Pietro Pagliardini
In questi giorni Giorgio Muratore, dal suo blog Archiwatch, ha registrato qualche segno di stanchezza nell’opinione pubblica (cioè nella stampa nazionale) verso il mondo dello star-system o verso le Archistar o ego-architetti che dir si voglia.
Insomma, il reality “La città dei famosi” sembra avere gli indici di ascolto un po’ in calo.
Una serie di recentissimi articoli usciti su IlSole24ore e su Il Foglio, oltre a quelli di Avvenire, meno eclatanti ma ugualmente importanti, che fanno seguito ad altri, a far data dal periodo della campagna elettorale con la nota presa di posizione di Berlusconi, Celentano e Sgarbi contro il grattacielo milanese di Libeskind, seguiti dalla polemica contro la teca di Meier a Roma e l’ipotesi, per ora accantonata, della sua demolizione, e accompagnati da una serie di articoli di Nikos Salìngaros su il Domenicale, del filosofo Roger Scruton su il Foglio e altri ancora su Libero, il Giornale, ecc. danno la sensazione che questo sistema stia dando qualche segno di cedimento.
Per chiarezza va detto che, per quanto a mia conoscenza, alcuni di questi giornali, tra cui certamente Il Foglio e Il Domenicale, hanno sempre mostrato interesse per un genere di architettura che si pone in atteggiamento positivo verso la storia e il rispetto dei luoghi, ma anche il Corriere della Sera ha mantenuto una posizione equlibrata.
Di tutto questo movimento il prof. Giorgio Muratore prende atto, non senza una qualche soddisfazione accompagnata però dal timore che ad una moda estremista se ne contrapponga un’altra di pari virulenza ma di segno opposto.
Ma il timore, assolutamente comprensibile, ha un fondamento reale nei fatti oppure è una sensazione di irrazionalità di fronte al nuovo?
Per cercare di dare una risposta a questa domanda non si possono, tuttavia, separare le parole di Muratore da quelle pervenute nei vari commenti: certo, il pensiero dei frequentatori di un blog non possono essere attribuiti all’autore dello stesso, visto che, a quello che mi risulta, non è che Muratore censuri commenti a lui non graditi, ma sarebbe ipocrita non riconoscere che una certa influenza reciproca tra le due parti si viene a creare; si forma cioè una sorta di intesa su alcuni punti essenziali, tanto più in un blog come Archiwatch il cui autore ha una autorevolezza e un seguito notevole.
Dunque qual’é stata la reazione a questo ancor leggero cambiamento climatico? Penso che da parte del prof. Muratore, che nel corso della sua carriera universitaria deve averne viste tante, e non tutte belle, vi sia il timore di un nuovo conformismo, dato che sarebbe difficile negare la coincidenza tra questi accenni di cambiamento culturale e il cambiamento di guida politica nazionale e soprattutto romana.
Non che io creda sia in corso una manovra orchestrata da chissà quali gruppi di potere politico di concerto con chissà quali conventicole culturali le quali avrebbero chissà quali rapporti con il mondo dell’editoria. Anzi, da quel poco che mi risulta e da quanto riesco ad intuire, non esiste alcun paragone possibile tra la forza di un sistema mediatico-culturale ormai consolidato da decenni di relazioni, amicizie, scambi di favori leciti e meno leciti nel sistema dei concorsi (di architettura e universitari) e dall’occupazione permanente nelle varie riviste, supportato vigorosamente dal potere economico degli immobiliaristi, che poi nel caso italiano coincidono quasi sempre con i nomi più importanti dell’economia e della finanza, nei confronti di un manipolo di persone (prof. Muratore, manipolo è un modo di dire e non un riferimento politico) cui non si fa vincere un concorso che uno, non potendo godere appunto di scambi di favori, non hanno diffusione da parte dei media, non vengono praticamente citati, se non per dileggio, nelle facoltà di architettura, non hanno imprenditori di riferimento (diverso è invece il caso degli USA dove il New Urbanism ha un forte rapporto con il mondo imprenditoriale).
Il nome di Lèon Krier, ai suoi inizi, circolava tra gli studenti e se ne vedeva qualche disegno nelle riviste, e non in tutte per i suoi rapporti con James Stirling. Poi un lungo silenzio durante il quale il suo lavoro circolava come tra carbonari. C’è voluto il patrocinio di un personaggio famoso come il Principe Carlo d’Inghilterra (con la contropartita di molta gratuita ironia), oltre alla tenacia e alla forza delle idee di Krier, perché il suo nome acquistasse il prestigio internazionale che merita.
Nel nostro mondo globale è garantita libertà di circolazione a tutte le idee, anche alle più bislacche, alle più pericolose, alle più volgari, anzi, più bislacche, pericolose e volgari sono e, talvolta, più spazio hanno ma verso quelle di coloro che si battono per un ritorno ad una architettura più umana e che incontra certamente il favore popolare è stata applicata una scientifica congiura del silenzio. Non piacciono quelle idee a qualcuno? Lecito, ma non spetta a pochi decidere per tutti. Quindi, ammesso che coloro che le osteggiano le conoscano effettivamente, se qualche giornale comincia a parlarne e a divulgarle non si tratta altro che di una modesta riparazione alla censura perpetrata per anni ed è bene che tutti possano decidere dopo aver conosciuto.
Quanto ai vari commenti, devo dire, mi sembrano deboli, incerti e soprattutto inefficaci quanto lo è stata la critica allo star-system. Si invita a rileggere Ernesto Nathan Rogers, si parla di Semerari, si snobba Saverio Muratori e la sua scuola (troppo poco come citazione, si dice) si sposta, insomma, il problema conservandolo sempre e comunque su un piano di dibattito accademico, forse non volontariamente ma come riflesso condizionato di un metodo consolidato che tende a ricondurre il dibattito nelle cerchie ristrette di una elite, per altro fallimentare e burocratizzata, e tenerne fuori i soggetti reali che sono i cittadini e il mercato. La reazione a questa modesta “campagna” mediatica è, senza offesa per nessuno, piuttosto ottusa e vecchia. C’è la speranza lontana della famosa e chimerica terza via che viene evocata ed invocata quando non si sa dove sbattere la testa quando siamo in un vicolo cieco. Che poi consisterebe, per dirla semplice, in un modernismo “dolce e raffinato” che potrebbe produrre risultati apprezzabili in architettura ma in urbanistica sarebbe la riproposizione dei fallimenti visti dal dopoguerra ai nostri giorni.
Proviamo ad elencare alcuni fatti, così, in forma di pro-memoria:
1) Attualmente, salvo prova contraria, la stragrande maggioranza di ciò che si costruisce (e di ciò che si è costruito da 50 anni) in Italia può essere imputato a tutti meno che a Krier, Salìngaros, il Principe Carlo, Tom Wolfe, Camillo Langone e compagnia. Quindi colpe non ne possono avere né dirette come esecutori né indirette come mandanti. A carico loro non si potrebbe perciò neanche aprire un fascicolo di una ipotetica procura architettonica;
2) La stragrande maggioranza del costruito in Italia è figlio di anonimi autori i quali avranno operato a favore della speculazione, se ne saranno bellamente fregati di problemi urbanistici e architettonici, ma hanno progettato in base a principi e a forme che, volenti o nolenti, affondano le loro radici nella rottura delle regole voluta dal Movimento Moderno. Questi signori (escludendo il grosso abusivismo che esce dal dibattito culturale per entrare in quello penale) si sono basati su norme edilizie e su Piani regolatori elaborati, disegnati e scritti da architetti per conto delle amministrazioni comunali, con parole ricche di buone intenzioni ma con una filosofia ispiratrice che ha portato, anche nei decantati PEEP, ad uno “svuotarsi della linfa vitale della città”, e cito Rem Koolhaas, io direi alla fine della città.
3) I grandi interventi immobiliari in Italia, in Europa e nel mondo, con la sola eccezione forse degli stati del sud degli USA, sono appannaggio delle solite Archistar, le quali sono anche le uniche che progettano edifici simbolo, utilissime a fare da traino ai più corposi interventi immobiliari.
4) I premi Pritzker, Stirling ecc. che vengono considerati, guarda il caso, i più importanti come immagine, se li rigirano sempre gli stessi. Saranno bravi, non discuto, ma a me sembrano tutti uguali, nella sostanza e, dico subito, non mi interessa nemmeno stare a sottilizzare in cosa si distinguono, se non nel brand.
5) L’esperimento di Poundbury, il villaggio di Lèon Krier ed altri tanto sbeffeggiato dai nostri sapienti docenti universitari, snobbato dalle riviste specializzate (dirette sempre da loro), funziona, ha grande successo di pubblico, lo riconosce con stupore il Times di Londra, tanto da indurre il Primo Ministro Gordon Brown, laburista, ad assumerlo come modello per i prossimi nuovi insediamenti previsti nelle zone rurali. Sempre originali questi inglesi!
6) Come ulteriore aggravante, in Italia è invalsa la moda tra i sindaci, in modo assolutamente trasversale perché interessa amministrazioni di ogni colore politico, di dotarsi di opere simbolo delle suddette Archistar anche nei centri storici e anche in quelli più preziosi, in modo tale che dopo aver creato intere non-città, dopo aver invaso le campagne e le coste, potremo dare il colpo di grazia anche all’unico patrimonio rimasto a questa esangue nazione, togliendogli non solo una fonte di reddito sicura ma anche l’unico elemento che ci unisce da nord a sud, cioè la nostra cultura, la nostra storia, il nostro comune patrimonio artistico.
PROPOSTA
Per me l’unica via percorribile (e credo che difficilmente potrebbe finire peggio di ora) è quella di affidare le scelte importanti nelle mani dei cittadini perché a loro, cioè a noi tutti, è destinata la città con i suoi edifici, solo loro, cioè noi tutti, sono i titolari del contratto sociale che li rende parte della civitas e, quindi, padroni dell’urbs.
Capisco bene le ragioni per cui questa proposta non piace, anche se ognuno può accampare motivazioni diverse e ciascuna dotata di un fondamento: non piace perché si ritiene di perdere il potere dell’architetto demiurgo, detentore unico della capacità di ordinare, dare forma e decidere per tutti. Capisco che perdere il potere dello stregone del villaggio può causare gravi crisi di identità.
Ma io chiedo poco: solo di dare voce, cioè il voto, ai cittadini nei concorsi, e solo nelle opere pubbliche o di interesse pubblico, a maggior ragione nei progetti di aree urbane. Solo questo, ed è veramente poco perché da noi si fa pochissimo.
Però credo che sia una regoletta capace di far saltare il sistema, di rompere il giocattolo in mano ai soliti noti. In una società complessa (le Archistar sono esperte di complessità) non si interviene con scelte complesse ma con piccole operazioni mirate, capaci, come il battito d’ali di una farfalla, di amplificare enormemente i suoi effetti (teoria del caos, molto amata da certa saggistica architettonica). E’ come il decreto Bersani che ha eliminato, con tre righe, le tariffe minime degli architetti: impossibile fare una riforma delle professioni, troppe spinte diverse, troppe interessi da contemperare, e allora ha colpito il cuore del corporativismo, le tariffe. Oggi si può leggere la pubblicità sui giornali con le tariffe a misura, cioè a metro quadrato di edificio progettato.
Allora, professor Muratore, facciamo pure ironia, vigiliamo pure che non arrivino i nuovi barbari, teniamo alta l’attenzione su ciò che accade, ma almeno avendo l’onestà intellettuale di riconoscere, e io sono certo che lei ce l’ha, che attenzione e vigilanza è stata latitante per molti decenni da parte della cultura ufficiale.
Quei signori di cui si parla nel suo post non credo temano affatto il giudizio popolare, altri penso proprio di sì, e parecchio.
6 ottobre 2008
STAR-SYSTEM: INDICI DI ASCOLTO IN CALO
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7 commenti:
In effetti il reality-blog del professor Muratore manda segnali discordanti, denunciando una certa incertezza di tendenza che può senz’altro essere frutto di una democratica accettazione di pareri non filtrati (in realtà il blog è moderato), ma anche di qualche rigurgito di ‘nuovo conformismo’, come dici tu, che per il professore dev’essere una vera pugnalata alle spalle. Va comunque rilevata ed apprezzata la capacità del professor Muratore, che sulla sua materia la sa veramente lunga (nomen omen!), nel mantenere teso il tono del dibattito con studenti, colleghi, amici e nemici, noti e sconosciuti, avendo persino all’uopo inventato un apposito genere letterario, il ….. puntinato ….. , che come nei migliori reality tiene sospesa l’attenzione e rimanda alla prossima puntata.
Detto ciò per non uscire fuori tema e non dedicare all’argomento Muratore-archiwatch più spazio di quanto ne …… meriti ….. vengo subito al dunque: ho già in più occasioni esternato la mia scarsa fiducia nella costruttiva partecipazione dei cittadini ai progetti urbanistici, trattandosi, a mio parere, di una massa di incompetenti inadeguati a formulare giudizi pertinenti, solo giudizi soggettivi, di scarso o nullo contenuto culturale, inutili per una pianificazione che tenga correttamente conto dei reali bisogni non del singolo (commerciante, impiegato o casalinga di Voghera), non nel contingente presente, ma nel futuro più o meno prossimo di una città che verrà consegnata alle generazioni a venire (e ora dammi della snob).
La terza via esiste, ce la indicano da anni Giovanni Michelucci, Oscar Nimeyer, l’ha splendidamente percorsa Jørn Utzon in quel capolavoro assoluto dell’architettura del ‘900 che è l’Opera House di Sydney, progetto perfetto nel dove, come, quando.
E’ una via difficile, perchè richiede sia la capacità di inventare soluzioni nuove per situazioni mai sperimentate prima, sia la conoscenza del passato e l’analisi critica di ciò che abbiamo ricevuto in eredità per discernere quello che va tramandato da quello che va buttato, per questo le archistar non si incamminano su questa via, il viaggio sarebbe faticoso, meglio è viaggiare leggeri, senza bagagli, senza pesi, improvvisando il percorso a piacere. Resta solo il dubbio su dove si sta andando.
Che incarichi professionali, premi e riconoscimenti alla carriera, assegnazione di opere pubbliche e piani regolatori siano fortemente connessi a situazioni e scelte politiche avviene da sempre ed è inevitabile: le chiese, i palazzi, i castelli, le piazze li hanno costruiti papi, principi e despoti, senza chiedere niente a nessuno.
Pianificare il territorio vuol dire fare politica (politica insediativa, politica ambientale, politica urbanistica ecc.) nel senso di ‘gestione della polis’, vuol dire predisporre strumenti per conferire configurazione pratica a scelte di carattere piu’ generale, politico e sociale, appunto. Tutte le scelte pubbliche per il raggiungimento di obbiettivi che interessano l’intera collettività urbana sono attuate dal politico perché, nei nostri regimi democratici ed in Italia, paese per eccellenza di ‘città’, ad esso i cittadini, quelli che tu vorresti chiamare in causa direttamente, hanno delegato il potere di scegliere per loro. Il meccanismo è semplice e chiaro, il verticalismo è solo formale, in realtà l’orizzontalismo è garantito dal fatto che tutti possono votare e che da noi la stragrande maggioranza dei cittadini esercita questo diritto (contrariamente a ciò che avviene negli USA, dove i votanti sono un’esigua minoranza). Il politico, in teoria (o in pratica), può anche non capire niente di urbanistica, ma sa che vuole una città abitata da ricchi borghesi o da modesti metalmeccanici perché il suo bacino di voti sta lì e solo grazie a quei voti egli può realizzare il suo programma general: l’architetto che (nella migliore delle ipotesi) la pensa come lui, o che (nella peggiore delle ipotesi) è pagato per realizzare sul territorio quell’idea di politica urbanistica prevederà graziose lottizzazioni di ville nel verde o quartieri di edilizia popolare a basso costo o sovvenzionata. In entrambi i casi si può anche supporre la buona fede, l’esistenza di un ideale comunitario di cui trasporre il modello sul territorio, non ci sarebbe niente di male, ed ecco che, come sempre, il giudizio sull’architettura diventa giudizio su un sistema sociale.
Hai ragione, l’architetto non è, nè deve essere, un demiurgo onnipotente, è solo il gestore di un tassello di quel complesso sistema che chiami civitas, in grado di contribuire all’affermarsi di un programma più generale, politico, economico, sociale (lasciamo stare se in termini di ‘bello’ o di ‘brutto’, aspetto estremamente opinabile).
In questa lettura dello stato delle cose come si collocano le archistar? Sarebbe veramente sufficiente “dare voce, cioè il voto, ai cittadini nei concorsi, e solo nelle opere pubbliche o di interesse pubblico” per eliminarle dalla scena, o non ci sarebbe il rischio che per la fama di cui godono anche nella sezione gossip della stampa non specializzata (sai quante gite parrocchiali a Bilbao!) un pubblico disinformato si lasci influenzare e finisca per preferirle ad un architetto bravo ma magari sconosciuto? Io qualche dubbio ce l’ho.
Saluti
Vilma
Sono d'accordo in parte.
E' sempre il solito dibattito, che si fa anche da Muratore. Le cose su cui non sono molto d'accordo con te sono
1) Non vedo tutto questo potere in mano agli architetti. Tutt'altro. Del resto, gli architetti sono tecnici (sia pure - quando capita - nel senso migliore del termine, anche artisti e uomini d'ingegno e inventiva). Il punto è un altro: esistono diverse risposte tecniche. E sono state egemoni, finora, quelle in qualche modo afferenti al cosiddetto "movimento moderno" e sue volgarizzazioni.
2) Non vedo la necessità di polarizzare in modo forte su due "schieramenti" (il "moderno" e lo "antimoderno". Ritengo che questo possa essere uno svantaggio per gli orientamenti più razionali che è bene la disciplina prenda.
E in questo senso, mi pare anche sbagliato buttare via il buono e il cattivo in un unico calderone per motivi di "schieramento".
3) Se, per così tanti anni, chi ha avuto il potere di decidere ha scelto soluzioni architettoniche sbagliate, ci sono motivi vari e articolati, che non rientrano esclusivamente nella "ignoranza" e nella "cultura del silenzio". Ma, a mio parere, anche motivi assai più gretti di convenienza varia, a scapito delle persone che subiscono queste decisioni.
Per il resto, sono d'accordo!
ciao
Al Prof. Muratore, che paventa fin da adesso un opposto e altrettanto soffocante potere degli Antimodernisti racconterei di quel sergente americano che arrivò a liberare Auschwitz.
Aperte le baracche, gli si presentarono degli scheletri viventi che imploravano: "Cibo! Cibo!".
E lui con tono severo e con il ditino alzato: "Adesso mica vorrete prendervi un'indigestione!"
Giulio Rupi
Giulio riesce sempre a piazzare la storiella giusta al momento giusto. Peccato che non frequenti Archiwatch perché questa andava raccontata in quel blog: con tutti i prof. che lo frequentano gli ci scappava una Lectio Magistralis all'università.
A Vilma. Io non mi permetterei mai di darti della snob, se tu non lo fossi.
Il mio presunto populismo non arriva a chiedere di coinvolgere la gente nel progetto, proprio per i motivi che tu dici, perché scatterebbero una serie di piccoli interessi personali e di bottega contrastanti l'uno con l'altro oppure uscirebbero fuori bisogni indotti da fattori altri; l'intervento dei cittadini che io auspico è a valle e non a monte, anche perché la nostra non è una democrazia popolare (per fortuna).
Io auspico che i cittadini esprimano il loro parere perché la città non è solo il frutto di scelte razionali fatte da architetti ma anche di un coacervo di sensazioni, desideri, sogni, interessi, che provengono da fattori istintivi che ognuno prova di fronte ad una architettura, ad una strada, ad una piazza, indipendentemente dal grado di cultura. C'è un plafond comune nella percezione dello spazio che ci circonda che esula dalla conoscenza della storia dell'architettura e dell'arte. Le città "belle" o anche solo "pittoresche" colpiscono tutti.
In più credo fermamente che, così come ognuno, se può, si sceglie la casa dei suoi sogni, tutti debbano poter scegliere la città dei loro sogni, perché la città è la casa di tutti coloro che vi abitano. La città come bene collettivo è comune a tutte le culture, a maggior ragione a quella europea. Si può dire che la città sia come un grande condominio in cui l'amministratore fa manutenzione, fa in bilanci, organizza, fa pagare, propone nuove opere ma le scelte le fanno i condòmini.
In questo modo la funzione dell'architetto non sarebbe affatto svilita ma esaltata dal fatto che dovrebbe cercare di capire cosa interessa al proprio cliente (la città) e scegliere per il meglio in base alle sue capacità, convinzioni, convenienze anche. L'architetto senza cliente non è niente, non lo è mai stato, perché lui può fare solo un simulacro di edificio, un disegno, ma non può costruire l'opera, contrariamente ad un pittore.
Sono d'accordo con te sul fatto che il Sindaco viene eletto apposta ed è delegato a decidere per tutti; purtroppo in questo campo il sindaco non decide un bel niente (a parte i poteri straordinari della Moratti per l'EXPO ed altre) perchè nelle commissioni di concorso, quelle che rispettano la legge, non c'è un amministratore che uno, solo tecnici, e di questi tecnici in genere quello che conta è l'architetto-professore, l'esperto che decide secondo la sua.....visione e in genere premia proprio quelli che hanno la sua stessa....visione. Se poi, occasionalmente, quello che ha la stessa..... visione dell'esperto è anche un altro prof., o uno che scrive sulle riviste, o uno che fa anche lui l'esperto in altri concorsi, vabbè, le coincidenze capitano nella vita. Ma anche se non vi fossero queste coincidenze, e ci sono, perché un perfetto sconosciuto preso a caso deve scegliere per tutti, compreso il signor Sindaco che poi ne risponde? Se il giorno della decisione l'esperto ha saputo che l'amante lo tradisce e ha comprensibilmente la testa altrove, la città si deve beccare una schifezza per la signora?
Quanto alle Archistar, non ho dubbi; tutto sono fuorché stupide: o si adeguano o non si presentano. Ma il problema dei concorsi, salvo quelli molto grossi, non sono le Archistar, ma coloro che giudicano e che lo fanno in base a criteri già accennati e coloro che partecipano e che progettano senza tenere in conto il loro cliente, cioè la città e i cittadini (e si comportano da Archistar).
Con il voto dei cittadini sparirebbero entrambe i problemi. Forse ne nascerebbero altri ma vogliamo per questo rinunciare a tentare una nuova strada che costa poco e sarebbe capace di coinvolgere tutti in un progetto comune?
Biz, praticamente mi pare che siamo d'accordo salvo un punto sul quale però credo che la storiella di Giulio dia la migliore risposta risposta a molte delle tue obiezioni.
Saluti
Piero
Sono daccordo nel dare ai cittadini un potere decisionale maggiore riguardante le trasformazioni urbane e territoriali, non solo perchè è lo stesso concetto di democrazia a che lo impone (ai cittadini dovrebbe essere data la possibilità di decidere l'ambiente in cui vogliono vivere) ma anche perchè sono i cittadini stessi i primi utilizzatori dell'ambiente urbano che viene creato e non i membri di una eventuale giuria di esperti (che spesso non vive nel luogo che è chiamato a giudicare). Ma bisogna fare attenzione, e in questo sono daccordo con Pagliardini, ai conflitti di interesse che possono sorgere quando un progetto per forza di cose favorirà qualcuno e non qualcun altro. La dcisione di fare un intervento, la pianificazione territoriale e la zonizzazione sono e devono rimanere nelle mani delle amministrazioni regolarmente elette dai cittadini perchè prendano decisioni che, si spera, vadano nella direzione del bene comune. Quanto alla scelta del progetto, tramite un giusto concorso, si dovrebbe dare ai cittadini una possibilità di esprimere un giudizio, magari dopo una iniziale scrematura di progetti discriminata dalla fattibilità progettuale e dalla sostenibilità che per forza di cose andrà fatta da esperti. In questo modo la maggioranza dei cittadini potrà scegliere un progetto, in una rosa di possibilità ugualmente valide, dando così un valore alla partecipazione attiva della gente alla vita e allo sviluppo della propria città.
Aspetta aspetta...io uomo legato alla terra sono, Pagliardini mi scuserà ma non resisto all'occasione.
Si dice una frase : ...nella direzione del bene comune.
Mi viene subito in mente un concetto che ho imparato qui " ma siamo ancora sicuri di poter definire cos'è il bene comune?"
Perchè delle due l'una: o non esiste un bene comune e allora ognuno fa come vuole, mi metto a leggere blog di filosofia con una pistola sul comodino; o esiste per evidenza pratica e allora alcuni pensieri che si leggono non hanno riferimento con questo bene, non hanno fondamenta, cosa grave per un architetto.
sconfinando nella filosofia (e nel diritto) potremmo fare una analogia con il tempo in cui si dovetter decidere come regolare l'attraversamento degli incroci.
Che ci volesse un sistema, tutti d'accordo.
Che un sistema di luci "incrociate" potesse essere valido, consenso unanime.
E se fossero itervenuti architetti balzani a proporre pali di sostegno di altezze incongrue?
e se si fosse discusso su quali colori scegliere?
perchè non azzurro e viola ?
o verde e oro per Venezia ; e ocra e rosso per Bologna?
Per fortuna in quel caso il concetto di "bene comune" fu chiaro a tutti....
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