semplicità ed economicità, in vista di una nuova architettura italiana, “moderna” ma legata alla tradizione, un’architettura necessaria a rivendicare un’autonomia artistica italiana (o delle autonomie artistiche regionali) che consentisse di emanciparsi dalla morsa dell’accademia (che in chiave classicista – e non classica – stava appiattendo l’architettura allo stesso modo in cui ha successivamente fatto il modernismo).
Quell'architettura, ci dimostra il mercato immobiliare di oggi, oltre ad essere considerata l'ultima grande espressione di questa disciplina, era anche in grado di mantenere vivo l’artigianato locale e, dunque l’economia locale. Quell’architettura, si legge negli scritti di quegli architetti, tendeva a nobilitare gli edifici lavorando sui dettagli (una cornice, un comignolo, una “cantonata”, un portale, una loggia, ecc.) e inoltre, grazie all’uso di materiali durevoli, mirava ad annullare i costi futuri di manutenzione (Pirani lo scrisse a chiare lettere), e infatti molti edifici popolari, non sono mai stati restaurati negli ultimi 90 anni. Non è modernità questa? Una modernità che cerca anche di rispettare il bene, il bello e il desiderio comune?
Cordialmente
Ettore Maria Mazzola

Pietro Pagliardini ha detto...

Ringrazio Mazzola soprattutto per le note storiche non proprio così comuni di cui ogni volta ci informa. In questo senso mi sembra che la sua sia un invito ad una vera contro-storia dell'architettura, molto più contro di quella dell'omonima serie di Bruno Zevi.
Vorrei solo attenuare un pò il tono apodittico del mio post per la parte relativa alle architetture dell'io e del mio, semplicemente ammettendo che la situazione professionale attuale può indurre anche colui che fosse estraneo a questo atteggiamento culturale a farsi "riconoscere" con opere che lascino il segno. Certamente in gran parte ciò è dovuto alla cultura dominante che chiede all'architetto cose "straordinarie" a prescindere, ma una causa non secondaria va ricercata nel numero esorbitante degli architetti, per cui si è portati a mettersi in evidenza con progetti mirabolanti per tentare di emergere e farsi notare.
La politica poi non dà certo il buon esempio dato che ogni sindaco che si rispetti vuole lasciare il segno e colpire la fantasia dei suoi amministrati con opere di grande "impatto" mediatico ma purtroppo anche di grandissimo impatto urbano. Evidentemente credono, sbagliando, che la manutenzione costante e metodica della città non paghi. E sbagliano di grosso perché la manutenzione, come la pulizia che danno il senso di un ordine visibile della propria città, è un elemento non solo di grande appeal per i cittadini ma contribuisce e parecchio a dare quel senso di sicurezza percepito che non si ha in una città sporca e degradata.
Qualcuno dovrebbe raccontare ai sindaci l'esistenza dell'effetto "vetro rotto" in base al quale se in un edificio abbandonato c'è un vetro rotto, in poco tempo diventerà oggetto di vandalismo e saranno rotti tutti i vetri e danneggiata ogni altra sua parte fino a rendere inabitabile e invivibile la strada e l'intorno.
Insomma, tutto congiura contro un'architettura che non si fa notare, un'architettura che definirei di servizio, perché al servizio della comunità, cioè di tutti.
Difficile invertire questa tendenza se neanche la crisi economica c'è riuscita, ma ha solo sospeso temporaneamente l'aggiunta di altro rumore al chiasso già esistente.
saluti
Pietro

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