Pietro Pagliardini
E’ un po’ di tempo che si è tornati a parlare di edilizia sociale. L’ultimo articolo di un certo interesse l’ho trovato sul Corriere della Sera del 5 luglio, a firma di Armando Stella.
Intervengono, oltre al Presidente del’Azienda lombarda di edilizia residenziale, alcuni politici e due architetti: Massimiliano Fuksas e Stefano Boeri.
Fuksas in particolare, come suo solito, non va per il sottile e dichiara, lapidario, che bisogna demolire e ricostruire alcuni quartieri di edilizia popolare perché “il cancro va asportato”.
Senza conoscere troppo la realtà milanese non dubito che abbia, in questo caso, ragione, essendo molti quartieri ex IACP inemendabili e nelle grandi città il quadro è sicuramente più drammatico che altrove.
Stefano Boeri punta il dito contro “I dinosauri di edilizia popolare(che) hanno fallito nella concentrazione e nei servizi, costringendo all' omologazione sociale” .
L’assessore Masseroli parla di creare un mix sociale vero; anche Boeri propone l’eliminazione del vincolo di destinazione nei nuovi edifici, per fare in modo che vi sia mix sociale e funzionale, di residenze, uffici, artigianato, studenti ecc.
Da queste poche frasi per ciascun soggetto riportate nell’articolo risulta chiara la presa d’atto da parte di tutti di un modello sociale e urbano fallito e la affermata volontà di porvi rimedio.
Contemporaneamente a questa presa d’atto del fallimento delle periferie, e dell’edilizia sociale in particolare, si fa strada anche una visione , della professione di architetto,che definisco “etica”, per semplificare, ma forse direi più opportunamente “politica”.
A favore di questo ritorno alla dimensione etico-politica si esprime , ad esempio, Nicola Emery, sempre secondo il Corriere della Sera in un articolo di Pierluigi Panza.Non ho letto i libri di Emery quindi non mi posso esprimere sul suo pensiero, ma uno spunto di ragionamento sul tema è possibile.
Intanto segnalo il fatto che quelle squallide periferie che oggi si vogliono addirittura abbattere sono state progettate da architetti spesso molto “impegnati” politicamente. Se si pensa a tutti i PEEP dalla 167 in poi, occorre tenere conto che dietro ad ogni progetto c’è, prima la volontà di amministratori di realizzarlo, e dopo il disegno del piano ed il progetto architettonico di qualche architetto.
Dunque, alla scelta politica di assicurare una casa a bassi costi, di affitto o di acquisto, a chi la casa non ce l’ha, segue la scelta urbanistica e architettonica.
Non credo si possa negare esserci stata una relazione talmente solida e organica tra l’ideologia della politica e quella del mondo professionale degli architetti da risultare anche difficile stabilire chi sia stato il primo soggetto a dare il fischio d’inizio ad una partita urbanistica che ha dato origine ad interi quartieri che oggi sono riconosciuti essere luoghi di degrado urbano, di bassissima qualità architettonica e convivenza sociale ma, certamente, gli architetti hanno avuto una responsabilità grande che, col passare del tempo, è diventata addirittura prevalente su quella dei politici fino ad influenzarne le scelte.
Si pensi alla mole immensa di leggi nazionali, prima, e regionali, poi, che vedono gli architetti in prima linea nella determinazione delle scelte di fondo, nella loro pervicacia di seguire un modello urbano basato sul lotto con casermone centrale, l’assenza della strada come elemento ordinatore e di relazione per la città, le norme edilizie che hanno portato a limitazioni di ogni genere impostate sul principio di dare un “tetto” e non una “casa” avendo come riferimento e obiettivo per il progetto proletari con “bisogni” piuttosto che uomini con “sentimenti”.
Da qui la scelta di blocchi anonimi e “funzionali” senza il minimo richiamo alle proprietà essenziali di una casa, i progetti eseguiti con la calcolatrice, per verificare le superfici di ogni singolo vano in base al “bisogno” predeterminato per legge da una casta che ha deciso per tutti, e i volumi, rigidamente contenuti da un’altezza massima e inderogabile dell’alloggio di metri 2,70, giustificata da falsi motivi economici ed energetici, in realtà frutto di una visione del mondo oppressiva e occhiuta che non solo interferisce ma addirittura decide ciò che è giusto e ciò che è sbagliato per “l’uomo proletario”, ne fissa gli stili di vita ed i comportamenti, lo incasella in una condizione sociale di dannazione perenne sia nel luogo di lavoro che nella vita sociale e privata, gli impone, nei casi più estremi, ma non rarissimi, servizi condominiali con logica di tipo collettivista.
L’elemento urbanistico qualificante è costituito dalle parole più utilizzate al tempo e cioè “standard” e “servizi”, in una visione puramente quantitativa e massificante e in una logica di funzionamento meccanicista che li distribuisce nei quartieri mediante lo strumento della calcolatrice, per misurarne il valore pro-capite, e del compasso, per tracciarne i raggi d’azione, ma tutto al di fuori delle regole necessarie ad “innestare la rete”, di relazioni, come dice Salìngaros, o a creare gerarchie stradali e spaziali, come dice la parte migliore della cultura urbanistica italiana.
Quella parte della disciplina che è squisitamente tecnica, che si occupa di standard, utili a determinare, sulla base delle esperienze passate e delle difficili previsioni in una società in perenne cambiamento, una ragionevolmente corretta quantità di certi necessari elementi urbani, fa un salto qualitativo e, con una mutazione genetica, diventa il criterio generatore del progetto.
Non vi è più traccia di fronti stradali continui creati da edifici in diretto rapporto con la strada stessa ed abitazioni affiancate le une alle altre - e ovviamente niente più isolati- in modo tale che non è più possibile alcuna relazione sociale orizzontale di vicinato, sostituta dalla relazione verticale di vano scala o dai “locali condominiali” appositamente deputati alla “funzione”, capaci solo a creare indifferenza, paura, alienazione e conflitti.Gli edifici pubblici (i servizi) non riescono più a diventare “temi collettivi”, per dirla con Marco Romano, privi come sono di ogni valenza simbolica o estetica condivisa, perché calati dall’alto in base ai “bisogni” stabiliti dal potere o dagli architetti o dal potere degli architetti, e collocati nei quartieri senza alcuna possibilità di diventare poli attrattivi nel tessuto della città.
Questi quartieri che gli abitanti non possono riconoscere come luoghi familiari in cui identificarsi, oggi misconosciuti da tutti o quasi, che non hanno niente in comune con la città europea e italiana così come la si conosceva prima, al pari delle periferie della speculazione edilizia, sono stati progettati, esaltati, pubblicizzati, studiati nelle università, inculcati agli studenti , da architetti che hanno trasfigurato una visione “etica” in una dimensione “estetica”, che è un mix diabolico di razionalismo e ideologia politica.
Oggi si rinnega tutto, e questo è un bene perché occorre guardare avanti, ma senza una vera revisione critica delle cause che hanno determinato il disastro delle periferie, e si rischia di battere la stessa strada in forma diversa perché:
• si ripropone da parte di molti la figura di un architetto “impegnato” in prima persona a combattere i mali della società, scaricando le colpe passate e presenti sulla politica, che certo non ne è indenne, ma che ha attinto alla teoria e alla ideologia degli architetti post- sessantotto;
• si continuano a progettare modelli urbani lontani anni luce da quelli delle nostre città storiche, con progetti del tutto simili nella sostanza a quelli che si vogliono demolire, nobilitati apparentemente da un’architettura un po’ più “ricercata”che oggi è di tendenza ma che alla prossima stagione diventerà fuori moda, arricchiti del nuovo simbolo, non si sa bene di cosa, che è il grattacielo, che ogni sindaco che si rispetti desidera, con la copertura ideologica della nuova parola d’ordine dell’urbanisticamente corretto, cioè”sostenibilità”, sostituzione di facciata di quella vecchia, cioè “servizi”. La sostenibilità diventa l’elemento generatore del progetto, in modo del tutto strumentale e sostanzialmente falso, vedi il grattacielo che viene spacciato come tipologia sostenibile, quando è invece l’esatto contrario.
• anche il mix sociale, sostenuto da Boeri, sembra più orientato ad un’operazione di ingegneria sociale (da stato etico appunto) che ad un’idea supportata da un disegno urbano che lo renda effettivamente possibile, dall’unico possibile, cioè quello mutuato e attinto dalla città storica europea.
E non è questione “stilistica” né romantica nostalgia del passato di quattro vecchi babbioni, come vogliono far credere gli architetti appassionati della “modernità”, con lo scopo di relegare ai margini del dibattito culturale, e soprattutto del lavoro professionale e universitario, i sostenitori di un approccio alla città e all’architettura che definisco "antichista" per semplicità e provocazione.
Non si tratta di archi, colonne e timpani, si tratta di disegnare parti di città (che possiamo anche chiamare periferie solo per motivi di distanza dal centro storico) secondo i criteri, ad esempio, dei muratoriani e del loro studio tipologico, della gerarchia delle strade secondo i principi di Caniggia e Maffei, della rete urbana di Salìngaros necessaria ad innescare la complessità dell'organismo urbano, della teoria delle “reti piccolo mondo” in base alla quale le grandi relazioni tra persone partono dalle piccole relazioni ravvicinate, per cui, ad esempio in campo urbanistico, un’unica strada ad alta capacità che unisce due quartieri diversi crea pochissime relazioni mentre un insieme di strade gerarchizzate tra gli stessi due quartieri crea un numero indescrivibile di relazioni.
Il mix sociale si ottiene prima di tutto con un disegno urbano che lo consenta.
Approcci diversi ma tutti convergenti verso una città che riporta alla grande tradizione urbana europea.
Di questo si parla, prima che di archi e colonne. Risolto quel problema del primo ordine la città può sostenere gli archi, le colonne o le espressioni più ragionate della modernità in un mix architettonico che contribuisce alla ricchezza e alla varietà dell’ambiente urbano.
Domanda: che cosa c'entra il post con il titolo?
Niente, è ovvio, esattamente come More Ethics and Less Aesthetics.
N.B. Le immagini aeree sono tratte da Live Search Maps di Microsoft . La scelta delle foto è esemplificativa di due culture e quella della città è del tutto casuale.
11 luglio 2008
MORE ETHICS OR MORE AESTHETICS?
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,”….. il corpo non è da nessuna parte: è al centro del mondo questo piccolo nucleo utopico a partire dal quale sogno, parlo, procedo, immagino, percepisco le cose al loro posto e anche le nego attraverso il potere infinito delle utopie che immagino. Il mio corpo è come la Città del Sole, non ha luogo, ma è da lui che nascono e si irradiano tutti i luoghi possibili, reali e utopici.” (Michel Foucault)
Parto dalla fine, dove concludi la tua analisi parlando di “ Approcci diversi ma tutti convergenti verso una città che riporta alla grande tradizione urbana europea.”
La grande tradizione urbana europea che, mi pare di capire (ma potrei aver frainteso) è quella della città-corpo, la metafora ottocentesca di ispirazione biologica dove si propone il modello di riferimento della città nella circolazione dei vasi sanguigni (non a caso si parla di arterie stradali), nel cuore pulsante (il centro da cui si dipartono), nei polmoni (di verde, di aree libere), nei diversi tessuti connettivi, nel sistema (nervoso) generale e via dicendo. E’ una metafora tenace e radicata, perché, prima in ordine di tempo di tutte le esperienze che stratificheranno nella memoria di ognuno, la percezione del proprio corpo fisico configura la coscienza di una forma ed un volume nello spazio, estesi secondo precise coordinate ed orientamenti, le direzioni di sviluppo del corpo umano che stanno alla base di ogni rappresentazione (artistica, architettonioca, urbanistica). Esasperando questo concetto si perviene alla metafora della città-jungla, dove lo sviluppo eccessivo di collegamenti inutili favorisce l’eccesso di comunicazione, producendo un intrico disordinato che va razionalizzato potando e recidendo il superfluo (la città hausmanniana, per intenderci, che ridisegna l’impianto urbanistico e ripristina l’ordine dal caos).
Città-giardino, città-dormitorio, città-macchina-per-abitare sono metafore più recenti, più ‘moderne’ e di chiaro significato, a conferma del fatto che l’uomo deve leggere la città secondo schemi di riferimento conosciuti.
Oggi quali possono essere questi schemi?
Il ripristino di ‘piccole relazioni ravvicinate’, oltre che utopico, mi pare assurdo ed inutile, oggi possiamo non avere né desiderare alcuna relazione con il vicino di casa, il mio fa il medico e non capisce un cavolo di arte e architettura, che sono i miei interessi preferenziali, e io sono qui che dialogo con un architetto di Arezzo che non so che faccia abbia, con il quale non ho alcuna piccola relazione ravvicinata né mi interessa di averla, basta un computer. Il negozio sotto casa, raggiungibile comodamente a piedi, dove il proprietario è un simpatico bottegaio propenso alle classiche quattro chiacchere, ha merce scadente e scelta limitata, preferisco mettermi in auto su una 'strada ad alta capacità' e ricorrere alla grande distribuzione, l’ospedale, la scuola, le strutture terziarie offrono oggi una varietà di scelte che relega in secondo piano la localizzazione, privilegiando l’eccellenza, se non sono proprio nel nostro isolato, pazienza, si sceglie comunque il migliore.
E’ inevitabile e necessario “progettare modelli urbani lontani anni luce da quelli delle nostre città storiche” perché la storia, il concetto stesso di storia, sta cambiando, è già cambiato. Nessuno di noi ha la soluzione in tasca ma, mi piace concludere con alcune righe di Massimo Bilò (da
“Argomenti di Architettura. Architettura & Città. Società, Identità e Trasformazione”): “….. l’universo della ‘metafora’ urbana in questo momento sembra vuoto. Forse si tratta di aspettare chi sarà in grado di proporre nuove grandi sintesi. Nel frattempo conviene assumere un approccio pragmatico e rifuggire dai millenarismi o dai pittoreschi impressionismi che, di tanto in tanto, tornano di moda quando si tenta di tratteggiare nuovi paesaggi urbani.”
Domanda: che cosa c'entra il commento con il titolo? Forse niente, è solo quello che mi ha fatto venire in mente.
saluti
vilma
Vilma ha, come al solito, colpito al cuore del problema e semina dubbi che sono reali.
Avevo cominciato a scrivere non una risposta ma alcune note e mi sono reso conto che ne veniva fuori una lenzuolata, anche un pò arraffata. Ne approfitto per dedicare il prossimo post a questo commento.
Non me ne vorrà Vilma di questo, anche se è ovvio che c'è da parte mia un pò di opportunismo, perchè mi dà così modo di scrivere un nuovo post. Il tema è tutto da svolgere ma l'argomento c'è già.
Basso opportunismo, ma anche la necessità di non abbassare troppo il tono alto di questo commento.
Saluti
Pietro
Cara Vilma;
Hai detto: « io sono qui che dialogo con un architetto di Arezzo che non so che faccia abbia »
Io posso dire, poiché ho incontrato in persona Pietro, che assomiglia a Gary Cooper in sue pellicole classiche, prima che sia diventato troppo vecchio. Ho in mente suo ruolo come l'architetto americano famoso Howard Roark nella pellicola "The Fountainhead".
Saluti,
Nikos
Qui finisce a tarallucci e vino!
egregio professor Salingaros, il tuo commento non è pertinente, anzi è decisamente fuori tema, ma molto divertente e simpatico.
Un cordiale saluto
vilma
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