Pietro Pagliardini
Nell’introduzione del libro di Marco Romano (architetto e professore di Estetica della città) “La città come opera d’arte”* si legge:
“Se la città è un’opera d’arte sarà per sua natura il tema di un giudizio critico, un giudizio in ogni città competenza di ciascun cittadino per il suo diritto a contribuire al suo modificarsi nel corso della propria generazione …..” – e ancora- “Come ogni opera d’arte la città ha un suo committente: nel nostro caso quell’insieme dei suoi cittadini che ne fondano il Comune - originale creazione europea - per i quali la sua bellezza costituisce un obbiettivo ma anche il riconoscimento della loro stessa esistenza collettiva …..”
Leggendo queste frasi non posso non collegarlo all’articolo a firma dell’architetto Daniel Libeskind sul Corriere della Sera di oggi, in cui egli fa un’appassionata e colta difesa della sua torre di CityLife e che inizia con questa affermazione:
“L' architettura è un' arte civica e in quanto tale, come tutte le arti, è espressione del pensiero creativo. In una democrazia, l' architettura è il dischiudersi di possibilità inventive, culturali, sociali e funzionali conseguite con materiali sostenibili e proporzioni perfette, plasmate nella luce.”
E’ fin troppo facile leggere nei due testi atteggiamenti completamente diversi e opposti e che esprimono al meglio le due tendenze prevalenti nel mondo della cultura architettonica: da una parte il riconoscimento che la città, quella europea in particolare, è il prodotto sedimentato di secoli di storia in cui i cittadini si riconoscono e si identificano, in quanto appartenenti alla civitas; dall’altra l’esaltazione, invece, della libertà individuale dell’architetto che, proprio grazie ad una società democratica, può e deve trovare la possibilità di esprimersi nella creatività e nell’invenzione. Da una parte prevale la lettura e il rispetto del passato e della tradizione, dall’altra il gesto d’artista dell’architetto.
Libeskind attribuisce all’espressione “arte civica” proprio il significato opposto di arte al servizio di e per i cittadini e, con un salto logico, ne trasfigura completamente il senso perché pone al centro del processo non la civitas ma la figura dell’architetto stesso con il suo genio, la sua espressività, la sua potenza creatrice; mi sembra che si ripeta qui lo stesso tipo di relazione che c’è, in campo scientifico, tra libertà di ricerca e libertà di applicazione delle tecnologie, con il dibattito se spetti allo scienziato o alla società decidere sull’applicazione di quelle tecnologie che interessano l’essenza stessa della natura umana.
A me sembra che egli possa compiere questo ragionamento solo legando intimamente la forma dell’architettura alla forma politica della società, per cui in una società non democratica non vi sarebbe libertà per nessuno, quindi neanche per l’architetto che avrebbe l’obbligo di seguire canoni e regole consolidate e accettate dal “regime”, essendo perciò costretto a restare nel solco della tradizione; mentre in una società libera e democratica, essendo garantita libertà di espressione a tutti, anche l’architetto sarà libero, anzi, avrebbe quasi il dovere di scegliere, innovare, inventare, creare, al pari di ciò che avviene in tutte le arti.
Il mio parere è che la forma politica di una società c’entra sicuramente ma il ragionamento che fa Libeskind, pur essendo estremamente raffinato, presenta questa forte contraddizione:
A) o tutta l’architettura passata (o almeno quella che viene universalmente riconosciuta di grandissima qualità) deve essere ritenuta frutto di società democratiche come si intendono oggi, il che è palesemente falso, si pensi all’Egitto, alla Persia, all’epoca imperiale romana, alla stragrande maggioranza dei Principati del Rinascimento ecc.
B) oppure tutta l’architettura passata (o almeno quella che viene universalmente riconosciuta di grandissima qualità) deve essere considerata scadente perché frutto di una società non democratica e, improvvisamente, con l’avvento della società democratica sembra che abbiamo scoperto la “vera” architettura, il che è altrettanto falso.
In realtà Libeskind ricorre ad un artificio retorico di notevole efficacia ma il fatto è che la democrazia urbana ha poco a che vedere (salvo casi di assolutismo e/o dittatura estremi) con la forma politica di una società perché proprio nella civiltà medievale (che pure aveva ben pochi elementi di democrazia paragonabili ai nostri) vi era condivisione delle scelte importanti sulla città (si pensi al concorso per la cupola del Brunelleschi, si pensi agli statuti dei comuni in cui si disciplinava in maniera puntuale la proprietà e le regole per costruire); ma, soprattutto, vi era la condivisione nel corpo della società e quindi anche negli architetti, di canoni di base che erano rispettati, senza per questo escludere evoluzioni, ricerche, rotture, salti in avanti e ritorni al passato.
L’architettura è sì “arte civica”, come scrive Libeskind ma nel senso che dice Romano perché l’architettura appartiene a tutti i cittadini i quali sono gli attori della scena urbana di cui la città è il proscenio. La città è l’ambiente dell’uomo e deve essere salvaguardato; la città deve sì trasformarsi e non deve restare ferma (e non potrebbe anche se qualcuno lo volesse) ma la rottura totale dei canoni architettonici riconosciuti, interiorizzati e trasmessi da secoli hanno conseguenze gravi sull’equilibrio e la stabilità sociale delle città, al pari degli effetti che ha la deforestazione della giungla amazzonica per le tribù indigene. Si vuole affermare che gli indigeni hanno il dovere di essere “civilizzati”, anche a costo della perdita d’identità e della loro estinzione? Gli indiani d’America sono stati confinati nelle riserve e si sono praticamente estinti a vantaggio dell’occidente ma oggi il “progresso” architettonico del decostruttivismo (insieme, per la verità, alla lottizzazione incontrollata e speculativa) che rompe gli equilibri delle città perché fa perdere il senso d’identità e appartenenza ai cittadini, si ritorce contro noi stessi.
Un'architettura come arte civica dovrebbe essere sottoposta al giudizio dei cittadini e dunque la proposta di Sgarbi per il referendum è la forma più democratica di scelta e i milanesi hanno il diritto di scegliere.
*collana Le Vele, Einaudi
5 maggio 2008
Architettura come "Arte Civica": il caso CityLife
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4 commenti:
Ciao, molto carino questo sito.
Pensavo da quanlche tempo, di realizzarne uno sullo stesso tema.
Comunque su Wikipedia.it ho sviluppato molte voci (o scritto da zero) su Krier & Co, se ti va di aiutarmi sono da quelle parti.
Ciao
Mr. Peter
Mi vergogno un pò a dirlo ma non sono capace a creare o correggere le voci di Wikipedia. L'unica cosa che posso fare è farti avere notizie su Krier, Salingaros e Alexander poi ci pensi te a pubblicarle. Però non mi mettere fretta.
Saluti
Piero
Interessanti considerazioni. In realtà Libeskind è famoso per saper comunicare in modi diversi in base alla platea che ha di fronte. E' per questo che una volta, in un aula universitaria, ho sentito appellarlo con "architroia". Sarà o non sarà, per quanto interessante la sua architettura, e lo è molto, detesto il suo atteggiamento di ipocrita accondiscendenza ai poteri reali, per poi parlare di pace ed olocausto o di processi democratici...
www.piliaemmanuele.wordpress.com
La fretta è una brutta bestia.
Mi interesserebbero molto le fonti su Krier & Co. anche per studio personale.
Di Krier ho letto quasi esclusivamente "Architettura.Scelta o fatalità"; su Salingaros oltre al magnifico "Antiarchitetura e demolizione" ho letto un gran numero di scritti come per Alexander.
Per imparare ad usare Wikipedia, comunque bastano un paio di ore...
Cordiali saluti
Pietro (alias Mr.Peter(alias mr deer))
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