Gent.mo Prof. Muratore,
ho trovato un Suo scritto del 2003, dal titolo “Distruggere è anzitutto una sconfitta”, pubblicato su AREA e riportato integralmente su Archinfo.it, sulla demolizione di opere di architettura, che mi ha indotto ad una riflessione proprio in relazione all’affermazione di Buontempo di abbattere il Corviale, sostenuta da Il Covile, da questo blog e dal gruppo che fa riferimento a Nikos Salìngaros.
Intanto va detto che la Sua non è una difesa ideologica o critica di questa o quell’altra opera di architettura ma il Suo ragionamento si fonda su un principio generale che ogni opera è comunque degna di rispetto e di attenzione di “amore per la vita delle cose, anche delle più umili e, quindi, più deboli”. Non è, evidentemente, un atteggiamento di infinito amore francescano per il creato, ma la convinzione che l’opera dell’uomo, l’architettura nella fattispecie, qualunque ne sia l’origine e il risultato finale, è sempre degna di essere preservata dalla furia iconoclasta e “distruttiva” di turno, anche se giustificata dalla contingente reazione ad una opposta furia “costruttiva” che ha prodotto opere dal forte valore ideologico e simbolico palesemente sbagliate sia nei confronti del territorio che dell’uomo. Ma Lei non salva e non assolve l’idea che sottende a queste opere-simbolo, quanto l’opera in sé, con il logico presupposto (è una mia “logica” deduzione) che, una volta costruita, essa esiste a prescindere dalle intenzioni buone o cattive dell’autore, e quindi da quel momento assume una vita propria e si separa da colui che l’ha progettata.
Se questo è il significato del suo atteggiamento (e credo non possa essere altrimenti) personalmente io lo condivido del tutto. Rifuggo, infatti, la beatificazione degli autori, riconoscendone tuttavia l’importanza, positiva o negativa, e la responsabilità nell’esecuzione dell’opera. Proprio per questo credo che le opere vadano giudicate per quello che sono e non per tutto quanto sta a monte (la vita dell’artista, la sua storia, le intenzioni, l’appartenenza ad un ismo, ecc.), che indubbiamente serve e deve essere studiato per comprendere meglio e per formarsi una dimensione critica completa, ma che non può assurgere ad un valore di livello superiore al risultato finale e agli effetti prodotti nella realtà.
Su questo punto si gioca, in verità, tutta la differenza tra l'arte antica e l’arte moderna e contemporanea, la quale vive, il più delle volte, più dei suoi presupposti che del valore dell’opera stessa.
Però Lei sostiene anche che:
“Di solito, quando tutto ciò avviene, è perché si è scelta la via breve della sopraffazione nella presunzione di essere latori di una verità e di un'autorità che vengono dalla sedicente e contingente autorevolezza di una superiorità culturale che si fa fisica e materiale. Invocare la distruzione di ciò che non piace perché non lo si comprende è stato spesso l'esercizio di quanti nella convinzione ideologica di interpretare altrui bisogni si sono spesso arrogati il diritto di proposte indecenti. Invocare la demolizione di architetture importanti, come nel caso romano il Vittoriano, il Palazzo di Giustizia e il Palazzo della Civiltà Italiana, più amichevolmente noto come Colosseo "quadrato" (che, se non altro, sono state scenografie storiche e straordinarie di Greenewey, di Welles e di Fellini), piazza Augusto Imperatore, lo stesso Corviale quando si sa che l'ipotesi risulta del tutto impraticabile è esercizio stucchevole e isterico buono solo a sottolineare nell'enfasi retorica del gesto squadristico ed esemplare la propria incapacità di dialogo, di tolleranza, di ascolto e di intelligenza con quanto cozza col proprio modello teorico, con la propria utopia, con il proprio frustrato delirio avanguardistico”.
Lei accomuna qui, in un unico paniere, opere molto diverse tra loro quanto a funzione, valore simbolico, tipologia. Le prime appartengono ai temi collettivi, sono cioè edifici specialistici nati con una precisa funzione urbana, certamente influenzate dallo spirito del tempo, certamente controverse, ma gli effetti che esse apportano incidono solo ed esclusivamente sull’immagine urbana, sul maggiore o minore grado di condivisione che esse possono avere tra i cittadini, e quindi sul senso della loro appartenenza alla città stessa; condivisibili o meno che siano, ormai sono entrate a far parte del patrimonio collettivo di Roma, come la torre Eiffel a Parigi, nata come opera provvisoria e che definire bella sarebbe un azzardo, ma che nessuno si sognerebbe mai di abbattere!
Il Corviale è altra cosa. Il Corviale è edilizia residenziale pubblica, cioè quel campo in cui si misura il rapporto che lo Stato instaura, in ambito urbano, con i suoi cittadini meno fortunati. Al Corviale vivono migliaia di persone (6000, 8000, 10000, boh!) i quali devono percorrere, per entrare in casa, ballatoi lunghi oltre 100 metri ed è un’operazione ideologica fatta sulla pelle della gente, utilizzata come cavia. Al quarto piano erano previsti i negozi. AL QUARTO PIANO! Non c’è, ovviamente, chi potrebbe essere così matto da aprire un negozio al quarto piano di un edificio residenziale. Chissà, forse il progettista pensava a negozi “di Stato”!
Qui non si invoca la distruzione di ciò “che non piace” ma, semmai, si ritiene di dover abbattere ciò che il buon senso di persone dotate di normale cervello e stomaco rifiuta.
Il Corviale riguarda certamente tutti i cittadini romani, ma difficile contestare che riguardi prima di tutto quelle migliaia di residenti. Che si provi qualcuno a dire in una pubblica assemblea al Corviale che l’edificio appartiene alla città, come il Colosseo quadrato o il Palazzaccio, e quindi che è la città o, peggio, gli architetti che devono deciderne il destino! Se vogliamo chiamare questo populismo io sono felicemente populista.
Però Lei per il Corviale utilizza una giustificazione diversa, cioè quella che sarebbe ipotesi “impraticabile” e quindi “esercizio stucchevole e isterico buono solo a sottolineare nell'enfasi retorica del gesto squadristico ed esemplare la propria incapacità di dialogo, di tolleranza, di ascolto e di intelligenza con quanto cozza col proprio modello teorico, con la propria utopia, con il proprio frustrato delirio avanguardistico”.
Qui mi perdo. Impraticabile è il suo mantenimento e ancora più la sua ristrutturazione, dato il sistema costruttivo utilizzato, come hanno spiegato bene E.M.Mazzola e memmo54 in un suo commento al post precedente, e non ho sentito obiezioni alle loro affermazioni.
Più raffinata è l’accusa di “squadrismo” e “incapacità di dialogo”. Intendiamoci: raffinata perché proveniente da Lei, di cui io apprezzo la competenza e l’equilibrio, spesso mascherato da un linguaggio romanesco ironico, disincantato e un po’ sbracato, perché le accuse acquistano e hanno un sapore e un significato diverso in base alla loro provenienza. La stessa frase detta, che so, da Renato Nicolini, meriterebbe una risposta sbrigativa alla Muratore.
Lo squadrista non solo impone la sua volontà su quella degli altri ma, peggio ancora, esige che gli altri la pensino come lui. Esattamente ciò che hanno fatto i progettisti del Corviale sulle migliaia di inquilini, come ha ben chiarito la sociologa Amalia Signorelli in quel video linkato nel precedente post in un dibattito a Valle Giulia. Ma Mazzola, Rosponi e Tagliaventi non vogliono imporre un bel niente, hanno proposto una soluzione possibile da sottoporre al vaglio e alla decisione dei residenti!
E’ squadrismo questo? No. Allora è populismo? Neppure. E’ un “normale” processo democratico. Oddio, tanto normale non è, ma lo dovrebbe diventare. Se progetto una casa per un committente privato, nell’ambito delle regole fissate dalla strumentazione urbanistica, questi ha il potere di fare ciò che vuole e il progettista ha l’obbligo di esaudirlo. Se non ne condivide i contenuti, rinuncia. Se il committente è una cooperativa (ma non ne esistono più di quelle vere) il progetto passa all’approvazione dell’assemblea, e non è un rito, mi creda. Il committente pubblico, invece, non può sottoporre il progetto agli utenti, perché non può conoscere prima chi essi saranno, e allora giocoforza si deve sostituire a loro e interpretare, nel migliore dei modi possibile, le esigenze probabili dei futuri inquilini. Non è stato mai fatto: seguire le leggi, applicare i parametri, tutti rigorosamente numerici e punitivi e poi decida l’architetto. Questo è accaduto anche a Corviale. Ma oggi il caso sarebbe diverso. Si conoscono i “clienti” e cioè gli abitanti di Corviale. Oggi c’è la possibilità di farli scegliere.
Quali dunque le scelte possibili?
1) Lasciare tutto com’è e vendere agli abitanti l’edificio. L’Istituto si libera del gravame e lo trasferisce sulle spalle del condominio, cioè dei futuri acquirenti, che si accorgerebbero ben presto di avere acquistato un debito, cioè di avere preso una sòla.
2) Demolirlo in parte, come dicono molti, e integrare, ricucire, aggiungere, trasformare con il risultato di avere comunque persa la memoria del Corviale (un edificio di un chilometro o è di un chilometro o è un’altra cosa) e di continuare a fare esperimenti tecnologici sulla pelle degli altri per ristrutturare le parti rimanenti, che invece sempre Corviale sono.
3) Cambiarne la destinazione facendolo diventare pubblico, farne un “tema collettivo”. Certamente la tipologia edilizia si presterebbe meglio che non quella residenziale, ma la tipologia costruttiva molto meno e poi, dove “collocare” gli abitanti?
4) Demolirlo e sostituirlo con un ambiente urbano, recuperando una parte dei costi con l’incremento volumetrico e con il fatto che il terreno non è un costo, essendo pubblico. Con quale progetto? Tre ne sono stati presentati, si adoperino altri, facciano proposte e facciano scegliere.
Chi si è esposto non teme certamente il giudizio della gente. Altri semmai lo dovrebbero temere. E sono certo che questi chiederebbero un bel concorso, con la solita giuria di professori e delegati degli ordini, insomma, la solita camarilla in cui non crede nemmeno Lei. Quello che sfugge, o forse non si condivide o non si capisce o si teme, è la presenza di una strategia completamente diversa nella costruzione della città le cui scelte possono e devono tornare nelle mani di coloro che ne hanno pieno titolo e diritto, cioè i cittadini: togliere la città dalle mani degli esperti, che avrebbero il compito di proporre e accompagnare, non di imporre e scegliere.
Se questo è squadrismo, sopraffazione delle idee…. Certo che abbiamo idee molto diverse e le vogliamo anche affermare, e credo sia lecito, come anche Lei Professore vorrà convenire, ma, al massimo, è illusione, ingenuità cui Lei ha già dato risposta con quel suo bonario e annoiato titolo: Ancora sull’abbattimento del Corviale…che palle!
Se facciamo tutto quanto è lecitamente possibile per affermare le nostre idee, se chiediamo un confronto su queste con i “clienti”, i media, le istituzioni, perché chiamarlo squadrismo o ideologia che farebbe da contrappunto a quella realmente messa in atto da decenni? Non facciamo mica un blitz con le squadre speciali al Corviale!
Posso capire il principio di precauzione per opere controverse ma qui di controverso c’è solo il giudizio di qualche architetto che si ostina a difendere l’indifendibile perché per il resto tutto è molto, molto chiaro.
Certo di non avere scalfito il Suo disincanto
Cordialmente La saluto
Pietro Pagliardini
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