Pietro Pagliardini
In questi giorni mi ha preso una specie di crisi di coscienza: credo che, in base a quanto ho scritto nei miei post, se qualche collega mi desse del “rinnegato” avrebbe qualche ragione. In effetti un architetto che fa la professione e che, contemporaneamente, spara ad alzo zero sugli architetti sembra meritarsi questo appellativo.
Ma io in realtà non ho niente contro gli architetti: il fatto è, semplicemente, che mi interessa l’architettura mentre mi interessano assai meno i suoi autori; o meglio, non sono tentato dalla mitizzazione per i progettisti perché mi piace considerarli professionisti che lavorano, che si sforzano di fare il loro lavoro al meglio, che sono ovviamente interessati alle parcelle, cioè ai soldi, che aspirano, come è umano, al successo e alla gratificazione personale oltre che economica, al pari di qualunque altro professionista. Però tutta la mia ammirazione si ferma qui.
Il fatto è che veramente non mi piacciono i maestri e soprattutto, non mi piacciono i loro discepoli-emuli-imitatori. Mi disturba il termine maestro usato per gli architetti, al massimo lo ritengo adatto ad un musicista, un pittore, uno scultore. Non che sia scorretto l’uso in sé, perché maestro è colui che sa più o fa meglio di altri e quindi se c’è un architetto con questi requisiti è pertinente appellarlo maestro.
Ma l’uso che ne viene fatto e, soprattutto ciò che esso sottintende è fuorviante per almeno tre motivi:
1) maestro esprime una capacità assolutamente individuale, personale di conoscere una disciplina e di saperla applicare. Ora è evidente che chiamare “maestro” uno come Michelucci ha un senso perché il suo era un lavoro di tipo artigianale, matita, carta, tecnigrafo e, al massimo, qualche collaboratore; il processo di progettazione prima e produzione dopo non sfuggiva al suo controllo. Ma che senso può avere chiamare maestro un’archistar il quale, partendo da un’idea, che voglio ammettere sia da lui stesso rappresentata con un disegno a schizzo, viene poi elaborata al computer (diversamente sarebbe irrappresentabile), modificata e trasformata, perché i software modellatori di forme tridimensionali possono offrire spunti “autonomi” casuali di forme diverse da quelle pensate? Successivamente questa serie di risultati ottenuti, immagino e spero dopo essere stati selezionati dall’architetto, passano, il più delle volte, ad altra sede, in altro studio per l’ingegnerizzazione dove comincia il processo per dare corpo ad un’idea in parte condivisa con il PC. In questo senso gli architetti sono avanzatissimi nello studio dell’intelligenza artificiale).
Poi il progetto, o parti di esso, vanno alle varie aziende produttrici per la cantierizzazione. In fase di direzione dei lavori non ne parliamo nemmeno di maestro perché qui il progettista, parlo dei progetti importanti ovviamente, non mette neanche piede se non per pubbliche relazioni o al massimo per dettagli. Il processo produttivo è talmente complesso e sono così numerose e molteplici le figure professionali, tecniche ed economiche che entrano in gioco che individuare nel progettista il “maestro” è come immaginarlo dotato di poteri divini, un demiurgo che tutto regola e controlla. Una visone più che romantica dell’architetto, addirittura ridicola.
2) Maestro significa non solo avere conoscenze e capacità superiori ad altri ma soprattutto saperle trasmettere agli altri, perché queste non vadano perse. Se uno tiene tutto per sé e le sue conoscenze muoiono con lui di tutto si può parlare fuorché di “maestro”. Uno scienziato che fa una scoperta eccezionale, la mostra e non la spiega, tantomeno la scrive, è totalmente inutile. Tornando alle nostre archistar vorrei sapere che cosa sono in grado di trasmettere. Forse che il prendere un foglio di carta, accartocciarlo ed entrarvi con una micro telecamera per vederne gli esiti spaziali è una lezione di qualcosa? Al massimo è un happening, uno show adatto alla TV, fatto per stupire ed alimentare un mito per menti deboli, ma di maestria neanche l’ombra. L’unica cosa che può lasciare è l’opera; sarebbe già tanto, anzi, sarebbe tutto per un architetto se da quell’opera se ne potesse trarre un metodo, un criterio, una regola. Ma in realtà l’unica regola che si può trarre dall’architettura dello star system contemporaneo non è diversa da quella di Carlo Verdone: famolo strano. Fate quello che volete, basta che sia fuori del comune , fuori da ogni regola; il contesto non ha importanza, la storia di meno, conta solo l’egocentrismo del progettista. Cosa volete che insegni la Zaha Hadid! Neanche le sue opere contano molto, visto che nel passaggio dal progetto alla realtà perde anche, nella maggior parte dei casi, quell’effetto di dinamismo che può esercitare un certo fascino e restano solo forme brutaliste prive della levigatezza delle figure renderizzate.
3) Ma il motivo più importante per cui diffido dell’appellativo di maestro è l’uso che ne viene fatto dagli architetti. Vi sono moltissimi di questi che si creano il mito e, di fronte ad un nuovo progetto o al progetto di altri, giudicano e progettano acriticamente sulla base di quanto avrebbe fatto il maestro. Si pensi a quanti hanno progettato o approvato progetti alla Le Corbusier, applicando tutte le “regole” canoniche di questo: pilotis, finestre orizzontali, tetti piani, corridoi interni da vagoni ferroviari. Tuttavia, Le Corbusier aveva almeno le caratteristiche del maestro perché era anche e soprattutto un teorico che aveva fissato delle regole, anche se sbagliate. Ma uno come Mario Botta, che pure ha grandissime qualità, che viene preso come maestro e ne vengono replicati i mattoncini di cemento in ogni dove con l’inevitabile grande arco di corredo (si osservino i risultati nella pubblicità dei vari produttori) quanti danni produce, senza alcuna sua colpa? Ancora: adesso vanno di moda i tagli delle finestre alla Zucchi e state tranquilli che nei concorsi minori se non ci sono le finestre ritmate da tagli verticali ed orizzontali, non c’è verso di vincere. Il punto è questo: senza entrare nel merito della qualità dei maestri, sono gli allievi che ad essi si ispirano a fare danni diffusi nel territorio.
Il primo luogo dove abolire tale parola, o almeno farne un uso più moderato, limitandolo a coloro che esprimono con la loro architettura valori assoluti e non mode temporanee, dovrebbe essere l’università.
Questo blog tratta di architettura tradizionale ed è naturale che, dovendo riferirmi ad un maestro, il riferimento indiscutibile è Leon Krier. Ebbene credo che anche nei suoi confronti debba valere lo stesso atteggiamento di “distacco” che vale per gli altri. Krier è un grande teorico, è una bandiera per chi crede che si debba tornare ad un’urbanistica e ad un’architettura che sia più in armonia con la storia; per certi aspetti Krier rappresenta nel campo dell’architettura quello che un leader politico rappresenta per un partito di minoranza: la capacità di dare vita e voce ad un’idea molto vicina ai sentimenti e ai gusti della gente e del tutto negletta e disprezzata dal pensiero unico dominate ma, imitarne le architetture sarebbe un grave errore, perché esse sono uniche e frutto di una mente visionaria che reinterpreta la classicità in modo fortemente personale. Imitarle vorrebbe dire falsificare un classicismo già filtrato da una personalità creativa e il risultato potrebbe essere un banale raccogliticcio di colonne, archi, timpani privo delle regole classiche e dell’impronta geniale del “maestro”.
Ciò che conta in Krier è la forza delle sue idee, dei suoi studi e dei suoi progetti urbanistici, che sono capaci di creare quartieri e città omogenei con le città europee con strade gerarchizzate che formano isolati e non lotti con gli edifici che vi galleggiano dentro, i fronti degli edifici che delimitano le strade, gli interni degli isolati studiati per accogliere le auto senza farne luoghi squallidi, la commistione delle funzioni tipico dei centri storici ottenuta con un mix di tipologie edilizie, norme edilizie non quantitative ma qualitative, precise regole morfologiche.
Leggere gli scritti di Krier e guardare i suoi disegni è una cura disintossicante contro le stramberie dell’architettura modernista e de-costruttivista, è andare alle radici dell’architettura, è l’acquisizione di un metodo di approccio al problema che mette al centro del progetto l’uomo e la bellezza, ma non deve mai essere imitazione. Krier non propaganda uno stile e non fa progetti in stile, come invece dice Luigi Prestinenza Puglisi in un’intervista:
“Per Leon Krier la città ideale è fatta dalla contrapposizione tra un’edilizia vernacolare ed edifici monumentali, tutti in stile. Considerato il successo che sta riscuotendo presso alcuni architetti e le autorità che si occupano dell’Eur, abbiamo più di un motivo per preoccuparci.”
Lo “stile” di Krier è assolutamente personale e inimitabile, ma è la sua teoria che può e deve essere trasmessa, a prescindere dallo “stile”, come lui stesso afferma:
“L’idea del classico non appartiene ad un periodo specifico. Molto semplicemente è l’idea del meglio possibile. Essere classico significa: Appartiene alla classe più alta, allo standard più alto, alla forma più alta”.
E ancora:
“Trascendendo problemi di stile, periodo e cultura, l’Architettura Classica qualifica la totalità dell’architetura monumentale basata sui fondamentali principi di “ Venustas, Firmitas, Utilitas”, tradotti nel linguaggio moderno come armonia/bellezza, stabilià/permanenza e utilità/comfort”.Leggendo le sue norme per il piano di Firenze Novoli, non vi si troveranno obblighi di usare archi, colonne, ordini architettonici, lesene, timpani; vi si trovano regole di allineamento dei fabbricati lungo le strade, rapporti tra pieni e vuoti equilibrati con limitato uso delle logge, altezza dei piani gerarchizzati, terrazze posizionate nei fronti principali con precisi criteri, ma mai l’imposizione di uno “stile”, tanto meno di uno “stile krieriano”.
Se i circa 130.000 architetti italiani (oltre un quarto della popolazione mondiale di architetti) seguissero nella loro pratica quotidiana queste regole vi sarebbero meno indecenze nel bel paese; invece il più delle volte si imitano cattivi maestri che stimolano la fantasia e la creatività personale, che ti illudono di essere capace di farlo, e il risultato è sotto gli occhi di tutti. Quando Meier sbarca in Italia, a Roma, nel centro di Roma, non in un posto qualsiasi, e compie quel gesto osceno con una presunzione senza pari e con l’avallo della pubblica amministrazione, fa un atto che definirei “illegale”, perché va contro ogni legge dell’architettura; ma il danno maggiore che egli compie con l’innesto della molla imitativa negli architetti è infinitamente superiore all’esistenza stessa della teca in sé, perché questa, in fondo, può sempre essere demolita e, in questo senso, la demolizione avrebbe un grande valore di esemplare gesto riparatore.
Oggi fioriscono libri e articoli di giornali e riviste “contro gli architetti” ed è il segnale di una stanchezza verso architetture che compiono continui strappi nella cultura della città in cambio di qualche comparsata nelle patinate riviste di moda e di architettura (che ormai sono esattamente la stessa cosa); stanchezza non solo tra la critica ma, soprattutto, tra la gente che non ne può più di essere costretta a vivere in quartieri brutti e degradati mentre vengono proposti sfavillanti quanto disumane architetture che nulla fanno per migliorare la condizione delle città e sono anzi pessimi esempi perché inducono a rassegnarsi al folle sillogismo alla Koolhaas:
società spazzatura-architettura spazzatura.
Se l’architettura può fare poco per migliorare la società certamente può fare moltissimo per peggiorarla ma doversi sentire anche teorizzare queste sciocchezze vuol dire aggiungere al danno la beffa.
In questo senso Krier è un maestro, uno dei pochi viventi perché invita tutti, politici e progettisti, ad un atteggiamento di rispetto nei confronti della città, senza, per questo, rinunciare alla sua modificazione.
2 giugno 2008
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3 commenti:
Su Koohlaas concordo in parte, nel senso che al di là dello stile dei suoi libri e del carattere estremo di alcune sue architetture (la CCTV, ad esempio), ha anche concepito alcuni che sono dei veri e propri pezzzi di bravura dell'architettura contemporanea (l'ambasciata olandese a Berlino, ad esempio). Sulla Hadid concordo pienamente ma da dieci anni a questa parte, perché veramente da quando ha vinto il Pritzker sembra aver perso il lume della ragione. Sui danni degli epigoni imitatori credo che lei dimentichi l'aldorossismo: vogliamo parlare dello scempio perpetrato nei comuni del nord Italia dopo il successo
del progetto del comune di Borgoricco e altri (buoni) progetti rossiani?
Al di là delle opinioni personali però :-), credo che bisognerebbe consegnare una copia dell'articolo a ciascun professore di composizione delle università italiane e invitarlo a porsi delle domande.
Saluti
P.S.: Prestinenza spesso dice cose interessanti, altrettanto spesso ne dice di molto meno. Ho il sospetto che a volte lo faccia per il semplice gusto di dirle, in maniera che bene o male se ne parli, qualcuno le legga e risponda sul blog. Cosa non si fa per un quarto d'ora di celebrità...
http://it.wikipedia.org/wiki/L%C3%A9on_Krier
E' vero, qualche volta esagero, sono troppo tranchant. Lo so che non necessariamente i maestri sono responsabili delle colpe degli allievi. In fondo, sotto, sotto, non è che io disprezzi sempre e comunque l'architettura di alcune archistar, è che hanno creato un sistema per cui sono necessitati a stupire, a meravigliare, ad essere sempre e comunque creativi (cioè dannosi) altrimenti escono dal giro.
Il vero problema sono i loro epigoni che dovrebbero avere un approccio meno ottuso e acritico. I cattivi allievi di Aldo Rossi, comunque, avranno messo qualche timpano di troppo, qualche pilastro ciclopico in più, qualche ciminiera di mattoni non proprio utilissima ma ho l'impressione che un'architettura metafisica copiata mediocremente sia sempre meglio che un decostruttivismo copiato bene.
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