Pietro Pagliardini
Navigando nel mondo dei blog e dei siti di architettura, ultimo Archiwatch del prof. Giorgio Muratore che si distingue per uno spirito molto libero, mi imbatto spesso in commenti, che immagino lasciati prevalentemente da giovani, fortunatamente insoddisfatti dell’architettura, dell’edilizia e dell’urbanistica contemporanea, sia di quella comune delle nostre città, in gran parte speculativa e priva di alcun interesse per il disegno urbano e architettonico, sia di quella sfavillante del mondo delle archistar, con i suoi simboli architettonici diffusi da riviste patinate e magazine allegati ai quotidiani; per fare un esempio: Libeskind, Zaha Hadid, Rem Koolhaas, Fuksas, ecc.
Spesso, a questi commenti sconsolati segue un ritornello che, più o meno, dice: “questa architettura è sbagliata, però un ritorno alle forme antiche (Es. Krier) non è possibile perché il mondo è cambiato, sarebbe come andare in giro con auto che avessero le forme delle carrozze ecc. ecc.” – e concludono –“Occorre una terza via”.
La terza via! La soluzione di ogni problema o meglio la fuga dal problema: non va bene il moderno, non va bene l’antico, va bene… che cosa va bene? Va bene quello che non c’è.
La ricerca della terza via corrisponde però ad un’esigenza precisa, al bisogno di bellezza, ma con lo sguardo dritto in avanti; è un atteggiamento che esprime ottimismo e fiducia nelle capacità umane di trovare soluzioni ad un problema nuovo che prima non c’era (l’enorme sviluppo della tecnologia) ed è perciò un valore positivo, tanto più in un giovane studente il quale capisce, evidentemente, che ciò che gli viene propinato in facoltà e nelle riviste di architettura (peggio in quelle di moda che presentano lavori di archistar come fossero film di divi del cinema) non è così lucente come sembra, non è così scontato come gli vogliono far credere ma, non volendo volgere lo sguardo al passato, cerca strade “nuove”.
Il problema della terza via in architettura, tra un presente brutto, ma “in linea con i tempi”, e un passato bello, ma “anacronistico” secondo me è, dal punto vista della teoria, irrisolvibile. Proverò a spiegare premettendo che mi è stata di grande aiuto la rilettura critica fatta da Raffaele Giovannelli in un lungo e argomentato scritto sul pensiero di Bruno Zevi, dal titolo “Critica ai fondamenti dell’architettura moderna”, nel sito effedieffe.com.
Già cinquant’anni fa Bruno Zevi aveva teorizzato la ricerca di una terza via tra il mondo dell’accademia e quello di una modernità senza regole, affermando che occorreva fissare canoni per una nuova architettura. Con una notevole intuizione aveva capito che alla rottura delle regole architettoniche classiche effettuata dal movimento moderno, avrebbe dovuto necessariamente seguire una proposta architettonica matura e positiva, a modo suo un nuovo rinascimento. E’ così che, nel tempo, teorizza le sette invarianti dell’architettura moderna e dovendo queste essere profondamente diverse da quelle precedenti, egli, con rigore logico, le teorizzò opposte.
La prima delle sette, la più distruttiva, il così detto “elenco” è l’azzeramento totale dei segni, la tabula rasa, l’annullamento cioè della memoria.
Questa operazione, che resetta l’architettura, tira una linea su un foglio e cancella tutto ciò che c’è sopra, corrisponde al lavaggio del cervello di un uomo per fargli dimenticare tutto affinchè, facendolo regredire allo stato di neonato, possa ricominciare, attraverso un processo percettivo completamente nuovo, a ricreare le sue conoscenze, i suoi codici di comportamento, le sue relazioni con il mondo, la sua coscienza.
Siamo ai peggiori incubi dei film di fantascienza i quali, tuttavia, hanno il potere di esercitare un grande fascino intellettuale e una grande presa emotiva, sono intriganti e danno una sensazione di potenza incommensurabile; è un processo che presenta affinità e somiglianze con l’atto creativo divino in questo annullare la storia e impostare una vita nuova e completamente diversa.
Applicata all’architettura, inoltre, la tentazione del “grado zero” è fortissima e non stupisce affatto che i giovani ne rimangano rapiti (è successo anche a me) sollecitati, s’intende, da gran parte dei loro docenti.
Questo è un processo acritico che trova un terreno adatto nella cultura della nostra società la quale tende ad esaltare ogni manifestazione individuale come creativa in sé, senza distinguere mai tra brutto e bello, tra buono e cattivo, tra banale e profondo; e questo avviene grazie al pedagogismo e alla psicologia diffusa ad abundantiam nelle scuole di ogni ordine e grado fin da quella della prima infanzia, nei giornali, nelle TV e che attribuiscono valore all’atto espressivo di ognuno, prescindendo del tutto dalla qualità dello stesso. La grande diffusione di scrittori, poeti, pittori, artisti in genere tra professionisti, operai, intellettuali, casalinghe, pensionati, impiegati, studenti ecc. ne è la più limpida dimostrazione: siamo tutti artisti, basta esprimersi in qualcosa.
L’altra invariante che rompendo col passato arriva al cuore e interessa la sostanza della forma architettonica è la asimmetria. Su questa rimando alla lettura del citato articolo di Raffaele Giovannelli che è assolutamente esemplare.
Va riconosciuta a Bruno Zevi una razionalità e una intelligenza smisurata nell’aver messo insieme quanto di più distruttivo vi possa essere per l’architettura dell’uomo e per il suo ambiente di vita. Non c’è dubbio che sia riuscito a strutturare un corpus di regole e canoni assolutamente unitario e internamente logico e i risultati che oggi vediamo sono l’applicazione esatta di quello. Tant’è vero che, nel libro Architettura della Modernità, uno dei suoi ultimi credo, nelle pagine finali che si riferiscono alle opere contemporanee si legge:
“I decostruttivisti mettono sotto processo gli architetti intenti a produrre forme pure, basate sull’inviolabilità di figure geometriche elementari, incontaminate, emblemi di stabilità, armonia, sicurezza, confort, ordine, unità. Nelle loro opere da Eisenmann e Gehry a Koolhaas e Libeskind, l’architettura è dichiaratamente un agente di instabilità, disarmonia, insicurezza, sconforto, disordine e conflitto. Respinge le ideologie del numero d’oro, dell’impianto scientifico immutabile, eterno e universale, per difendere i diritti di un “progettare disturbato” calzante con la realtà”.
Più chiaro di così non è possibile: la realtà è disturbata e l’architettura si deve adeguare ad essa comunicando disordine, disarmonia, instabilità; siamo nel mondo dell’incertezza, siamo esattamente agli antipodi della triade vitruviana di firmitas, utilitas e venustas.
L’impressione è che questa analisi prenda in considerazione due fattori:
il primo l’architettura, ovviamente, e il secondo la società, intesa però non nella sua interezza ma nei suoi fenomeni più legati alla comunicazione e separata completamente dai suoi agenti principali, cioè gli uomini. Infatti è come dire: la società è disordinata, per questo bisogna progettare cose disordinate per aumentare il disordine. Il grande assente da una visione di questo tipo è l’uomo che invece richiede ordine, bellezza, armonia; ma del tutto assente è anche la natura nel suo insieme la quale proprio nel processo evolutivo mostra la sua tendenza all’aumento di ordine e di complessità, cioè di bellezza (Vito Mancuso, L’anima e il suo destino).
Bruno Zevi è dunque il teorico di quello che Salingaros chiama il nichilismo architettonico che dà spessore e sostanza alla furia contestatrice del classicismo fatta dal razionalismo e ne è la naturale ed estrema evoluzione.
Ecco dunque cosa intendevo per impossibilità di teorizzare una terza via: le strade sono solo due, l’armonia o la disarmonia, la firmitas o l’instabilità, l’utilitas o l’inutilità, la venustas o il brutto. Non esistono, filosoficamente, possibilità diverse da queste: la semi-stabilità è instabilità, la semi-bellezza è un edificio mal riuscito, l’armonia disarmonica è un ossimoro che può essere usato solo nel vuoto linguaggio architettese ma non trova riscontro nella realtà.
L’architettura non può che oscillare tra questi due poli, di uno dei quali, il nichilismo appunto, oggi se ne vedono chiaramente gli esiti maturi e di cui si comincia, però, ad avvertire una critica serrata e soprattutto il rifiuto da parte di chi quegli edifici deve subire, cioè la gente.
L’esistenza di due sole condizioni dell’architettura,l’una alternativa all’altra, non significa tuttavia l’obbligo dell’uso di forme classiche per coloro che rifuggono dal decostruttivismo. Le forme esterne, la morfologia degli edifici, la cifra stilistica non è data una volta per tutte; sono possibili, perché esistono nella pratica architettonica recente e attuale, scelte diverse e valide per chi non vuole ricorrere all’uso degli ordini classici, della colonna, degli archi e del timpano e più volte, in questo e negli altri blog di architettura che frequento, sono stati fatti i nomi di architetti che lo sanno fare e l’hanno fatto con grande maestria: Moretti, Gino Valle, Natalini ecc. i quali, nella loro diversità, hanno in comune il rispetto di alcune regole architettoniche minime per cui gli edifici non volano, non sono fatti di sola luce (questi sono totem della comunicazione in cui l’uomo non può vivere o lavorare), sono piantati per terra e si innalzano da questa con materiali idonei a sostenere, hanno un inizio e una conclusione, hanno proporzioni gerarchizzate e un’armonia compositiva adatta al corpo umano.
Ma piena dignità e valore, non esente da critiche ovviamente, deve essere riconosciuta a Krier, Duany, Porphyrios, Bontempi, ecc. i quali sono più aderenti alle forme classiche e/o vernacolari che sanno riproporre con grande fascino e rispetto per la storia e i luoghi. Ed è appunto laddove la storia è presente, cioè nei centri storici e nel paesaggio della città italiana ed europea, che questa architettura, a mio parere, meglio si confà al dialogo con l’esistente.
Si tenga inoltre conto che vi è un altro campo in cui il nichilismo è ancora più distruttivo: l’urbanistica. Qui abbiamo parlato di architettura che è la parte più immediatamente visibile e percepibile della città, quella di cui tutti, anche i non addetti, possono cogliere gli aspetti positivi o negativi, ma io credo che ciò che può contribuire a ridare un senso alla città, ed anche all’architettura è proprio l’urbanistica. E in questo campo non esiste proprio alcuna alternativa a quella della storia, non esiste né la seconda né terza via.
Qui si può apprezzare di più e meglio la teoria e la pratica di Leon Krier, di Duany, del New Urbanism. Ma questo è un altro discorso da affrontare in un altro momento.
15 maggio 2008
NON ESISTE LA TERZA VIA
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18 commenti:
Si, non esiste una via di mezzo.
Ma se l'arte ha da essere imitazione della natura naturans, e non della natura naturata (unica via), non potrà mai nemmeno essere ricalco dell'arte del passato.
Sarà come un fiore, ogni anno nuovo, della stessa pianta.
Ma sempre, nuovamente, rigenerantesi.
E mai ricalco.
Raffinatissima la tua bella interpretazione filosofico-letteraria della natura che si rigenera sempre uguale ma sempre diversa. Però la natura è governata da leggi da cui essa non può derogare, contrariamente all’architettura che è figlia dell’uomo e della sua cultura (e della sua libertà). E’ questo agglomerato di natura e cultura che rende tutto più affascinante e problematico
Credo che sia profondamente sbagliato codificare l'architettura per sua natura evolutiva come l'uomo. L’architettura/casa con le sue contraddizioni appartiene alla vita/società/luogo. L'architettura è identità e se questa identità comincia a essere globale non possiamo correggerla con regole e teorie obsolete e anacronistiche. Come diceva Bruno Munari: “La rivoluzione va fatta senza che nessuno se ne accorga” questo per me è la via necessaria per l’architetto che vive il suo tempo. Le nostre beneamate pietre cominciano a pesare perché fissandole abbiamo dimenticato l’arte del costruire. Salvatore D’Agostino
Si ecco, mi verrebbe da dire oggi, ripensandoci, invece che "le vie sono infinite".
Sono sempre più convinto che il vizio di fondo sia in realtà lo storicismo, che ha da una faccia della sua medaglia il modernismo (che giocoforza termina nel nichilismo), ma dall'altra l'imitazione, storicista, delle cose passate.
E' solo uscendo da questo circolo vizioso, da questa "schizofrenia" propria dello storicismo, che ritroveremo la strada giusta (una delle infinite :-)
Ot: ho visto che hai una serie di link su Revit.
Usi quello?
Io l'ho preso e preparo, per l'anno prossimo, di passarci definitivamente.
Mi rimane qualche perplessità a riguardo.
Sì uso Revit ormai da diversi anni. Per le tue perplessità non posso darti consigli perchè dipende da che genere di lavoro fai e cosa vuoi ottenere. Se vuoi scrivermi alla mail posso provare a consigliarti
Biz io ti sconsiglio di passare a Revit, perchè secondo me ha più contro che pro.
Magari è veloce da apprendere e facile da usare, se lo usi come fanno i miei compagni per disegnare direttamente in 3d sei limitato dai comandi che sai usare e gestire.
Inoltre per i render non è che sia sta forza, almeno che non ti accontenti di render stile videogioco anni 90.
I vantaggi (se poi ci sono) sono che essendo parametrico (è l'archicad della autodesk) se devi disegnare un muro esiste la paletta "muro" che lo disegna in 3d con già con i materiali applicati.
Pietro
Devo re-intervenire per dire:
il Pietro di sopra non sono io, ovvio altrimenti perchè avrei comprato Revit?
l'essere parametrico non è esattamente quello che dici tu, Pietro di sopra, ma molto, molto di più; consente un controllo totale del progetto, dei materiali, dei pacchetti di muri e solai, ecc. con ciò ricavando computi automatici e precisi in maniera relativamente veloce ma assolutamente precisa;
chiaro che non è un prodotto per fare rendering, però li fa e niente male; l'ultima versione poi, in distribuzione ora, ha il motore completamente nuovo, quello di 3DS e di... non ricordo.
Saluti a Pietro di sopra
Credo che sia profondamente sbagliato codificare l'architettura per sua natura evolutiva come l'uomo. L'architettura/casa con le sue contraddizioni appartiene alla vita/società/luogo. L'architettura è identità e se questa identità comincia a essere globale non possiamo correggerla con regole e teorie obsolete e anacronistiche. Come diceva Bruno Munari: "La rivoluzione va fatta senza che nessuno se ne accorga" questo per me è la via necessaria per l'architetto che vive il suo tempo. Le nostre beneamate pietre cominciano a pesare perché fissandole abbiamo dimenticato l'arte del costruire. Salvatore D'Agostino
Se ho capito bene tu dici: se la società è globale e l'architettura è figlia della società allora l'archiettura deve essere globale. Questo ragionamento potrebbe, dico potrebbe, essere vero per l'arte, la pittura ad esempio, perchè, senza volerla sminuire, tratta di oggetti senza contesto: se un quadro mi viene a noia lo stacco dal muro e lo metto in cantina o lo vendo, e andrà a finire nella parete di un'altra casa. Il quadro è un'opera individuale, sia nella produzione che nella fruizione. L'architettura è un'opera collettiva, sia nella produzione che nella fruizione, perchè è fatta da tanti soggetti (non solo dall'architetto) e fruita da tutti coloro che la devono subire (abitanti, passanti, turisti, ecc); l'architettura ha a che fare con l'antropologia, l'uomo nell'architettura ci deve vivere, passeggiare, dormire, mangiare, fare l'amore, allevare i figli, e l'antropologia non cambia con le mode e gli edifici restano, non sono come i quadri. L'uomo non è cambiato molto da milleni fa. Le passioni, le pulsioni, le emozioni, i sentimenti, la percezione della realtà sono sempre le stesse. Se stiamo bene nel, se piace a tutti il centro storico vuol dire che quelle regole che hanno governato la loro nascita e la loro crescita sono sempre valide: cambiare quelle regole o addirrittura non avere più regole, come succede oggi, significa violentare l'uomo, costringerlo a vivere in un ambiente a lui ostile, fargli perdere l'identità che lo lega al luogo, alla città, al quartiere, alla comunità. E'come deportare un eschimese all'equatore per il semplice fatto che...il mondo è globale. E questo paragone non è una esagerazione ma è la stessa esatta cosa in quanto la città è l'ambiente dell'uomo, come la natura è l'ambiente degli animali e delle piante. Certo che le forme, la pelle degli edifici possono e devono cambiare, certo che va tenuto conto di molti fattori diversi che sono subentrati (la tecnica, le auto, ecc.) ma la sostanza delle regole sono e saranno sempre quelle. Pena l'alienazione e lo straniamento totale dell'uomo dal suo ambiente. Come vedi anche gli astronauti che sono allenati a vivere in un ambiente disumano hanno dei limiti e, fatto il record di durata, tornano a terra. Noi non dobbiamo fare nessun record, vogliamo solo vivere in un ambiente migliore.
Non condivido i suoi punti di vista: "L'uomo non è cambiato molto da millenni fa" e "[...] ma la sostanza delle regole sono e saranno sempre quelle." Credo che questo pensiero sia condiviso da chi non vuole vedere il profondo cambiamento sociale e morale che l’innesto delle nuove tecnologie hanno creato. L’alienazione e lo straniamento si producono vivendo in ambienti degradati dalla falsa morale storica, creando ambiguità. Carlo Scarpa si crucciava con il mondo dei restauratori militanti, perché non riuscivano a vedere il cambio della destinazione d’uso che c’è nel DNA in ogni edificio. Credo che sia arrivato il momento di chiedersi come vivono e come vogliono vivere gli abitanti delle cosiddette ‘città storiche’. L’architettura ha sempre cambiato aspetto, sintetizzo, senza codificare, le sue ere:
spelonca/ctono del rifugio
legno/pelle del nomadismo
pietra/abitare delle città
ferro/contenitore dell’industria
cemento/modellazione delle utopie
materiali/bit dell’etere/o
Il male dell’Italia è di credere che le sue pietre siano eterne. Il male dei nostri storici è che l’architettura è segno e non sempre può essere vita del contemporaneo. Per non creare equivoci, amo profondamente l’architettura del passato, ma non posso più pensare a una nazione che non riesce a costruire nel presente. Salvatore D’Agostino.
se posso, umilmente visto che degli astanti sono sicuramente il meno titolato, da neolaureato. Credo che ci sia un po' di verità in entrambe le posizioni. E' vero che, come è spesso successo quando una voce innovativa si è stagliata sopra il coro nel secolo scorso e anche prima, l'interpretazione banale e un po' facilona delle invarianti zeviane e comunque di tanta, BUONA, architettura col senno di poi definita "decostruttiva" ha portato a una deriva di senso che già oggi mostra tutta sua debolezza, al punto da trasformarsi da architettura in puro glamour da portare negli spot pubblicitari, tipo nuvole e quant'altro. E' vero altresì però, che se è sbagliato figurativizzare la disarmonia solo perché la società contemporanea vive un momento di difficoltà sotto molti punti di vista, non si può fare finta che non sia cambiato nulla. E' vero che se il centro storico piace ancora oggi un motivo ci sarà, ma è anche vero che le sensibilità cambiano, e che una società che vive il suo tempo abbia il diritto di esprimersi, con rispetto sia chiaro, ma secondo la propria sensibilità, e qui entra in gioco la preparazione culturale e il ruolo del progetto di architettura, tutt'altro che esaurito a mio modo di vedere, checché ne dica Andrea Branzi o chi per lui.
E qui torniamo al dilemma. Esiste una terza via? Io credo di sì. Purtroppo oggi la cultura architettonica di massa, che purtroppo sta entrando anche nelle università con movimento esattamente opposto rispetto a quello che dovrebbe essere, fagocita tutto ciò che rompe gli schemi rispetto a un palazzo rinascimentale e lo bolla come "decostruttivo". E qui purtroppo nasce un tourbillon veramente vizioso, in cui la faciloneria dell'interpretazione e la deriva formale cui accennavo poco fa si rincorrono incessantemente, con il risultato da un lato di offuscare le menti, e dall'altro di popolare le riviste di architettura di ameboidi e quant'altro.
Io credo che vada fatto un po' d'ordine. La dicotomia storia-decostruzione secondo me è un sofismo: non può esserci decostruzione senza storia. Anzi, è proprio da una conoscenza approfondita della storia che può partire una seria decostruzione, che, semplificando rozzamente, altro non può essere che una ricodificazione decontestualizzata, o, aggiusto il tiro, artatamente ricontestualizzata. Mi pare che lo stesso Eisenman in "Notes on conceptual architecture: toward a definition" e "The futility of objects" lo dica chiaramente. E se vediamo le cose in questa maniera, vedremo che la casa Giuliani-Frigerio, come molte altre di Terragni, è eminentemente decostruzionista, così come lo sono molte architettura manieriste del '500 veneto, le prime chiese del Seicento romano, piuttosto che alcune delle opere meglio riuscite di Richard Meier (non l'Ara Pacis...), Rafael Moneo o Alvaro Siza. Il vero problema, secondo me, è che manca oggi, soprattutto nelle università italiane, un vero dibattito su questi temi, sui nuovi autori (nuovi...degli ultimi trent'anni), un dibattito che parli di estetica del contemporaneo in senso di METODO, in senso veramente e intrinsecamente PROGETTUALE, senza più baloccarsi con lo storicismo fine a sè stesso o riempirsi la bocca di discorsi in architettese che, scava scava, alla fine si risolvono quasi sempre nel gusto personale di chi parla. Fino a quando non ci sarà una vera e matura sperimentazione progettuale fondata imprescindibilmente su uno studio cosciente di testi teorici finora sconosciuti (Zevi, Tafuri, Eisenman...chiedete a uno studente del terzo anno se ha mai letto qualcosa di questi qui) e su una conoscienza precisa dei riferimenti storici, resteremo, a mio modo di vedere, sempre impigliati in un dilemma vecchio come il mondo e ormai stantio, ma soprattutto continueremo a vedere ameboidi e affini, a sparare anatemi (sacrosanti) su di essi e a credere che non vi sia alternativa a questi se non lo storicismo cieco o il revival stile Krier e molti altri Po-Mo.
In definitiva, mi riconosco molto in una chiosa di Salvatore D'Agostino: "Le nostre beneamate pietre cominciano a pesare perché fissandole abbiamo dimenticato l'arte del costruire." Io aggiungo che non fissiamo solo le nostre beneamate pietre, ma anche la nuova architettura glamour che i massmedia e le archistar cercano di propinarci. Credo che sia venuto il moneto di smetterla di rimanere lì a fissare, ma sia ora di ricominciare a progettare.
Scusate la lunghezza e complimenti per il blog.
Davide Cavinato
x Davide.
Banalizzo il tuo pensiero: l'architettura di Krier è un assurdo ritorno al passato, l'architettura ameboide fa schifo. Conclusione: ci vuole la TERZA VIA. Come trovarla? Progettando e progettando (scusa la brutalità).
Io dico: sono almeno 60 anni che si progetta e i risultati non ci sono, se riconosciamo che le città sono molto peggiori di prima. Io nel mio post ho estremizzato il discorso, perchè ho fatto un ragionamento logico (e perchè dichiaro che il blog è molto fazioso) per dedurne che, tra una mezza insoddisfazione e una doppia insoddisfazione preferisco la prima, perchè so benissimo che nella pratica professionale, nella progettazione quotidiana la terza via esiste sempre. Ma, qui sta il problema, a me come a molti non basta. L'architettura ha dei principi che sono stati scritti ben prima del XX secolo e i nostri predecessori non possiamo considerarli dei fessi se non conoscevano il ferro per le costruzioni. Allora dobbiamo trovare il modo di applicare quei principi al mondo di oggi, avendo però questo obbiettivo: l'architettura è fatta dall'uomo e per l'uomo, non ha valore assoluto in sè, vale solo in relazione all'uomo; quindi dobbiamo trovare un tipo di architettura in cui l'uomo possa vivere bene. Per dirla spiccia tra una casa di Krier e una casa di Libeskind io preferisco vivere in una di Krier, quindi immagino che la nuova architettura assomiglierà più a questa che all'altra. Se la pensi così anche te non siamo molto distanti.
Saluti
Credo che il pensiero all'inizio sia banalizzato sin troppo. La soluzione indicata non è progettare e progettare in termini quantitativi, quello era uno slogan, anche se capisco che uno slogan può essere semplicistico e fuorviante. Lo so bene che certe regole dell'architettura sono state scritte prima del XX secolo, e siamo tutti abbastanza seri per capire che non è colpa degli antichi se non avevano cemento e ferro, ma è proprio questo il punto: noi ce l'abbiamo, ed è pertanto giusto che agiamo di conseguenza. Per mi natura detesto le posizioni manichee: non mi permetterei mai di dire che l'estetica che sta dietro a Krier sia assurda, e sono altresì convinto che una sua casa sia ben più vivibile di un arzigogolo di Libeskind. Non è questo il punto o perlomeno non mi interessa: anzi, forse questo è proprio l'impasse da superare. Non sono di principio né per Krier, né per Libeskind: dico solo che perdersi in una dicotomia vecchia come l'architettura tra passatismo e modernismo senza rinnovare gli strumenti progettuali a nostra disposizione, o perlomeno senza provare a farlo, in un momento in cui c'è chi sostiene che in edilizia si sia detto tutto o quasi, significa veramente per me la morte della professione e del disegno di architettura. Lo vedo anch'io che la qualità delle città è sempre più bassa, e sono profondamente convinto che oltre a una serie di ragioni molto poco poetiche e assai più "terra-terra" che chi lavora conosce meglio di me, la causa di questo sia un modo di procedere ormai stantio, che si è allontanato via via dall'evoluzione del mondo e della società, almeno in Italia. E, guardacaso, l'università ne è diretta testimone. Possibile che, almeno quando ho fatto il primo anno io, l'unico spunto di riflessione teorica non derivante da ricerche autodidattiche fosse l'inflazionatissimo (ma imprescindibile, per carità, anzi, meno male che c'era almeno quello)confronto tra "Manière" e "Der Stadtebau", e poi basta negli anni successivi?
Allora correggo lo slogan: ricominciamo a pensare a cosa progettiamo, ricominciamo a studiare, e ricominciamo a considerare il progetto di architettura come un'occasione di ricerca, almeno all'università. E allora ci accorgeremmo che la "terza via" c'è già, c'è sempre stata e molti l'hanno percorsa prima di noi, anche prima del XX secolo, solo che negli ultimi sessant'anni abbiamo perso il tempo, o forse la voglia, o forse il coraggio, di seguirla. O forse, più tristemente, non conviene più economicamente.
Saluti
RE-DAVIDE
Diffidare sempre degli...umili. Complimenti per essere, come dici, un neolaureato poco titolato!
Condivido assolutamente il fatto che l'università debba essere luogo di "ricerca" e non officina di legulei. Per ricercare però bisogna prima conoscere i fondamentali (non mi riferisco a te, ovvio).
Comunque io conosco il mondo della professione ma non quello dell'università e non voglio far finta di sapere tutto.
Per il resto...chapeau
Grazie! Allora vuol dire che mi sono meritato almeno il link al blog?:-)
Saluti
Certamente, ma non sperare che ti serva a qualcosa!!!
Saluti
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